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Les liaisons plurilingues: Lingue, culture, professioni
Les liaisons plurilingues: Lingue, culture, professioni
Les liaisons plurilingues: Lingue, culture, professioni
Ebook425 pages5 hours

Les liaisons plurilingues: Lingue, culture, professioni

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Il plurilinguismo è davvero il segno distintivo della cultura europea? Come si è trasformato il ruolo delle discipline linguistiche all'interno della formazione universitaria? E che rapporto può esistere tra formazione linguistica – umanistica, letteraria – e mercato del lavoro in un momento in cui la tecnocrazia culturale rinuncia spesso alla complessità dei saperi? Dalla traduzione all'editoria, dall'interpretariato al mondo imprenditoriale passando per le politiche di integrazione linguistica nell'area del Mediterraneo, questo volume riflette sul legame eclettico, mutevole e plurale che intercorre fra conoscenza e competenza, lingue e identità, didattica e globalizzazione.

Con contributi di: Ali Aït Abdelmalek, Sara Bani, Paolo Bargiacchi, Annalisa Bonomo, Paola Cadeddu, Sabina Fontana, Enrica Galazzi, Yves Gambier, Jean-René Ladmiral, Danielle Londei, Giuseppe Trovato, Antonino Velez, Claudio Vinti, Francesco Vitucci.
LanguageItaliano
Release dateDec 16, 2014
ISBN9788870006483
Les liaisons plurilingues: Lingue, culture, professioni

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    Les liaisons plurilingues - Veronica Benzo

    ISBN 978-88-7000-648-3

    Produzione digitale dicembre 2014

    © STEM Mucchi Editore Srl

    www.mucchieditore.it

    info@mucchieditore.it

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    pinterest.com/mucchieditore

    Indice

    Prefazione - Il percorso siciliano del Convegno itinerante Plurilinguisme et monde du travail - Enrica Galazzi

    Prefazione - Il plurilinguismo nel mondo tra realtà e prospettive: spunti di riflessione - Danielle Londei

    1. Le comunità del tradurre: dalle pratiche teoriche al mondo editoriale - a cura di Antonio Lavieri

    De la subjectivité du traducteur aux conceptualisations de la traductologie - Jean-René Ladmiral

    Eventi traduttivi. Quando l’oralità reinventa il quotidiano - Sabina Fontana

    Total Khéops di Jean-Claude Izzo e la sua versione italiana - Antonino Velez

    «Il libraio» dans tous ses états. Lettura, traduzione, editing - Paola Cadeddu

    Riassunti

    2. I mercati del tradurre: formazione linguistica e orientamenti professionali - a cura di Fabrizio Impellizzeri

    Enjeux actuels des métiers de la traduction - Yves Gambier

    La Mediazione Linguistica orale in un’ottica didattico-professionale: Interpretazione di Trattativa Vs. Interpretazione di Conferenza - Giuseppe Trovato

    Il traduttore interprete di tribunale - Sara Bani

    I mercati della lingua giapponese e l’Italia - Francesco Vitucci

    Riassunti

    3. Politiche di integrazione linguistico-culturale nel Mediterraneo: francofonia, plurilinguismo, gestione dei flussi migratori - a cura di Loredana Trovato

    Anthropologie de la profession et langage : des relations complexes. Approche sociologique de l’identité individuelle et collective - Ali Aït Abdelmalek

    (Alcune) criticità e (correlati) disequilibri del sistema politico-giuridico europeo in rapporto ai flussi umanitari e migratori provenienti da Stati terzi - Paolo Bargiacchi

    CLA e mondo del lavoro. Quale modello di Centro linguistico per l’Università italiana di oggi? Non solo sopravvivenza, ma innovazione, ricerca e promozione del plurilinguismo - Claudio Vinti

    Il ruolo della lingua inglese nell’ambiente plurilingue del Mediterraneo: il «caso» Maghreb - Annalisa Bonomo

    Riassunti

    Appendice - Il plurilinguismo nel mondo imprenditoriale della Sicilia orientale - a cura di Veronica Benzo

