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Il Segreto del Presidente
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Ebook458 pages6 hours

Il Segreto del Presidente

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‘IL SEGRETO DEL PRESIDENTE’

La nuova strategia del fondamentalismo islamico

Sinossi

Che cosa accadrebbe al mondo se il fondamentalismo islamico riuscisse ad appropriarsi dei centri del potere politico e addirittura riuscisse a manovrare la massima carica, il presidente degli Stati Uniti d’America?

Nel prologo, un bambino rapito; un progetto di lungo periodo dell’integralismo islamico per la conquista dei centri di potere, un campo di addestramento nel deserto.

Malcom Powell, afroamericano e, da due anni, già sindaco di New York, membro della chiesa Battista, sposato a Elisabeth, si candida alle primarie per il partito democratico. Si allea con il governatore della Florida, resosi indipendente dal partito repubblicano, con lo scopo di ottenere i voti degli ispanici, necessari per battere l’avversario.

A Wilson, governatore della Florida, promette la vicepresidenza e con il suo aiuto ottiene la ‘nomination’ e viene quindi eletto alla presidenza degli Stati Uniti.

Malcom Powell, ora presidente degli Stati Uniti d’America, inizia a mettere in atto, immediatamente, una serie di provvedimenti che per la loro natura lo costringono pian piano a palesare la sua vera identità. Incurante delle critiche del suo staff, rivoluziona la politica americana, non soltanto ponendo fine alla guerra contro l’Iraq, cosa che faceva parte del suo programma elettorale, ma disponendo un immediato ritiro da quel paese e anche dall’Afganistan, senza nessun riguardo per l’incolumità dell’esercito americano, e per quanto potrebbe succedere alle popolazioni locali.

Powell cambia inoltre profondamente la politica mediorientale statunitense, ritirando il sostegno a Israele, imponendo il loro ritiro dai territori occupati e sostenendo la necessità di indennizzare il mondo islamico.

In realtà, dal prologo e da alcuni precisi indizi, il lettore comprende assai presto che Malcom Powell non è solo il primo presidente afroamericano, come tutti credono, ma una pedina del fondamentalismo islamico, che un “grande vecchio”, è in grado di manovrare come un burattino, avendolo rapito da bambino e avendo predisposto anche un suo preciso addestramento al fianco di uno dei più spietati leader del terrorismo islamico.

La conversione ‘ufficiale’ all’Islam è l’atto finale del presidente. Se da una parte, il fondamentalismo islamico ritiene, ormai, di avere il mondo in pugno, d’altra parte gli amici e collaboratori di Malcom Powell iniziano ad indagare su di lui arrivando a scoprire la verità.

Toccherà alla moglie del presidente, Elisabeth, mettere il marito di fronte alle sue responsabilità. Ma anche dopo il suicidio del presidente, il lettore comprenderà fino a che punto i fondamentalisti islamici siano infiltrati nel sistema, cosa che sarà confermata dal colpo di scena finale.
LanguageItaliano
PublisherAlbert Danton
Release dateApr 12, 2016
ISBN9788892594623
Il Segreto del Presidente

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    Il Segreto del Presidente - Albert Danton

    43

    PROLOGO

    La nuova strategia del fondamentalismo islamico

          Alle due del pomeriggio, in quella domenica di piena estate, nel Bronx, a New York, le strade del quartiere, abitato da poveri disperati e piccoli delinquenti, sembravano deserte. Ai bordi delle vie erano parcheggiate solo vecchie automobili accanto ai bidoni della spazzatura già colmi di rifiuti. L’odore dolciastro e nauseante che ne emanava ristagnava nell’aria arroventata. Dalle finestre aperte delle case giungevano in strada risate e urla. Voci, mescolate a musiche e canzoni ascoltate ad alto volume, permeavano l'aria circostante ma erano come ovattate, quasi filtrate dalla calura.

    L'uomo camminava a passo veloce e dietro di lui la moglie e il figlio lo seguivano cercando di mantenere il suo passo. Il bambino, tenuto per una mano dalla donna, si turava il naso con l'altra per difendersi dal puzzo dell'immondizia che marciva al sole e strattonava la madre per costringerla ad accelerare il passo. Voleva andare via al più presto da quel posto orribile e non respirare più quell’aria fetida. Vestito con un paio di pantaloni corti e una maglietta, sudava copiosamente e non riusciva a capire come sua madre potesse sopportare quel caldo conciata in quel modo. Aveva paura di lei quando la vedeva con quell’abito e, nella sua mente, lei si trasformava in un'altra persona, un'altra donna, minacciosa e sconosciuta.

    Il bambino, nonostante ciò, si sforzò di sorriderle stringendole la mano e non potendo vederle il viso immaginò che lei ricambiasse il sorriso silenziosamente. Amava sua madre ma avrebbe preferito che fosse come tutte le altre madri, e non quell'ingombrante presenza che lo metteva terribilmente a disagio di fronte agli altri.

