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Quando si navigava coi trabaccoli
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Quando si navigava coi trabaccoli

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Quando si navigava con i trabaccoli è una preziosa raccolta di annotazioni sui costumi, i gerghi, i tipi di navigazione delle genti di mare dell'Adriatico.
Il volume si divide in tre parti:
il trattato dei trabaccoli descrive le barche tradizionali per la pesca e il trasporto dei materiali e rievoca la vita dei pescatori in mare, nei porti, nelle osterie;
nei diari di spiaggia e costa Dino Brizzi racconta i periodi dell'infanzia, dell'adolescenza e della giovinezza, dal primo incontro con il mare negli anni '20 fino all'esperienza di medico in tempo di guerra;
infine il glossario finale rende comprensibile a tutti la terminologia marinaresca.
LanguageItaliano
Release dateMar 26, 2015
ISBN9788874722730
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    Quando si navigava coi trabaccoli - Dino Brizzi

    srl


    INTRODUZIONE

    Credo fosse il 1991 quando, girando le diverse biblioteche della costa romagnola per costruire una bibliografia sulle marinerie locali, trovai nel Centro culturale polivalente di Riccione, un po’ appartato, il Trattato dei trabaccoli di Dino Brizzi. Sfogliandolo, rimasi subito conquistato dall’originalità della sua configurazione e da un piacevole paradosso. Da un lato esso descriveva la vita dei pescatori, focalizzando alcune condizioni sia in mare che a terra con una padronanza ed un’accuratezza che solo un navigante con esperienza diretta negli anni della marineria velica poteva avere, dall’altro la sua scrittura mostrava un’abilità linguistica e letteraria che inverosimilmente potevano appartenere a un marinaio o un pescatore imbarcato negli anni ’30 e ’40. Successive indagini mi portarono, dopo un paio d’anni, sulle tracce dell’autore, che contribuì a svelare, almeno in parte, l’alchimia di quel testo. Riccardo (Dino) Brizzi è infatti un uomo di mare, senza essere propriamente marinaio di professione, perché il suo mestiere è stato quello di neurochirurgo a Parma, come primario ospedaliero e docente universitario. «Un uomo – ci dice – che, tuttavia, è stato costretto dal destino, e da qualche altra cosa, a parlare di mare, a far fotografie di mare... Perché la questione del mare è strana. Il mare è una specie di infezione che colpisce gli individui anche lontani dal mare. […] Io sono, per esempio, nato nella bassa bolognese, in un posto dove c’eran solo delle valli. Il mio mare era profondo solo quaranta centimetri, si andava a caccia col barchino, si portava ogni tanto il frumento con la barca e con la pertica, ma… non era mare. Ebbene, questo mare mi ha attirato e non si sa perché…»¹. Il perché Brizzi lo racconta in queste due pubblicazioni, il Trattato dei Trabaccoli e i Diari di spiaggia e di costa, scritte di getto a distanza di tempo, che, raccolte in questo volume, consentono al lettore una felice integrazione.

    La prima edizione del Trattato dei Trabaccoli venne data alle stampe trent’anni fa, nel 1969, dalla rinomata Tipografica Luigi Parma di Bologna. La pubblicazione avvenne quasi per caso, grazie allo scherzo di un amico che, all’insaputa di Brizzi, portò via il manoscritto e tornò con tutta la tiratura ed il conto, allora sostenibile, di trecentomilalire da sborsare in contanti. Fin dalle prime righe del Trattato ci si trova immersi nel mondo vitale e concreto della marineria romagnola; lo si attraversa come in una corrente inarrestabile in cui fluiscono immagini, voci, odori, canzoni, colori, che producono un effetto d’insieme evocativo e di risonanza poetica. Basta fissare lo sguardo su una vela o afferrare il capo di una resta nella pagina scritta che sfilano, incollati l’un l’altro in un’indissolubile totalità, gli elementi materiali e simbolici del mare e del suo universo culturale. I capitoli raccolgono i gerghi, i caratteri, i personaggi delle marinerie di Rimini, Bellaria, Riccione, fino a quelli del Ravennate e del Pesarese, riecheggiando la sensibilità e la mentalità collettive delle genti di mare. Il Trattato è nato come un grande canto corale da interpretarsi nei modi propri dell’osteria, che intona e dà il ritmo ai suoi versi fino all’acuto finale. Questa è anche l’immagine che suggerisce Gianni Quondamatteo nella sua Romagna Civiltà, cui Brizzi ha direttamente contribuito con uno scritto e numerosi scambi verbali per la stesura del capitolo sulla Civiltà marinara. Nei ringraziamenti Quondamatteo si rivolge a Brizzi chiamandolo affettuosamente «cultore innamorato della vela, autore del ditirambico Trattato […], uno degli ultimi canti alla poesia del mare, dal quale hanno tratto non pochi motivi di ispirazione gli autori di queste pagine»². La collaborazione di Brizzi con Quondamatteo riguarderà in seguito anche il Dizionario Romagnolo (Ragionato)³, attraverso la discussione di molti termini marinareschi relativi alle parti dell’armamento delle barche, all’attrezzatura, ecc.