    Il percorso siciliano del Convegno itinerante

    Plurilinguisme et monde du travail

    Enrica Galazzi

    Università Cattolica-Milano

    Proposto nel giugno 2010 sotto l’egida del Dorif-Università e della sua dinamica presidente, Danielle Londei, con l’adesione entusiasta di una ventina di Università sparse da un capo all’altro della penisola, il Convegno itinerante "Plurilinguisme et monde du travail" ha attraversato tutta l’Italia¹ e si è accampato nella primavera 2012 in Sicilia dove ha assunto una veste del tutto originale. La Sicilia ha dato all’evento una visibilità eccezionale grazie alla competenza, generosità e disponibilità dei colleghi di tutti gli Atenei dell’isola che hanno saputo creare inedite sinergie accademiche e con il territorio. Messina, Catania, Ragusa, Enna e Palermo hanno declinato la tematica personalizzandola e dando luogo ad eventi specifici che focalizzano di volta in volta aspetti peculiari e complementari al tempo stesso.²

    Dentro il perimetro insulare che potrebbe sembrare (a torto) esiguo, esiste in realtà una sedimentazione storica estremamente variegata, unica nel suo genere nel nostro paese, e una sorprendente varietà di situazioni socio-culturali ancora oggi in rapida evoluzione. Da sempre esposta al transito dei popoli a causa della sua situazione geografica, la Sicilia è fertile, generosa, accogliente… e meticciata.

    In questo testo intendiamo rievocare brevemente l’itinerario percorso limitandoci a citare i titoli degli eventi ed alcune peculiarità per lasciar spazio alla voce dei partecipanti.

    Con Maria Gabriella Adamo, calabrese e siciliana di adozione, attiva da tempo all’Università di Messina, il periplo ha preso avvio, il 19 marzo 2012 attorno al tema Lingue e profili professionali: esperienze, difficoltà e orientamenti in Sicilia, con particolare riferimento all’area dello Stretto.

    Il 20 marzo, la Facoltà di Scienze Economiche di Catania ci ha ospitati per una riflessione attorno alle implicazioni economiche e alla rilevanza delle competenze linguistiche in diversi ambiti professionali (Plurilinguismo e mondo del lavoro. Impatto professionale della lingua straniera). L’avvenimento ha potuto trarre profitto dalla pubblicità mediatica orchestrata dai colleghi Veronica Benzo e Franco Costa. Il convegno era stato infatti annunciato attraverso la rubrica radiofonica Plurilinguismo e mondo del lavoro, diffusa da Radio SIS (www.radiosis.it) che ha proposto agli ascoltatori, a scadenza trisettimanale, una micro-intervista con gli attori/protagonisti/destinatari del progetto³. Un’ulteriore peculiarità della giornata catanese è stata la presenza del Comandante della Scuola di Lingue estere dell’Esercito che ha illustrato con efficacia l’arma del plurilinguismo nelle Forze Armate.

    Presso la struttura didattica di Ragusa, antenna molto dinamica dell’Università di Catania, i partecipanti hanno potuto fruire di due giornate (21 e 22 marzo) molto intense ma piacevolmente congegnate da Nadia Minerva e Fabrizio Impellizzeri (Le lingue e i profili professionali: esperienze, difficoltà e orientamenti in Sicilia). Sono stati messi a tema, in particolare, i profili professionali legati alla traduzione. La traduzione e l’interpretariato intervengono sia in situazioni di fragilità quali l’accoglienza e l’assistenza sanitaria dell’immigrato sia nella lotta contro la criminalità: le particolarità linguistiche che ne scaturiscono sono numerose e vanno dalle divaricazioni ai tabù culturali, dall’oralità meticciata all’alternanza dei codici, all’ermetismo deliberatamente perseguito dai protagonisti.

    Gli ateliers gestiti da traduttori ed interpreti professionisti, aperti a studenti e docenti, sono stati un’esperienza insolita e molto arricchente oltre che una delle originali novità di questa tappa.

    Il 23 marzo, una sosta nel cuore della Sicilia ha toccato l’Università di Enna Kore dove gli organizzatori, Marinella Muscarà, Loredana Trovato e Claudio Vinti hanno allargato gli orizzonti, ampliando lo sguardo al contesto multiculturale del Mediterraneo e ai diritti linguistici nella scuola e nel diritto internazionale ed europeo. (Lingue e professioni nel contesto mediterraneo: francofonia, plurilinguismo e interculturalità). La francofonia, nel contesto dei flussi migratori che interessano la Sicilia, presa tra inglese ed arabo, assurge ad elemento di coesione e di integrazione socio-culturale. Ha arricchito la giornata la presenza autorevole di Ali Ait Abdelmaleker dell’Università di Rennes 2, specialista di sociologia delle identità, direttore del Laboratorio di analisi degli spazi e dei cambiamenti sociali.