    Il padre, che camminava spedito davanti a loro, poteva sembrare una persona comune ma il bambino, guardando le sue spalle ingobbite, coperte da quella giacca scura, non poté fare a meno di confessare a se stesso che aveva sempre avuto paura di lui. Non riusciva mai a guardarlo in faccia e tutte le volte che gli si trovava vicino, si faceva piccolo piccolo con una gran voglia di farlo sparire.

    Arrivarono al grande parcheggio semivuoto e il calore diventò, se possibile, ancora più intenso. La loro vecchia automobile luccicava al sole e rifletteva il vuoto che la circondava. Salirci sopra sarebbe stato penoso, pensò il bambino, ma d'altra parte, allontanarsi rapidamente da quel quartiere era quello che desiderava di più. Per tutta la mattina era stato costretto a stare in una stanza spoglia con le finestre sbarrate e una luce bianca, spettrale, diffusa da una lampada al neon. La gente stipata in quel posto non gli era sembrata per niente amichevole ma, piuttosto, gli era parsa rumorosa, sguaiata e aggressiva. Si era sentito intimorito per tutto il tempo, ma soprattutto quando la sua famiglia era stata messa al centro dei loro discorsi. Aveva visto suo padre negare con forza mentre gli altri presenti lo additavano come responsabile di qualche cosa a lui ignota. Non aveva capito niente di quello che avevano fatto e detto ma finalmente era finita, pensò, e si ricordò del pallone che aveva lasciato sul sedile dell'auto. Sperò con forza che, tornando a casa, suo padre gli avrebbe permesso di giocare con i suoi amici. D'altra parte, per quel giorno aveva pregato abbastanza.

    Trascinando la madre per mano, raggiunsero la loro auto. Suo padre stava sedendosi al posto di guida mentre sua madre cercava goffamente di entrare in macchina districandosi fra le pieghe del lungo abito, resa quasi cieca dal velo che le copriva il viso. Il bambino aprì lo sportello posteriore e fu investito da una folata di aria rovente. Si ritrasse per un attimo ma tanto bastò al pallone, che aveva lasciato all'interno, per scivolare via, rimbalzare sull'asfalto e rotolare velocemente lontano. Incurante delle proteste del padre che lo chiamava con piglio autoritario, lo inseguì lungo il marciapiede. Era troppo prezioso per lui e non poteva permettersi di perderlo. Corse rapidamente verso l'altra parte del parcheggio, avvicinandosi sempre di più al pallone che continuava a rotolare lentamente. Lo raggiunse, lo fermò, lo prese in mano, felice di quell'impresa, per lui eroica.

    Il pallone era salvo e dopo avrebbe potuto giocare con i suoi amici. Stava per girarsi e per tornare indietro verso la macchina e mostrarlo a suo padre e sua madre, come un trofeo fra le sue mani. In quell'istante, un boato assordante squarciò il silenzio. Una massa di aria infuocata lo investì con violenza alle spalle, sollevandolo prima e trascinandolo poi a lungo sull'asfalto, fino a farlo fermare violentemente contro un muro. La palla era andata persa ancora una volta ma quello che più gli importava, in quel momento, erano quei forti dolori che sentiva lungo tutto il corpo e che gli rendevano difficile anche poter respirare.

    Immobile sull'asfalto, sotto il sole rovente, sentì in bocca il sapore della polvere e del suo stesso sangue. Rimase così per un tempo che gli sembrò lunghissimo. Poi due forti braccia lo sollevarono e lo strinsero saldamente. Si sentì al sicuro come fosse fra le braccia di sua madre e non ebbe paura quando, sobbalzando, udì il rumore di passi veloci che lo portavano lontano. Poi non sentì più niente.

    L'uomo che aveva preso il bambino corse intorno all'isolato scomparendo alla vista delle poche persone che si stavano avvicinando cautamente all'auto che bruciava. In lontananza, le sirene squarciarono il silenzio e lo sconosciuto fece appena in tempo a caricare sulla sua automobile il corpo inerte del bambino e a dileguarsi.

    Dopo pochi minuti, l'uomo fu al sicuro, in casa sua. Accudì il bambino per diverse ore e attese paziente che si riprendesse. Tamponò la ferita alla testa e disinfettò le altre piccole escoriazioni sperando, in cuor suo, che non avesse niente di grave. Non poteva portarlo in ospedale né chiamare un dottore perché sarebbe stato come firmare la loro condanna a morte. Quelli che avevano fatto saltare in aria la macchina non avrebbero avuto scrupoli a ultimare il lavoro.

    Quando finalmente il bambino riprese conoscenza, aprì gli occhi e, vedendo un viso sconosciuto, si mise a piangere disperatamente. L'uomo cercò di rassicurarlo con parole affettuose, gli dette dell'acqua e gli tenne la mano calmandolo.