    Questa riedizione del Trattato dei trabaccoli, mantenendo integrale il testo e le illustrazioni, è stata arricchita di un glossarietto per rendere più comprensibile la fitta terminologia marinaresca. Sulla necessità di recupero e salvaguardia della specificità gergale delle marinerie locali si incentra una delle grandi questioni dibattute da Brizzi circa gli effetti dell’americanizzazione attraverso la diffusione dei termini anglosassoni e, più in generale, della perdita dei saperi di cui è intrisa la cultura ereditata dal passato. «Adesso, tutta la terminologia è scomparsa. Ma perché dobbiamo seguitare a dire cockpit, dobbiamo seguitare a dire bolero, dobbiamo seguitare a dire termini americani? Abbiamo una terminologia nostra meravigliosa: ma sapete che parascùsie (lat. asconsae) è un termine greco, che paramzel è un termine greco, che tutta la nostra marineria è piena di termini bellissimi che si presterebbero ad un lessico profondo di cui sarebbe non male fare uno studio veramente dettagliato. Sapete che la resta, quella del salpar la rete, è un termine latino da restis. Quando si dice di una costruzione navale: ‘lo scafo è stato in orto due anni’, è latino. Senza saperlo, molti, parlando nel dialetto locale lungo tutta la costa romagnola, parlano ancora il latino. Ebbene, tutti questi termini, tutto questo tesoro, questo lessico formidabile, questa dettagliatissima serie di nomi che indicano le più minute parti della barca, le più minute parti e bellezze delle manovre, sono state distrutte da una serie di inserzioni di termini americani, anglosassoni, malfatti. Soprattutto a mezzo delle cosiddette riviste nautiche sono stati infilati nella testa dei nostri giovani discorsi come strambare […], che non si riferirebbe al ‘virare in poppa’, ma al vento! È il vento che stramba, non è la barca! La balùmina, l’è e’ fil dla vela; si dice anche in Veneto: la balumina. Balumina deriva dal portoghese baluma che deriva dal latino volumen. Non c’entra niente. Fate un esame di questi termini e vedrete delle cose meravigliose […]».

    La questione della lingua si lega ad altri due aspetti fondamentali connessi al recupero culturale dell’esperienza marinara: da una parte il ripristino delle imbarcazioni storiche abbandonate lungo la costa in stato di disfacimento, dall’altro la ripresa delle tecniche di navigazione e di manovra con le vele al terzo. A questa, che è una grande sfida civile, Dino Brizzi, nel corso di questi ultimi anni, ha dato rilevanti contributi personali, sia donando la propria imbarcazione I Tre Fratelli alla Città di Cervia (donazione avvenuta dopo un peregrinare fra indifferenze e dinieghi di varie amministrazioni pubbliche della costa romagnola e non solo), sia collaborando a più riprese e a diversi livelli con associazioni, istituzioni culturali ed enti pubblici offrendo interventi didattici e consulenze.

    La seconda parte del libro raccoglie i Diari di spiaggia e di costa che preludono e lasciano intravedere quel che, in un certo senso, il Trattato sottace.

    «Lì c’è, tutto a quadrettini, a raccontini anche separabili, la vita di un bambino che all’età di quattro anni si trova sulla spiaggia del mare, corre e si accorge che cadendo sulla sabbia non ci si fa male. Allora comincia a correre e cadere apposta, e poi si trova davanti al mare e…». Il luogo è la spiaggia di Riccione, di cui Brizzi diviene abitatore stagionale per oltre settant’anni. Oggi i suoi soggiorni si sono fatti più rapidi e sporadici, gli è difficile identificarsi nelle trasformazioni e negli effetti della modernizzazione turistica che tutto pervade. L’Adriatico preferisce frequentarlo più da lontano (o da vicino) nei paesaggi che gli affollano i pensieri e prolungano la memoria. I Diari sono stati trascritti fedelmente, rispettandone la sequenza e l’integrità; tuttavia si è voluto scandirli in tre parti, legate ai periodi dell’infanzia, dell’adolescenza e della giovinezza, seguendo alcune tematiche emergenti. La prima riguarda l’immaginario balneare della villeggiatura a Riccione negli anni ’20, con l’iniziazione al mare e la scoperta dei lavoratori della spiaggia, bagninimarinai e affittacamere. La seconda si incentra sull’audace viaggio di formazione di Brizzi da un capo all’altro dell’Adriatico – da Cesenatico fino al fiordo di Leme in Istria – a caricar legna sul Trabaccolo Luigi L. in compagnia dei marinai bellariesi. La terza parte riporta il crudo addestramento alla futura professione di medico quando, ancora studente al quint’anno, è assistente ospedaliero in una Riccione sconquassata sotto i bombardamenti del fronte di guerra, dove il mare mai gli era parso così muto e distante.