    Nel corso di questo periplo, addolcito dalla bellezza del paesaggio, dalla buona cucina e dal dialogo interculturale instauratosi fra i partecipanti dei più diversi orizzonti, esperti e ricercatori italiani e stranieri si sono via via aggregati al gruppo per condividere un tratto di cammino, hanno raggiunto la carovana, l’hanno lasciata.

    Altri, come Jean-René Ladmiral, hanno vissuto l’avventura fino al suo epilogo, l’ultimo appuntamento, il 24 marzo, all’Università di Palermo dove Antonio Lavieri e Jacqueline Lillo avevano predisposto una giornata seminariale attorno al tema Plurilinguismo, multiculturalismo e traduzione per l’editor,ia. Jean-René Ladmiral, riferimento irrinunciabile in questo campo, e che – segnaliamo en passant – ha assunto la responsabilità della Collezione Traductologiques (Les Belles Lettres), ha messo a disposizione la sua competenza teorica e pratica della traduzione lungo tutto l’itinerario del Convegno. A Palermo, il dialogo si è intessuto tra traduttori professionisti, studiosi di traduzione e editori di nicchia; esso ha ruotato attorno alla sfida costituita dalla traduzione letteraria, il fulcro conclusivo, come un fuoco d’artificio che ha preceduto la chiusura del sipario sul ciclo di manifestazioni siciliane.

    Il bilancio non può essere che positivo.

    La collaborazione senza precedenti istauratasi nel corso di queste intense giornate ha generato un reticolo di scambi e di solidarietà scientifica e umana di cui gli Atti raccolti nel presente volume sono una testimonianza tra le altre, meno visibili forse, ma ancor più profondamente ancorate nel nostro vissuto.

    Il coinvolgimento entusiastico di tutti è all’origine del successo dell’iniziativa alla quale hanno partecipato attivamente gli studenti e i Colleghi insegnanti di lingue straniere ma anche di altre discipline quali il diritto, l’economia, l’antropologia, la didattica… Protagonisti del mondo professionale, educativo e istituzionale hanno offerto la loro testimonianza e condiviso con gli studenti le pratiche linguistico-culturali legate alla loro professione.

    Le mutazioni sociali, politiche ed economiche che stanno modificando l’ordine mondiale ridisegnano profondamente, tra l’altro, il concetto di frontiera così come il binomio centro-periferia, questi ultimi sconvolti o, meglio, già soppiantati dal concetto di rete (Glissant 1999), che meglio s’adatta a rappresentare gli incessanti incroci e le mescolanze che si verificano oggigiorno. (Serres 1991)⁴.

    Un tempo, nelle civiltà dell’arco alpino, le frontiere non rappresentavano delle fratture ma dei raccordi (des coutures e non des coupures): ogni pastore assumeva la responsabilità degli alti pascoli senza alcun riguardo per i limiti identitari e con la sola preoccupazione per il benessere delle greggi e per la salvaguardia dell’ambiente naturale.

    Di certo, il paesaggio alpino sembra difficilmente accostabile alle frontiere marittime insulari della Sicilia; tuttavia, grazie ai potenti mezzi tecnologici di comunicazione di cui disponiamo, dei reticoli che annullano le distanze geografiche e culturali si instaurano, rendendo possibile, in un futuro prossimo, relazioni economiche, culturali, affettive fra i popoli del bacino mediterraneo, storicamente così legati, inimmaginabili fino a poco tempo fa.

    Lanciato come progetto di riflessione e di ricerca, allo scopo di scuotere le autorità e i responsabili educativi richiamandoli alle loro responsabilità verso i giovani e verso la società, il Convegno itinerante ha mostrato l’importanza strategica delle lingue-culture e il loro valore economico. Nell’economia globalizzata come nelle situazioni di emergenza linguistica, in varie parti del mondo, l’esperto linguista opera per lo sviluppo economico solidale e per la qualità della vita, per la salvaguardia del patrimonio culturale mondiale e per la convivenza armoniosa tra i popoli nella società multiculturale di domani⁵.