    Chi sei? chiese finalmente il bambino.

    D’ora in poi mi chiamerai Padre.

    Il bambino guardò quel viso e quella lunga barba simile a tante che aveva visto quella stessa mattina e pensò che l'uomo gli stesse mentendo. Lui aveva già un padre. Non ebbe il coraggio di dirlo però e invece chiese:

    Dove sono?

    Questa è casa mia e qui sei al sicuro, per il momento.

    Voglio andare via. Voglio mia madre... disse piangendo, mi stanno aspettando, portami da loro. Mio padre si arrabbierà non vedendomi... e dove è la mia palla?

    L'uomo lo guardò impietosito e capì.

    La tua palla è andata persa ma te ne comprerò un'altra!

    No. Mia madre me ne comprerà un'altra, portami da lei, mi sta aspettando in macchina...

    Non ricordi cosa è accaduto?

    Certo che mi ricordo. Stavo inseguendo la palla e sono caduto. Poi ho visto te.

    Sì, figliolo, è così, ma non posso portarti dai tuoi genitori. Loro sono andati in cielo vicino a Dio e da lì ti guardano e ti proteggono.

    Il bambino leccò una grossa lacrima che gli scendeva lungo la guancia. Era salata. Cosa era successo? Perché quell’uomo parlava così? Stava dicendo una bugia, i suoi genitori non erano morti. Loro erano in macchina ad aspettarlo, lo stavano cercando ed erano preoccupati. Quell'uomo con la lunga barba lo aveva rapito e gli avrebbe fatto del male.

    Coraggio figliolo, lo prese e se lo strinse al petto, penserò io a te finché non sarai guarito e poi troverò un bel posto dove portarti.

    Passarono i giorni e i primi, in particolare, furono duri e ci volle tutta la pazienza e l'amore dell'uomo per consolare il bambino. Dopo un po’ di tempo riuscì finalmente a farlo mangiare, a lavarlo e a rivestirlo con un nuovo paio di pantaloni corti e una maglietta. Le ferite superficiali sul suo corpo scomparvero una alla volta e quella più profonda alla testa lasciò solo un piccolo segno che il tempo avrebbe sanato.

    Passarono due settimane e tenere il bambino in casa diventò, per l’uomo, sempre più pericoloso. Decise di dover provvedere al più presto. Quello che bisognava fare andava fatto senza indugio.

    Fu così che un giorno si sedette vicino a lui e disse:

    È arrivato il momento di andare.

    Non voglio andare da nessuna parte. Sto bene qui con te.

    Non è possibile. È pericoloso sia per te sia per me. Ti porterò in un posto dove sarai al sicuro. Troverai una casa e una nuova mamma e un nuovo papà e starai bene e crescerai e diventerai un uomo.

    Non voglio diventare un uomo, voglio restare con te.

    Ti prometto che ti sarò sempre vicino. Saprò sempre dove sarai, verrò a cercarti e ci vedremo spesso. Questo sarà il nostro segreto.

    Che vuol dire? Perché?

    Nessuno dovrà sapere. Devi promettermelo. Deve rimanere un segreto solo fra noi e non dovrai dirlo proprio a nessuno, nemmeno alla tua nuova madre e al tuo nuovo padre.

    Ma perché...

    Perché se parlerai con qualcuno e gli racconterai di me, io dovrò sparire e non mi vedrai più. Se qualcuno saprà di me, dovrò andare in cielo anch’io, vicino a Dio. Invece, se manterrai il segreto, verrò spesso a trovarti, t’insegnerò tante cose e soprattutto t’insegnerò tutte le cose di Dio.

    Il bambino rimase confuso e combattuto, ma di una cosa fu certo: non poteva perdere anche questo nuovo padre che era così buono con lui.

    Allora, me lo prometti? chiese ancora l'uomo.

    Non voglio lasciarti. Il bambino cominciò a piangere.

    Non piangere, adesso sei un uomo!

    Non sono un uomo, sono ancora un bambino...

    No. Ora sei un uomo perché quando si ha un segreto che non si può confidare a nessuno, si diventa uomini. Tu ora hai un segreto e quindi sei un uomo. Promettimi e giurami su Dio che questo resterà il nostro segreto. Io ti seguirò da lontano e sarò sempre accanto a te in qualunque momento ne avrai bisogno. Nessuno però dovrà saperlo.

    L'uomo attese che il bambino assimilasse l'importanza di quella promessa e poi aggiunse, scandendo bene le parole:

    Mohamed, questo sarà d'ora in poi il tuo nome segreto che nessuno dovrà sapere.

    Il bambino annuì ancora poco convinto della necessità di quel nuovo gioco. Poi l'uomo continuò:

    Mohamed, giura che non parlerai mai a nessuno di me, del tuo nuovo nome, e di tutte le cose che in futuro t’insegnerò.