    Dal tempo di queste cronache di vita, e negli anni che seguiranno, ad ogni stagione si rinnova e si intensifica quel patto segreto che Brizzi ha stabilito con l’Adriatico e la sua gente. «Mio padre era un ferroviere, ebbe l’incarico un anno di assumere il servizio di economato alle colonie dei ferrovieri cosiddetti fascisti a Igea Marina. Lui sapeva che avevo passione per il mare: a quindici anni avevo un moscone a vela. Con lo Scirocco prendevo su e andavo da Riccione a Bellaria col moscone, che era già un bel girettino...», poi «… ho cominciato ad aver contatti col mare attraverso la pesca, attraverso il piccolo traffico, attraverso una barca mia personale. La prima è stata una battana, si chiamava Pensa per te, poi una lancia di sei metri, entrambe comprate a Bellaria; poi una lancia di dieci metri attrezzata che adesso è finita al Comune di Cervia. Insomma, questo mare non mi ha più abbandonato, mi ha seguito negli Stati Uniti, mi ha accompagnato nelle acque della Westerschelde in Belgio, sono stato in Olanda, ho finito per sposare un’olandese... Insomma, quest’acqua mi ha pervaso completamente, sicché, oltre tutta una vita passata in una sala operatoria dove il vento non tira, quando potevo, cercavo la libertà in quello che era il mare di una volta.

    Purtroppo, mi duole dirlo, oggi la somma di regolamenti, l’affannarsi delle vigenti disposizioni, tutto quello che è stato fatto contro la navigazione da diporto, non la rendono più tale. Noi andiamo in mare e siamo un po’ perseguitati, pur garbatamente o meno, da almeno cinque polizie. Ne basterebbe una per noi. Occorre la Capitaneria di Porto, la Guardia di Finanza, la Polizia di Stato, i Carabinieri, la Polizia Regionale. Se fossimo vicini a un penitenziario, ci sarebbe anche la polizia penitenziaria. Quindi, praticamente, quelli che una volta erano i pericoli del mare (il vento da Bora, che si poteva pigliare là alla Punta della Pila, che poteva essere una garbinata da spaccarti la trozza, quando avevi i terzaroli e non potevi andare a sbandare, che pigliavi l’acqua dentro), quello che poteva essere, insomma, la fatica, il combattimento leale tra l’uomo e la natura, oggi è diventato un combattimento tristissimo, tanto che, quando vediamo di lontano una pilotina, ci sentiamo venire i brividi, perché, se qualcuno di loro ti viene a bordo, la contravvenzione e l’ammenda sono cosa sicura. Quindi, ho dovuto eliminare i miei mezzi nautici e dedicare al mare i miei ricordi».

    Brizzi ricompone, anche se in modo parziale ed essenziale, le annotazioni sugli elementi della navigazione, i modi di vita, le forme espressive della cultura orale dei pescatori che gli derivano dall’osservazione e dal contatto rispettoso e prolungato con quegli uomini che di quella cultura sono stati gli autentici testimoni e portatori. «Quando ancora i motori non c’erano, io ho avuto la fortuna e la buona ventura di girare con queste barche, erano barche minori, le più piccole, e vedere l’arte marinaresca del tonneggio… del servirsi dei cavi lunghi per fare gli spostamenti in porto, del lavoro con il battello a quattro remi, a due remi, tre quattro persone al rimorchio per virare… era un’arte antica. Credo di aver visto gli ultimi guizzi di un’arte marinaresca che poteva risalire ai fenici, perché non è cambiato mai niente. Adesso, negli squeri, quando si tirano le barche in secco, lo scivolo ormai non c’è più. Fanno queste enormi macchine che prendono un peschereccio… Io ho visto ancora l’argano girato a mano…, la voce (il comando) data da uno, noto per la sua voce forte… A Cattolica c’era un certo Pipìn, che gridava «on e dooooo…» («uno e due»), tutti attenti!, «e tre dai!», e tiravano tutti assieme. C’era questo grido di richiamo, che «on e do» voleva dire «tutti pronti», questi si mettevano in tensione, «e tre dai» era lo sforzo collettivo. C’era anche l’«oooo issa…». Poi c’erano i comandi, gli ordini naturalmente dati in modo molto sintetico, rapido, però sempre comprensibile.

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