La moglie di Dio
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La moglie di Dio - Francesco Grasso
Francesco Grasso
La moglie di Dio
Èchos
47
Edizioni Ensemble
© 2015 Edizioni Ensemble, Roma
Edizione digitale dicembre 2015
ISBN 9788868811136
Store on-line: http://www.wikibook.it/edizioni-ensemble/
www.edizioniensemble.it
direzione@edizioniensemble.it
Edizioni Ensemble
Francesco Grasso
La Moglie di Dio
ISBN: 9788868811136
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un prodotto di Simplicissimus Book Farm
Indice
LA MOGLIE DI DIO
LA MOGLIE DI DIO
Prologo
I condomìni, ha detto qualcuno, sono libri fatti di persone. Uomini, donne, famiglie poste forzosamente a contatto tra loro come parole nelle pagine di un romanzo, disposte e ordinate in frasi di senso compiuto solo agli occhi di Dio.
Roma, 11 agosto 2014
Sono in stand-by tra i cuscini del divano, mortalmente annoiato da un thriller su Rai Movie che proprio non riesco a seguire, quando d’improvviso avverto un frastuono. Viene dalla tromba delle scale. Frugo sul tavolino in cerca del telecomando, premo mute, tendo le orecchie.
Ѐ un bussare frenetico. Carne picchiata con veemenza contro battenti di legno. Distinguo grida, imprecazioni. Una lunga scampanellata. Una seconda, quasi infinita. Una terza.
Squilla anche il telefono. Rispondo soffocando una bestemmia.
«C’è un’ambulanza, giù in strada» gracchia la cornetta. Riconosco l’ansimare tabagico del professor Monti, interno sette. «L’ha vista, ingegnere? Che succede?».
Raggiungo la finestra, scosto le tende. Il veicolo sanitario è parcheggiato di traverso sul marciapiede, «118 Unità di Soccorso» leggo. Nella luce bluastra del lampeggiante distinguo una barella e due uomini in pettorina color nazionale olandese.
«Non so, professore» ammetto, tornando al telefono.
«Be’, s’informi, allora» ribatte acidamente Monti. «Lei è il nostro amministratore adesso, ricorda?».
Chiude senza salutare. Lo mando silenziosamente affanculo. Poi infilo di malavoglia i pantaloni ed esco sul pianerottolo. I colpi e le grida giungono dal pianterreno. Scendo le scale con circospezione, rendendomi dolorosamente conto d’essere ancora a piedi nudi.
«Che succede qui?».
Nessuno mi dà retta: non i portantini, che hanno adagiato la barella contro i vasi dell’androne e fumano con aria svogliata; non il donnone, una sosia di Kathy Bates con lo stemma del 118 cucito sulla divisa, che s’incaponisce sul campanello in un atto di protervia piuttosto futile; non l’anziano in vestaglia (riconosco il ragionier Pace, uno dei miei elettori condominiali) che si spella le nocche e recita una compilation d’anatemi contro il portoncino dell’interno uno.
So chi vive in quell’appartamento, le sorelle Sangallo. Due gemelle, credo vedove, d’età indefinibile ma certo ben oltre la soglia Fornero. Non credo di aver mai scambiato con loro più di un Buonasera prestampato. Altezza da hobbit, mai vestite di un colore diverso dal nero, a stento distinguibili l’una dall’altra, le due sorelle sono icone di donna con frasario da cinema muto.
Afferro Pace per il gomito, lo scuoto, gli chiedo spiegazioni. Lui si volta, bofonchia qualche sillaba con accento molisano. M’illudo che si sia accorto della mia presenza, poi realizzo che si rivolge alla moglie, il cui viso costernato fa capolino dall’appartamento di fronte.
«Maria!» strilla e scrolla, come fossero bagnate, le mani doloranti. «Per tutti i santi! L’hai trovata, quella chiave?».
Lei gli allunga un bislacco portagioie a foggia di coccinella e si affretta a tornare al riparo dell’uscio socchiuso. Pace fruga nel portagioie, annuisce soddisfatto, torna a vociare contro il portoncino dell’interno uno.
«Signora Sangallo! Ora basta! Apra o lo farò io!»
«Inutile» sento obiettare la signora Pace. «La matta avrà messo il paletto, credete a me».
Poi si accorge che la sto fissando e si ritira al coperto. Intravedo l’ombra del suo viso dietro lo spioncino.