    Lo giuro, disse il bambino.

    L'uomo non era ancora contento e con l'autorità che aveva agli occhi di Mohamed, gli disse:

    Venire meno a un giuramento significa andare incontro alla morte. Ricordati, se sarai uno spergiuro, la morte ti prenderà per portarti negli inferi. Ricordalo!

    Il bambino, pur di non perdere quel nuovo padre, e molto impaurito dalla minaccia ricevuta, acconsentì a mantenere il segreto e lo tenne molto stretto dentro di sé, come aveva promesso. Mantenne il segreto anche quando fu raccolto sulle scale di quell'istituto per orfani e tutti gli chiesero chi fosse e da dove venisse. Mantenne il segreto anche quando, dopo poco tempo, fu portato in una nuova casa ed ebbe un nuovo padre e una nuova madre.

    Il nero della notte era compatto e avvolgeva completamente i quattro uomini che sedevano su pietre polverose intorno a un piccolo fuoco. I loro lunghi abiti scuri non interrompevano il nero circostante, confondendosi con esso. I loro volti, illuminati dal fuoco, sembravano teste mozzate intente a ballare una macabra danza. Il freddo pungente costringeva quegli uomini, uno per volta, a scoprire le mani e avvicinarle alle fiamme, aggiungendo così alla danza dei volti anche quella di mani forti e callose. Il silenzio del deserto circostante unito a quello dei quattro uomini, rendeva assordante il rumore dei piccoli rami secchi che, bruciando, si trasformavano in cenere.

    Poi il silenzio fu rotto:

    Il tuo piano è ambizioso, disse uno dei quattro.

    Ci costerà molti anni di preparazione e milioni di dollari, disse un altro.

    Fino alla fine, non avremo la certezza della sua riuscita e della vittoria. Fu il terzo a parlare.

    Il quarto uomo, che quel piano aveva proposto, non rispose subito, non era sua abitudine. Lasciò che quelle poche parole si disperdessero nel nero vuoto che li circondava e con lentezza estenuante tirò fuori le mani e le posò sul fuoco, quasi a bruciarle. Poi le riportò sotto il mantello, trasferendo il calore dalle mani al suo corpo. Solo dopo rispose:

    L'ambizione ci viene da Dio. Gli anni sono frazioni di secondi, se servono a realizzare il suo grande piano. I dollari sono carta che brucia facilmente al fuoco. E infine, la certezza della vittoria! Quanto deve essere debole la vostra fede per dubitare della vittoria! Dio guida le nostre mani e le nostre menti per uccidere i suoi nemici e debellare la piaga degli infedeli. La vittoria è certa e la certezza ci viene da Dio.

    Il silenzio ritornò padrone. I piccoli rami secchi tacquero anch'essi, ormai ridotti a un mucchietto di cenere scura e la macabra danza di teste e mani mozzate ebbe fine, dissolvendosi in nero e diventando un tutt'uno con la fredda notte del deserto.

    Il campo nomade era silenzioso, anche se ancora non era notte fonda. La disciplina era ferrea e nessuno osava contravvenire alle rigide disposizioni emanate. Le punizioni erano violente e variavano dalla semplice frusta, che lasciava per giorni i suoi segni, fino alla tortura e alla morte per lapidazione, nei casi più gravi. Le regole e le punizioni erano valide per tutti, fossero essi i comandanti, gli istruttori o gli allievi. Questi ultimi erano divisi in tre classi di età fra i cinque e i diciotto anni e ricevevano un’istruzione completa.

    La preparazione spirituale e la preghiera, la fede e le cose di Dio, costituivano la base della loro istruzione. Dio era sempre presente nella loro giornata fin dal momento del risveglio e permeava tutta la loro vita quotidiana. Ogni gesto era fatto per compiacerlo, ogni parola era pronunciata per glorificarlo. La vita non apparteneva più a loro ma era nelle mani di Dio e in qualunque momento Dio, o chi parlava per lui, poteva chiedere loro di rinunciare alla vita combattendo per distruggere i nemici.

    La cultura di base e le lingue straniere erano il secondo obiettivo del campo per preparare i più meritevoli a essere inseriti con onore nelle migliori scuole e università sparse per il mondo. In quelle scuole e in quelle università, avrebbero mantenuto segreto il loro credo per tutto il tempo necessario. Avrebbero completato gli studi e si sarebbero affermati nei diversi settori di lavoro all'interno del mondo degli infedeli. Sarebbero stati pronti, in ogni momento, a venire allo scoperto, affermare la loro vera fede, combattendo e, se il caso, morendo per essa.

    Il terzo e ultimo insegnamento era l'addestramento fisico, l'uso delle armi, la costruzione di ordigni esplosivi e la sconfitta della paura della morte.

    I tre obiettivi erano perseguiti con costanza maniacale nelle tre classi di età in cui erano divisi i giovani. Al raggiungimento dei diciotto anni, erano mandati nelle città degli infedeli, quali future macchine di persuasione e di morte.