    In un momento di svolta decisivo per la sopravvivenza stessa del mondo, l’Università è chiamata a svolgere un ruolo di elucidazione e di proposta per incoraggiare i giovani ed ambire ad esplorare con loro nuove vie⁶.

    Bibliografia

    Galazzi E., M.-C. Jullion, Introduction à la Section III in Galazzi E., Londei D., Projets de recherche sur le multi/plurilinguisme et alentours… Repères-Dorif, n. 3, settembre 2013, consultabile on line http://www.dorif.it/ezine/ezine.

    Glissant É., Poétique de la Relation. Poétique III, Paris, Gallimard 1999.

    Jacques-Pfau C., Sablayrolles J.F. (éds), Mais que font les linguistes ? Les Sciences du langage, vingt ans après, Paris, L’Harmattan 2005.

    Molinari C., La géopolitique de la francophonie : enjeux idéologiques, linguistiques et didactiques, in corso di stampa.

    Pugnière-Saavedra F., Sitri F., Veinard M. (sous la direction de), L’Analyse du discours dans la société. Engagement du chercheur et demande sociale, Paris, Champion 2012.

    Serres M., Le Tiers-Instruit, Paris, Gallimard, coll. «Folio-Essais», 1991.


    1 Le giornate, coordinate con il sostegno di Marie Christine Jullion, hanno preso inizio a Teramo nel maggio 2011 e si sono concluse all’Università Statale di Milano nel dicembre 2012. La mappa delle manifestazioni si trova sul sito dell’associazione http://www.dorif.it/convegni. Per una visione sintetica d’insieme del Convegno e delle tematiche affrontate, Cfr. la sezione III nella rivista Repères-Dorif, n. 3, Projets de recherche sur le multi/plurilinguisme et alentours… settembre 2013, consultabile in linea. Si veda in particolare di E. Galazzi, M.-C. Jullion, l’introduzione alla Section III, http://www.dorif.it/ezine/ezine_articles.php?id=130.

    2 Desidero rendere omaggio a tutti i Colleghi e amici delle Università siciliane e complimentarmi in particolare con il giovane comitato che si è sobbarcato l’onere organizzativo; a Veronica Benzo, Fabrizio Impellizzeri, Antonio Lavieri, Loredana Trovato il più sentito ringraziamento.

    3 Tutte le interviste (26) sono state riprese sulla pagina Facebook Plurilinguismo e mondo del lavoro - Catania e pubblicate sul sito web appositamente creato: http://www.stranilavor.net.

    4 Per un approfondimento di queste nozioni, cfr. C. Molinari, La géopolitique de la francophonie : enjeux idéologiques, linguistiques et didactiques, in corso di stampa.

    5 A questo proposito si vedano gli atti del convegno Linguistiques d’intervention. Des usages socio-politiques des savoirs sur le langage et les langues, Colloque annuel SHESL, Paris 26-28 janvier 2012.

    6 P. Calame et E. Morin, Célébrons les défricheurs, «Le Monde», 21/11/2013 on line.

    Il plurilinguismo nel mondo tra realtà e prospettive:

    spunti di riflessione

    Danielle Londei

    Università di Bologna-Dipartimento di Interpretazione e Traduzione di Forlì

    Parole chiave: Complessità, plurilinguismo, mondo del lavoro, educazione linguistica e di cittadinanza

    1. La complessità, strumento concettuale per la trasmissione dei saperi

    In un periodo come quello attuale, in cui assistiamo alla crisi finanziaria ed economica, ma ancor prima a quella dei valori, delle identità, non possono che sorgere profondi timori per il futuro delle giovani generazioni. È quindi non solo legittimo, ma doveroso, porsi la questione della loro formazione in seno alla scuola, all’università, e chiedersi quali orientamenti, quali scelte teorico-metodologiche le istituzioni, i docenti debbano adottare per preparare al meglio questi stessi giovani alle professioni, alla mobilità fisica e mentale per poter affrontare i mutamenti intensi, continui e multipli che si profilano in tutti i settori del mondo del lavoro, ma anche per poter preparare questi stessi giovani a una cittadinanza aperta ai cambiamenti, all’inclusione degli altri nelle proprie sfere di vita.