«Vogliamo muoverci?» esorta la Kathy Bates del 118 indispettita, «cosa credete, che abbiamo tutta la notte?».
Pace fa scattare la serratura. La porta arretra di pochi centimetri. Il fermo di sicurezza arresta il roteare dei cardini con un tlang secco.
Il ragioniere appella nuovamente una maggioranza qualificata dei santi del calendario. Dall’apertura si fa strada una lama di luce. Stringo gli occhi, tento di scrutare nel varco.
Sussulto. Per un attimo mi è sembrato di distinguere una delle sorelle Sangallo. Ingobbita sul sofà dell’ingresso, uno scialle color tristezza stretto addosso nonostante il caldo agostano, il volto atteggiato in un’espressione ieratica – sembra la comparsa di una pellicola di Dario Argento.
Il donnone del 118 mi spinge da parte. «Lo chiedo per l’ultima volta! Ci faccia entrare!».
La voce della Sangallo è flebile, poco più di un vagito. Vi colgo malessere, stanchezza, ma anche paura.
«Dov’è il dottore?».
Kathy Bates si torce le mani. «Ancora? Lo ripeto, io sono la dottoressa Bellini, con me c’è una squadra specializzata in pronto intervento. Ora tolga quel chiavistello o chiamo una volante»
«Un dottore femmina…?» la voce flebile ha un guizzo sarcastico, poi si spegne. Sul viso della vecchia si ricompone una maschera da teatro Kabuki.
Il donnone del 118 sembra valicare una personale soglia di sopportazione. Controlla l’orologio, si morde le labbra, poi schiocca le dita all’indirizzo dei portantini. «Voialtri, buttate giù la porta».
I due, che hanno ormai vuotato il pacchetto di Marlboro, si scambiano un’occhiata incerta.
«Buttarla giù?» biascica il primo, scuotendo a manate la cenere dalla pettorina arancione.
«Sotto la mia responsabilità» precisa la donna.
L’infermiere scrolla le spalle, si avvicina, valuta la situazione con aria scettica.
«Nun te preoccupa’ Spartaco» interviene il secondo. «Lassa fa’ amme».
Lo scansiono da capo a piedi. Ha i tratti di Tomas Milian in Squadra Antitruffa. Tatuaggi runici affiorano tra le pieghe della divisa da infermiere. Si gonfia in un respiro olimpionico, poi sferra un calcio con lo scarpone Lumberjack contro la porta dell’interno uno.
Il fermo va in pezzi. Io e Pace sobbalziamo per il colpo. Mi sorprende notare che la vecchia Sangallo, al contrario, rimane avvoltolata nello scialle con aria indifferente. Non fa una piega neppure quando il trio della ASL, senza troppi complimenti, quasi la scavalca per irrompere nell’appartamento. Pace dichiara dove si trovano le camere da letto. La squadra scompare oltre l’angolo del corridoio.
Riafferro il braccio del ragioniere. «Vuol dirmi cosa…».
Non riesco a concludere la frase. Il grido soffocato dei portantini precede solo di un istante l’urlo stridulo, raccapricciato, della dottoressa.
1
Roma, 12 agosto 2014
«Aveva bussato ieri sera» confessa il ragionier Pace – ha un tic nervoso all’occhio destro – ma nel suo tono colgo un’esitazione: forse è imbarazzo, forse paura, non so dirlo.
«Saranno state le nove» precisa sua moglie, porgendomi lo zucchero.
La tazzina di caffè, noto, ha il manico sbeccato. Anche il salotto, che occupa gran parte dell’interno due, ottanta metri quadri proprietà dei coniugi Pace, deve aver conosciuto anni migliori. Il parquet è logoro, il tavolino malfermo, le tende puzzano di canfora e di cattivo bucato. È la prima volta, da che li conosco, che i due m’invitano a entrare. Rifletto che l’inconsueta ospitalità testimonia quanto marito e moglie si sentano scossi dagli accadimenti della notte scorsa. Non che io stia meglio: tento semplicemente di far prevalere la curiosità sullo sconcerto.
«Ha detto che aveva bisogno d’aiuto…» prosegue Pace.
«… Perché sua sorella stava male» interviene ancora la moglie. «Insisteva che noi dovevamo chiamarle un dottore».
Io sorseggio il caffè. Il sapore è pessimo: a esser gentili sa di miscela stantia, a essere onesti, di obitorio.
«Perché si è rivolta a voi?».