    L'ambizioso piano aveva richiesto anni di preparazione e milioni di dollari d’investimento, ma già, sparsi per il mondo, alcune decine di quei giovani si stavano affermando, segretamente, nel mondo degli infedeli. Avvocati, medici, uomini politici pronti a minare dall'interno quel mondo corrotto, non appena fosse stato ordinato loro.

    Questo iter di preparazione, che prevedeva l'inserimento del bambino nel campo e la sua permanenza fino ai diciotto anni, era rigido. Solo in casi molto particolari erano previste eccezioni. Giovani orfani, anche stranieri, con particolari doti d’intelligenza ed educati fin da piccoli alla vera fede da una persona conosciuta dai capi del consiglio come integra e totalmente affidabile, potevano essere ammessi anche per brevi periodi.

    Quel giorno, per il campo nomade nel deserto, era un giorno particolare, quasi una festa. Dall'Europa, infatti, era arrivato Fahed, un giovane che era diventato un mito per tutti i ragazzi del campo e che alla fine degli studi sarebbe stato sicuramente nominato capo del nucleo operativo. Fahed era stato uno dei primi a essere ammesso al campo, proprio all'inizio della realizzazione del progetto. Si era distinto per convinzione e forza e a diciotto anni era stato mandato in una scuola in Europa a finire gli studi. A lui era stato affiancato un giovane molto speciale e motivato. Era un orfano che, pur essendo nato e cresciuto fra gli infedeli, aveva ricevuto un’educazione ferrea da un uomo di grande fede che lo aveva seguito negli gli anni della fanciullezza prima e della giovinezza poi, insegnandogli tutte le cose di Dio. Il nome che il vecchio aveva scelto per lui era Mohamed. Fahed e Mohamed nella scuola in Europa erano diventati grandi amici e Fahed aveva ottenuto il permesso, dal consiglio, di portare con lui l'amico per i due mesi di sospensione estiva delle lezioni.

    Mohamed avrebbe partecipato alla vita del campo, ne avrebbe seguite le ferree regole, accrescendo la sua preparazione spirituale e fisica. Avrebbe così ottenuto l'onore di ritornare nel suo mondo pronto a ogni richiamo per l'affermazione della vera fede e la distruzione degli infedeli.

    CAP. 1

    Al 700 di North Adams Street a Tallahassee, capitale dello stato della Florida, la residenza ufficiale del governatore era sfolgorante di luci nonostante l'ora tarda. Dal grande balcone del primo piano, al centro delle imponenti colonne bianche in stile corinzio, sventolavano incessantemente le tre bandiere simbolo della storia degli Stati Uniti d’America e della Florida. Al centro e più in alto delle altre, l’attuale bandiera degli Stati Uniti. Alla sua sinistra sempre la bandiera statunitense ma con sole ventisette stelle, testimonianza dell’adesione della Florida all’unione, nel 1845, quale ventisettesimo stato. A destra, la bandiera della Florida: bianca, attraversata da una croce di color rosso con al centro lo stemma simbolo dello stato.

    Il parco antistante l’entrata principale del palazzo era impreziosito dalla scultura in bronzo Florida’s Finest dell’artista W. Stanley, rappresentante cinque ragazzini di diversa età e un cane che camminano su tre tronchi d’albero giocando a un gioco chiamato Segui il leader. Quell’opera, voluta dal governatore Chiles nel 1998, era stata dedicata a tutti i bambini della Florida. La scultura era il punto focale del parco e tutti gli ospiti presenti alla grande festa organizzata dal governatore Marc Wilson non potevano non ammirarla ancora una volta mentre, di fronte all’entrata, erano in attesa che il ragazzo addetto al parcheggio consegnasse loro le automobili.

    All'interno del palazzo numerosi camerieri, impeccabili nelle loro giacche bianche, si muovevano silenziosi e discreti, offrendo agli ospiti vassoi di tartine squisite e flûte di champagne.

    Jeremy, il maggiordomo della storica residenza, era attentissimo ad assistere gli ospiti che si stavano accomiatando e controllava nel frattempo il lavoro dei camerieri, spostandosi continuamente dalla State Entrance Hall alla State Reception Room e alla State Dining Room.

    Le signore dell'alta società economica, politica e culturale di tutta la Florida, sfoggiavano elegantissimi abiti, aggirandosi fra i preziosi arredi in stile coloniale del XVIII secolo, e facevano a gara per ritrovarsi casualmente vicino al governatore. Questi passava la maggior parte del tempo vicino al pianoforte a coda nella State Reception Room, non perché amasse quello strumento e le sue note, ma solo per posare il suo bicchiere e avere libere le mani, incurante del fatto che si trattasse di un pianoforte Steinway composto da ben dodicimila pezzi assemblati a mano e che fosse considerato il pezzo più prezioso fra tutti gli arredi della residenza.