    Prima ancora di devolvere alle varie istituzioni il compito di decidere gli orientamenti e i percorsi della trasmissione dei saperi e dei saper fare, dobbiamo legittimamente chiedere al pensiero di ogni individuo di mettersi in grado di affrontare intellettualmente e psicologicamente il mondo e le leggi che ci governano.

    La parola complessità esprime bene il nostro imbarazzo, la nostra confusione, quasi la nostra incapacità a definire le cose del mondo in modo semplice, a nominare in modo chiaro gli oggetti sofisticati che incontriamo, a mettere ordine nelle nostre idee di fronte a questioni plurali che ci poniamo o ci vengono poste dal mondo odierno.

    Tuttavia, quel che abbiamo percepito in questi ultimi decenni è che i modi semplificatori di acquisizione delle conoscenze mutilano più che esprimere la realtà e i fenomeni di cui rendono conto. Se diventa evidente che producono più accecamento che delucidazione, allora sorge il quesito, per ognuno di noi nel proprio ambito di azione, su come considerare la complessità in modo non riduttivo rendendola così efficace nell’azione che si vuole perseguire.

    Ma anche se siamo convinti della validità di questo principio, incontriamo immediatamente una prima difficoltà, evidenziata fin dagli esordi da Edgar Morin, uno dei principali sostenitori di questa nozione: la difficoltà consiste nel fatto che il concetto stesso di complessità non porta con sé una nobile eredità filosofica, scientifica o epistemologica. Anzi, porta con sé una pesante tara semantica, visto che questo concetto è portatore di confusione, incertezza, disordine, per il fatto stesso che non rimanda a una «legge della complessità»: la complessità – come dice Edgar Morin – è una parola problema e non una parola soluzione. Se questo è vero, non dobbiamo tuttavia esimerci dal prendere atto che oggigiorno non possiamo più affrontare una qualsiasi problematica senza considerare questa dimensione di analisi.

    C’è da chiedersi se esistano complessità multiple, diverse le une dalle altre, e quindi a quale complessità facciamo riferimento quando ci inoltriamo nell’ambito della complessità legata al plurilinguismo che qui ci interessa, cioè quella dell’educazione, della formazione, per meglio rispondere al mondo del lavoro attuale e futuro, nel campo linguistico-comunicativo. Non possiamo certo più affidarci all’ambizione del pensiero semplice che era quella di controllare e gestire la realtà e quindi programmarla a colpo sicuro, ma si tratterà piuttosto di imparare a esercitare un pensiero capace di trattare con la realtà, di dialogare con essa, di negoziare con essa.

    Ma attenzione, vi è un’illusione che dobbiamo evitare: quella di confondere complessità con completezza. Certo, l’ambizione del pensiero complesso sarebbe di rendere conto delle articolazioni tra campi disciplinari che sono spesso arbitrariamente distinti – è questo uno degli aspetti caratterizzanti il pensiero semplificatore – perché così si isola, si occulta, non si fanno interagire i vari campi coinvolti in una determinata problematica.

    In questo senso il pensiero complesso aspira alla conoscenza multidimensionale, ma esso sa in partenza che la conoscenza completa è impossibile: uno degli assiomi della complessità è proprio l’impossibilità, anche solo teorica, di una onniscienza, impossibilità che non esclude tuttavia la consapevolezza che si possa, si debba procedere con una giudiziosa interdisciplinarità per affrontare al meglio qualunque problematica.

    Ecco, posto rapidamente, lo scenario nel quale dobbiamo porre la nostra specifica riflessione su come impostare una formazione linguistica plurilingue adeguata al mondo d’oggi, formazione che sia anche spendibile per affrontare i mutamenti in gran parte imprevedibili di domani.