Il ragionier Pace accavalla la gamba ossuta. È sulla sessantina, forse qualcosa in più, capelli in caduta libera, fronte arata, naso perentorio. Una sorta di Claudio Bisio virato in seppia.
«Be’ ingegnere, sa com’è: a volte svolgevo qualche servizio per le Sangallo. Cambiavo le lampadine fulminate, riparavo le serrande, roba di questo genere. Ci arrotondavo la pensione».
«Ora non più?» m’informo.
«Be’, ingegnere…»
«Le matte lo trattavano come un maggiordomo» s’intromette la signora Pace, «avrebbero dovuto pagarlo il triplo. Gli ho detto di mandarle a quel paese. Aldo non sa proprio farsi rispettare, credete a me».
Dev’essere proprio così, penso, a giudicare da come l’ex ragioniere subisce le ingerenze della moglie. Poi metto a fuoco un’altra stranezza: la signora Pace è insolitamente ciarliera. Da quando ha acceso il fornello sotto la moka ha totalizzato, credo, più parole di quanto io le abbia sentito pronunciare dall’ultima eclissi. Presumo sia una di quelle donne che fuori di casa si pongono sulla difensiva, e solo tra le pareti domestiche si sentono in grado di fronteggiare gli estranei.
Le dedico un’occhiata. Dimostra dieci anni meno del marito, ma disloca almeno venti chili in più. Tre quarti di Cinzia Leone, un quarto di Sora Lella. Il suo tratto più appariscente sono gli occhi, profondi, vivaci, ficcanti: la signora Pace scaglia intorno sguardi come fossero palle di fucile.
Decido di tagliar corto. «Allora siete stati voi a telefonare al 118?».
Lui annuisce. Nell’aumentare del tic all’occhio destro indovino il motivo delle sue esitazioni, e percepisco paura. Ma di cosa? Di una possibile indagine di polizia? Improbabile: la pattuglia che è spuntata ieri sera ha pensato solo a rimuovere il corpo. Giusto il minimo sindacale di foto e via. Altro che impronte o prelievi di DNA, non vedevano l’ora di tornare all’aria condizionata della loro Alfetta. Sul momento ne sono rimasto stupito, poi ho concluso che Anna ha ragione: mi faccio troppo influenzare da CSI.
Dunque? Forse quella dei Pace è solo paura della vita in agguato fuori dall’uscio dell’appartamento. Insisto, e alla fine il ragioniere cede.
«Sì, ingegnere: ho fatto io la chiamata. Ho spiegato la situazione, ho lasciato nome e indirizzo. A quel punto la Sangallo ha sbroccato. Per tutti i santi, quante me ne ha dette! Non voleva sentir parlare di ambulanze, di portare la sorella in ospedale, di…».
La signora Pace ruba ancora la parola al marito: «La matta pensa di vivere come cent’anni fa. Credete a me, nella sua testa ci sono ancora i dottori che fanno visite a domicilio col cappello nero e la borsa di cuoio. A lei si sono mai presentate come baronesse?»
«Chi, le Sangallo?
«Spergiurano di essere nobili decadute» spiega Pace, «aristocratiche spodestate, roba del genere. Straparlano di titoli e possedimenti, accusano la malasorte di aver loro portato via tutto».
«Tranne la spocchia» precisa la moglie.
Depongo con attenzione la tazzina sul vassoio. Secondo me, una goccia di questo millantato caffè corroderebbe il tavolino più del sangue di Alien. «Possiamo tornare a stanotte?
Cos’è successo?»
«Che devo dirle, ingegnere? La matta strillava che il nostro era un oltraggio, che le avevamo procurato facchini invece che dottori, che era tutto un trucco, che volevamo derubarla» «Se diffidava di voi, come mai vi aveva lasciato le chiavi?».
Pace scuote nervosamente il capo. «Le chiavi me le aveva date Claudia, mica la matta, nel caso ci fosse un’emergenza e lei fosse fuori città, almeno così mi aveva detto. Non so a che emergenza si riferisse, credo che mai potesse immaginare…» «Claudia?» ripeto.
«La nipote» interviene la signora Pace. «Non l’ha conosciuta? Matta furiosa, proprio come le zie. C’è qualcosa nel sangue dei Sangallo, credete a me»
«Suppongo che si debba avvertirla di quanto è successo» considero.
I due mi squadrano titubanti. All’improvviso realizzo che la ragione dell’insolito invito dei Pace non è avvelenarmi con questo espresso da codice penale.
«Dovrebbe pensarci