    Marc Wilson, cinquant’anni appena compiuti, aveva un fisico da atleta di cui spesso si vantava. Il suo corpo muscoloso difficilmente si adattava a essere intrappolato dentro quegli abiti eleganti che sfoggiava in ogni occasione. Era glabro e con la pelle chiara, ma amava avere il corpo sempre abbronzato e a questo provvedeva con maniacale precisione sia esponendo il corpo al sole, sia sottoponendosi al trattamento della lampada.

    Fin da ragazzo, era ossessionato dalla prestanza muscolare. Seguendo gli insegnamenti perentori del padre, propagandava a tutti l'attività fisica come panacea di tutti i mali.

    Il padre di Marc, Frank Wilson, che era stato un giocatore di baseball dilettante oltre che un fortunato uomo d'affari, avrebbe voluto per il figlio una carriera sportiva sfolgorante. Aveva da sempre coltivato la speranza che Marc potesse raggiungere quelle mete che a lui, per motivi diversi, erano state negate, ma col tempo aveva dovuto accettare la realtà: Marc non era portato alla competizione fisica e allo scontro, perché aveva paura. Piuttosto gli piacevano il cibo, il bere e le donne. Non che Frank Wilson avesse qualche cosa contro le donne, ma capiva dai comportamenti del figlio che, così come non sapeva resistere al buon cibo e al buon vino, tantomeno sapeva resistere al richiamo di una bella donna, col risultato però che queste riuscivano sempre a tenerlo in pugno e a sottometterlo. Sapeva che il figlio era un debole che preferiva essere dominato piuttosto che dominare e, nel tentativo di ovviare a questo aspetto negativo del suo carattere, Frank Wilson gli aveva inculcato il mito dell'attività fisica e del corpo muscoloso affinché, almeno all'apparenza, sembrasse forte e temibile. Aveva speso una fortuna per farlo studiare nelle migliori scuole ma i risultati erano stati deludenti. Lo aveva spinto, allora, verso la carriera politica, spianandogli parecchie strade tramite le sue influenti amicizie.

    Coerentemente agli insegnamenti del padre, Marc Wilson aveva dedicato un’intera stanza della sua residenza a palestra personale e usufruiva di un trainer che da qualche tempo lo allenava incessantemente. Nonostante ciò, un inizio di pancetta causata dal troppo mangiare ma soprattutto dal troppo bere, resisteva strenuamente agli sforzi quotidiani. Il disappunto di Marc Wilson a questo proposito era spesso evidente e il governatore non mancava, alcune volte, di perdere la pazienza anche con il trainer incolpevole.

    Amava passare la maggior parte del tempo nella sua villa privata di Miami, sua città natale, piuttosto che a Tallahassee nella residenza ufficiale del governatore, ma quella sera era stato costretto dalle circostanze a organizzare quella festa nella capitale dello stato. Sperava di dare ai suoi ospiti una notizia molto importante e quella era la sede più idonea per farlo. Purtroppo, però, fino a quel momento, non aveva potuto fare nessun annuncio e a causa di ciò non si divertiva per niente, anzi, stava subendo lo smacco più grosso della sua vita. Invece di corteggiare le ospiti, come era sua abitudine, era taciturno, beveva più del solito e lanciava occhiate verso la porta della Florida Room che aveva trasformato in studio privato. All'interno dello studio, la sua assistente era stata incaricata di attendere una telefonata importantissima. Avrebbe dovuto avvertirlo immediatamente, ma ormai aspettava da ore e quella telefonata non arrivava.

    Gli era stata ventilata la possibilità che il partito repubblicano decidesse di appoggiarlo nella corsa alla presidenza e lui aveva cominciato a crogiolarsi in quella speranza. Si era visto già a capo della Casa Bianca con i pieni poteri, a coronare quello che era stato sempre il suo sogno segreto. Per realizzarlo avrebbe fatto tutto il possibile, compreso vendere l'anima al diavolo.

    Il partito repubblicano gli aveva dedicato forze, energie e pazienza per lungo tempo e lui aveva risposto in pieno ai suoi bisogni e alle sue aspettative fino a meritare il governo di uno stato importante come la Florida. Il passo successivo non poteva che essere per lui. Sapeva che all'interno della direzione del partito non tutti gli erano favorevoli e, a quanto gli sembrava di capire, stavano avendo grandi difficoltà a fare la loro scelta. Tutto era nelle mani dei finanziatori ed erano loro a essere incerti su quale candidato appoggiare. Marc Wilson si rendeva conto che i repubblicani avevano minori possibilità di vincere quella sfida, perché i democratici erano in testa nei sondaggi, ma era altresì convinto che molto tempo mancava al giorno fatidico e che molte cose potevano ancora cambiare.