    A questo proposito, se prendiamo l’esempio del francese come lingua straniera (FLE), possiamo affermare che questa consapevolezza era già presente da tempo: nel febbraio-marzo 1991, usciva infatti un numero speciale della collana « Recherches et Applications » della rivista « Le Français dans le Monde » che aveva per titolo « Vers le plurilinguisme? » e come sottotitolo « Ecole et politique linguistique ». Questo numero tematico, coordinato da Daniel Coste e Jean Hébrard, trattava le relazioni tra didattiche e diffusione delle lingue, affrontando da diverse angolature problemi di politica linguistica. Le dimensioni storiche, il ruolo della scuola, i fenomeni migratori erano presi in considerazione all’interno di questi dibattiti. I coordinatori, già allora, stimavano che alcune scadenze europee avrebbero indicato con convinzione un orientamento a favore della diversificazione nell’apprendimento scolastico di più lingue. In questo senso, il rapporto Maalouf della Commissione Europea del 2008, conferma che è questa l’opzione privilegiata dal Consiglio d’Europa, anche se poi non troverà sempre applicazione presso i singoli paesi.

    Tuttavia, il punto interrogativo nel titolo della rivista sopracitata segnalava che la partita sul plurilinguismo non era già vinta e che permaneva il rischio che nei fatti le posizioni dei singoli paesi andassero in un’altra direzione: quella di attribuire un ruolo predominante nelle comunicazioni internazionali, come nei sistemi educativi, a una lingua franca, rappresentata oggi dall’inglese, o come forse sarebbe preferibile dire dal globish. La domanda chiave di allora, ma sempre attuale, era ed è chiedersi in quale misura la scuola sia effettivamente in grado di operare nella direzione del plurilinguismo. Da allora vi è un leitmotiv che si sente riecheggiare nelle istanze internazionali, nella letteratura specializzata, nei convegni, che ci conduce a constatare come questa problematica sia costantemente evocata, affrontata, discussa; non c’è da stupirsene perché di fatto esiste una tensione, uno scarto tra le convinzioni enunciate da più parti a favore del plurilinguismo e il contesto mondiale che tende, per comodità, per redditività a corto termine, a preferire una soluzione apparentemente più pragmatica e funzionale, senza voler considerare in profondità le perdite che questa scelta determina.

    In epoca più recente, il cosiddetto rapporto Maalouf già citato confermava che si doveva trovare una giusta mediazione tra la necessità di una lingua di comunicazione globale e la salvaguardia della lingua madre, alla quale affiancare come libera scelta una seconda lingua straniera; quest’ultima determinata meno da criteri funzionali quanto piuttosto da criteri di propensione personale, perché in questo caso si puntava sulla forte motivazione individuale del discente. Purtroppo, come ben sappiamo, le istituzioni scolastiche italiane, per ora, non si sono affatto impegnate in questa direzione e hanno optato per apprendimenti strettamente funzionali e per nulla culturali.

    Se prendiamo ad esempio la lingua francese come lingua straniera a scopi specifici, il FLE (Français Langue Etrangère) ha fornito in questi ultimi anni proposte metodologiche che dovevano rispondere a questo tipo di richiesta funzionale.

    Ma prima di prenderle in considerazione, è bene tener presente un primo principio: qualunque sapere parcellizzato, specifico, settoriale, qualunque oggetto di studio, qualunque applicazione non deve mai essere distaccato dal suo contesto, dai suoi antecedenti, ma anche dal suo divenire e dai rapporti che questi intrattengono con altre sfere di pensiero o di ricerca. Dobbiamo diffidare delle frammentazioni che talvolta rischiano di essere confuse con le specializzazioni. Dobbiamo aspirare, per quanto difficile, a un pensiero multidimensionale, e capire che quelle che riteniamo essere verità profonde, talvolta antagoniste, in molti casi devono essere considerate complementari, per quanto ciò possa sembrare paradossale.

    Questo atteggiamento mentale del ricercatore come dell’utente presuppone che si rinunci alla vana sicurezza delle certezze assolute, che si accettino margini di ambiguità, che si viva positivamente una sorta di tensione sperimentale, ciò che il didattologo Christian Puren chiamava «eclettismo didattico». Si tratta di un macro-concetto, di un luogo cruciale interrogativo, che lega il nodo gordiano del problema delle relazioni incontournables come direbbero i francesi, tra l’empirico, la logica, il razionale, a favore dell’efficacia nel raggiungere gli obiettivi didattici identificati volta per volta.