    Sarebbe stato lui stesso a farle cambiare e a portare i repubblicani in testa, se solo gli avessero dato la loro fiducia. Sapeva che le lobby non decidevano sulla base di simpatie o pressioni esterne ma solo sulla base della convenienza futura e lui si era reso disponibile a dar loro tutte le garanzie del caso. Chi meglio di lui, governatore di uno stato, poteva essere il prescelto? Eppure, la conferma alle sue aspettative non arrivava e questo non era un buon segno. Quella sera avrebbero preso una decisione ed era per questo che lui, certo del risultato, aveva organizzato quella festa. Avrebbe potuto annunciare davanti alla più bella società della Florida che era in corsa per la presidenza degli Stati Uniti d'America.

    L'ansia lo stava divorando ed era già molto tardi. Cominciava a dubitare che quella vicenda si sarebbe conclusa favorevolmente per lui.

    Ancora non è detta l'ultima parola,pensò, forse la scelta è più ardua di quanto potessi immaginare e c'è ancora speranza. Aspetterò fino alla fine di questa lunga notte.

    Come al solito era accanto allo Steinway e chiacchierava di questioni politiche con due senatori del Congresso, ma era distratto. Il suo pensiero era altrove. Guardò ancora la porta della Florida Room sperando si aprisse di colpo e la sua assistente lo chiamasse per una comunicazione importante, ma niente di tutto ciò accadde.

    Una musica di sottofondo allietava le chiacchiere degli ospiti e regalava un po’ di privacy a chi si stava intrattenendo con discorsi delicati riguardanti lo Stato e il suo futuro. Tutti gli ospiti avevano capito che quella festa, non motivata da una ricorrenza particolare, fosse solo la scusa per un annuncio importante da parte del padrone di casa. Da tempo, infatti, erano giunte loro voci di una eventuale scesa in campo del governatore Marc Wilson. Queste voci non erano mai state confermate dall'interessato ma neanche smentite e, di conseguenza, tutti ritenevano che quella festa così sfarzosa potesse essere l'occasione giusta per annunciare ufficialmente la decisione presa.

    Era già tardi e molti cominciavano ad abbandonare la casa, convinti di essersi sbagliati. Fra questi, alcuni erano particolarmente contenti del mancato annuncio perché avevano mire politiche che difficilmente Marc Wilson avrebbe potuto agevolare. Altri, al contrario, erano delusi perché ciò faceva crollare tutti i sogni di brillanti carriere ad alto livello, motivate perlopiù solo dalla stretta amicizia che credevano di poter vantare con il governatore stesso.

    Marc Wilson stava intrattenendo con poco entusiasmo la moglie del sindaco della città e una sua intima amica, vedova e ricchissima. Le due signore, con la scusa di ammirare il famoso Steinway, gli si erano avvicinate e, nel tentativo di ottenere la sua attenzione, lo stavano tempestando di domande.

    Signor governatore, chiese infine la vedova, accostandoglisi ancora un po’ e mostrando il più possibile il suo decolleté, nella sala da pranzo le pareti sono decorate con una magnifica carta da parati rappresentanti un paesaggio meraviglioso… piante esotiche e un uccello che vola nel cielo blu…

    Marc Wilson sorrise in modo forzato, ben sapendo che la signora non era affatto interessata alla bellezza delle pareti della State Dining Roo, e le rispose:

    È la riproduzione di un’opera del secolo XIX. Il titolo dell’opera è ‘Isola Bella’ e rappresenta appunto un’isola nel Lago Maggiore, che è da qualche parte in Italia.

    La vedova rimase assorta per qualche secondo registrando l’informazione ricevuta e Marc Wilson ne approfittò per finire di bere l'ennesimo flûte di champagne. Poi posò con malagrazia il bicchiere sul pianoforte facendo segno a un cameriere di portargliene un altro. Chiese scusa frettolosamente alle due signore che avevano ricominciato a parlare di banalità e si allontanò ancora una volta verso il suo studio privato. Vi entrò e chiuse la porta alle sue spalle.

    Si rese subito conto, dall'espressione della sua assistente, che nessuna notizia era ancora arrivata ma non poté trattenersi dal chiedere:

    Allora, Diana, hai novità o no?

    Niente, signor governatore... mi dispiace, il telefono è rimasto sempre muto...

    Diana Dennis, quarantacinque anni e un po’ sovrappeso, era la vittima designata di Marc Wilson. Si era innamorata di lui fin dal primo giorno che aveva iniziato a lavorare alla residenza, ma aveva capito da subito che il suo era un sentimento senza speranza. Nonostante ciò, accettava pazientemente tutti i rimbrotti e le sfuriate. Quando il governatore era in buona e non aveva nessun motivo per accusarla di una qualche inefficienza, la vittimizzava lo stesso deridendola per il fisico non proprio da modella e la esortava a fare attività fisica offrendole anche la sua palestra personale. Ogni volta, Diana si sentiva umiliata e a stento riusciva a trattenere le lacrime; per di più, tutte le volte che decideva di approfittare dell'offerta del governatore e cercava di usare la palestra, lui trovava sempre qualche scusa o qualche compito importante da affidarle, per cui era costretta a rinunciare.