    La complessità e l’eclettismo non sono la chiave universale per affrontare il mondo, ma sono la sfida da rilevare per farlo, sono uno strumento intellettuale e concettuale che può aiutarci a sormontare i nostri perenni interrogativi e a ricercare risposte adeguate, seppur consapevolmente provvisorie.

    Il quesito antropologico cerca di circoscrivere tutti gli aspetti umani presenti nel sapere, non solo l’aspetto umano di chi produce ed enuncia il sapere, ma anche quello di chi ascolta, lo desidera o lo rifiuta. È l’insieme di queste relazioni umane, nelle quali si inserisce il processo educativo-formativo, che l’antropologia dei saperi vuole restituire. Non vi è dubbio che nella «Méthode», Edgar Morin si situi nel cuore di una vera «antropologia della conoscenza»: una filosofia che conosce il valore da attribuire alla conoscenza in atti, al sapere pratico, per analizzare modi non solo scientifici del sapere, dell’epistemologia. Ciò che l’antropologia dei saperi¹ cerca di evidenziare sono gli effetti strutturati e strutturanti dei saperi. In quale misura le conoscenze alle quali siamo confrontati sul terreno sono il prodotto dell’ambiente naturale, sociale e simbolico (questo è l’aspetto strutturato)? E viceversa, in che modo queste conoscenze contribuiscono a organizzare (a generalizzare, eguagliare, mettere in serie, opporre) gli individui e le istituzioni che le supportano o ne sono il riflesso (è l’aspetto strutturante)? Questa doppia dimensione rappresenta il nodo centrale dell’antropologia dei saperi, al tempo stesso metodo investigativo e oggettivo della ricerca antropologica nel quale s’inserisce nello specifico la nostra riflessione.

    2. Competenze linguistiche specifiche: rischio di frammentazione

    Se abbandoniamo il campo delle speculazioni astratte, per sapere dove, perché e come ci posizioniamo nel campo della didattica delle lingue, la cui vocazione è sempre stata quella di mettere a disposizione di tutti (istituzioni, insegnanti, discenti) una risorsa culturale come la lingua, senza la quale la partecipazione alla vita socio-professionale futura potrebbe essere fortemente limitata, è necessario constatare che gli orientamenti oggi dominanti vanno in un’altra direzione.

    Proseguendo con l’esempio del francese, del FLE, osserviamo che la scena dell’insegnamento di questa lingua rivolta a studenti e adulti professionisti stranieri propone due grandi percorsi specifici: il FOS (Français sur Objectifs Spécifiques) e il FOU (Français sur Objectifs Universitaires) – in questo caso si tratta di una specializzazione all’interno del FOS e mira a preparare studenti stranieri che intendono proseguire gli studi in paesi francofoni.

    Specifichiamo che, dietro questi percorsi formativi, vi è il preciso proposito di calare gli insegnamenti/apprendimenti in contesti professionali-formativi specifici, rivolti a pubblici identificati con precisione, a partire dal loro background e dai loro bisogni. Queste formazioni sono correlate a un parametro determinante: devono svolgersi in tempi brevi, una formula chiave per descriverli è «l’efficacia a corto termine». Gli ideatori di questi programmi insistono molto sulle specificità linguistico-discorsive, sulle priorità, sui tempi impartiti al corso e sui risultati attesi, quindi sulla «resa» circoscritta, con risultati tangibili a partire da obiettivi prefissati.

    Non siamo più nella complessità, siamo nella semplificazione concettuale e programmatica di un insegnamento a obiettivi definiti che, di fatto, riduce la lingua a poche competenze funzionali prestabilite e circoscritte. Ben vengano queste scelte funzionali, a condizione che si sappia – tanto gli ideatori di metodi, quanto i discenti – che questi tipi di corsi sono parziali, frammentari, riduttivi, e che una competenza comunicativo-culturale, anche specializzata, è ben altra cosa. Se invece nascesse un’ambiguità, un malinteso nel situare un valore intrinseco di questi metodi, allora ricadremmo nell’illusione che si stia veramente insegnando una lingua, e si ricadrebbe nell’ennesimo errore semplificatore. Questo sarebbe un grave sbaglio nel campo dell’educazione alle lingue. Questi insegnamenti debbono rimanere circoscritti ad ambiti specifici e dovrebbero essere considerati solo come tappe funzionali che rispondono a un’urgenza, a prime priorità.