    Ma sei sicura di non esserti allontanata mai, neanche un momento? le chiese Marc Wilson e senza darle il tempo di rispondere continuò: So bene che ogni cinque minuti hai bisogno di andare in quel maledetto bagno!

    Intimorita dalla sua aggressività, Diana abbassò il viso e riuscì a stento a replicare:

    Mi creda, signor governatore, non mi sono mai allontanata, per nessun motivo!

    Sì, sì, va bene... tanto anche se ti fossi allontanata non lo ammetteresti mai! Ma ricordati che la notizia che aspetto è importantissima e quindi, appena il telefono squilla, avvertimi immediatamente!

    Sarà fatto, signor governatore! Diana rispose un po’ stizzita e pensò che, se almeno avesse avuto da lui quel poco di considerazione che desiderava, sarebbe stato più facile sopportarlo nei suoi momenti di nervosismo.

    Marc Wilson distolse lo sguardo da lei guardando un punto indefinito della stanza e riflettendo su quel ritardo. Poi controllò ancora una volta il suo Rolex e, sbuffando, alzò con malagrazia le spalle in un gesto d’insofferenza e ritornò dai suoi ospiti.

    Il bicchiere vuoto era già stato sostituito. Lo prese e bevve una lunga sorsata come fosse acqua. Alcuni ospiti approfittarono per salutarlo prima di andare via, cercando ancora di indagare cosa fosse successo durante quella serata e perché non avesse annunciato la sua scesa in campo per le primarie presidenziali. Lui fu molto vago con tutti e li liquidò con poche parole di commiato, senza dare nessuna spiegazione.

    Con un moto di fastidio vide la sua fiamma del momento, Barbara Brown, che si dirigeva verso di lui con fare sensuale. Non poté fare a meno, nonostante tutto, di ammirare il suo corpo statuario, ma si rese conto che il desiderio di averla, in quel momento, passava in secondo piano rispetto al suo interesse principale.

    Barbara Brown gli si avvicinò e, appena gli fu accanto, disse:

    Marc... sono andati tutti via, la festa è finita.

    Sì, lo vedo... rispose lui brusco.

    Pensavo di fermarmi a bere un bicchiere... noi due soli...

    Marc si compiacque delle avance che Barbara gli stava facendo, ne fu orgoglioso. Ammirò i suoi capelli lunghi e biondissimi e non poté trattenersi dal far cadere lo sguardo sulla scollatura profonda del suo vestito che lasciava poco all'immaginazione. Ciò nonostante era deciso, per quella sera, a non lasciarsi coinvolgere dalle voglie sessuali di lei.

    Scusami, ma questa sera sono molto stanco e non ho ancora finito... sto aspettando una comunicazione importante e non posso allontanarmi dallo studio finché non arriva.

    Barbara rise alzando gli occhi al cielo e gli parlò come si fa con un bambino:

    Ma non essere sciocco, Marc! Hai quindici persone che lavorano per te in questa casa e non hai mai nessun timore di schiavizzarle come vuoi. Lascia qualche cane da guardia in giro che ti avverta... e avrai così la tua comunicazione importante... non ti pare?

    Marc si limitò a sospirare, non sapendo come resistere alle sue insistenze, e Barbara continuò, canzonandolo:

    O forse non ti piace più la tua Barbarella... e un'altra ha preso il mio posto nel tuo cuore?

    No, no, ma che dici... si schermì Marc, è solo che sono molto stanco e ho bevuto più del solito!

    Barbara Brown non era abituata ai rifiuti. Giovane, bella e unica erede di una ricca famiglia, era stata sempre viziata e aveva sempre ottenuto quello che voleva e voleva ancora una volta il governatore della Florida. Non che ne fosse innamorata, ma la sua collezione di uomini non prevedeva al momento una sostituzione dell'uomo più importante dello stato che, forse, sarebbe diventato anche presidente degli Stati Uniti d'America.

    Povero il mio Marc, continuò a sfotterlo lei, ben sapendo che l'avrebbe avuta vinta, stanco e ubriaco! Non preoccuparti. Ti prometto che questa notte potrai rilassare quei tuoi grossi muscoli! Penserò io a tutto e ti farò uno stupendo massaggio rigenerante!

    Senza attendere una sua conferma, continuò:

    Io vado di sopra in camera tua, conosco la strada, e non farmi aspettare a lungo... sai bene cosa ti perderesti! Alzandosi sulle punte dei piedi, gli dette un bacio sulle labbra e si diresse verso le ampie scale che portavano al piano superiore.

    Marc Wilson lasciò andare le braccia in giù in segno di

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