    Tuttavia, va anche sottolineato che, da alcuni anni, è andata via via crescendo la consapevolezza che le competenze parziali dei discenti, acquisite in contesti sia istituzionali che naturali, concorrono tutte, nessuna esclusa, alla costruzione delle identità individuali e all’integrazione dei soggetti nelle reti sociali. Si è allora affermata l’idea, sia nella ricerca psicolinguistica che in glottodidattica, che l’acquisizione e l’apprendimento linguistico possano essere descritti nell’ambito di un approccio globale che prende in considerazione l’insieme delle lingue e dei registri posseduti dai parlanti, e da lì si sono sviluppati concetti quali le competenze parziali. Basti, a titolo esemplificativo, pensare alle varie tipologie di certificazioni linguistiche che vanno tutte in questa direzione: esse certificano a vari livelli competenze frammentarie che non considerano mai la lingua straniera nella sua dimensione globale.

    3. Salvaguardare il plurilinguismo. Perché?

    Questa domanda potrebbe sembrare un quesito posto alla Sibilla. Il nostro proposito non è tanto quello di tentare di leggere il futuro – se non altro della disciplina linguistico-comunicativa – ma di cercare di capire i grandi movimenti in corso e di anticipare qualche orientamento che sembra profilarsi, di agire su di essi al fine di salvaguardare alcuni principi conduttori, condivisibili oggi e, pensiamo, anche domani. Li possiamo riassumere in una formula: la difesa dei diritti umani, nei quali si inseriscono indubbiamente i diritti linguistici.

    Nell’inventario delle lingue e dei loro utenti, la maggior parte dei linguisti si accordano per stimare che esistono attualmente da 6 000 a 7 000 lingue parlate, mentre il numero degli stati non supera i 200. È doveroso aggiungere a questo bilancio le lingue dei segni, sviluppate in molte società da individui privi dell’uso della parola; in questo caso, la cifra va raddoppiata. Bisogna specificare che la maggior parte di queste lingue è parlata da un numero relativamente ristretto di persone, ma la media sembra aggirarsi attorno a cinque/seimila. Il 95% delle lingue avrebbe meno di un milione di locutori e la metà meno di diecimila. Un quarto delle lingue parlate e la quasi totalità delle lingue dei segni contano meno di mille utenti.

    L’Europa si segnala per la sua debole diversità linguistica. Di fatto, a eccezione delle immigrazioni recenti, si utilizzano solo il 3% delle lingue del mondo. La Papuasia-Nuova Guinea e l’Indonesia raggruppano invece rispettivamente 850 e 670 lingue, e totalizzano così un quarto delle lingue parlate. Fanno parte dei nove paesi – con la Nigeria (410), l’India (380), il Camerun (270), l’Australia (250), il Messico (240), lo Zaire (210) e il Brasile (210) – che posseggono, messi assieme, più della metà delle lingue parlate e probabilmente delle lingue dei segni. Se vi si aggiungono altri 13 stati dove esistono più di 100 lingue – Filippine, Russia, Stati Uniti, Malesia, Cina, Sudan, Tanzania, Etiopia, Ciad, Vanatu, Repubblica Centrafricana, Myanmar/Birmania e Nepal – possiamo constatare che 22 paesi, i più diversificati sul piano linguistico, ospitano il 75% della totalità delle lingue del mondo, e nessuno di questi si trova in Europa².

    Così, se si realizzasse, come è la tendenza attuale, una mappa rappresentativa di tale densità plurilingue nel mondo, da questo punto di vista l’Europa sembrerebbe quasi desertica. L’associazione di una lingua a uno Stato, che ci sembra evidente in paesi come la Francia o il Giappone, è piuttosto cosa eccezionale, e il plurilinguismo nel mondo costituisce di fatto la situazione più diffusa, e questa situazione si perpetua sempre più a causa delle migrazioni; ma va anche detto che solo un numero esiguo di queste lingue gode dello statuto di lingua nazionale o di lingua ufficiale. Le altre, quando non sono trattate con degnazione o disprezzo come dialetti e vernacoli, vengono chiamate lingue regionali o lingue minoritarie. Certune deperiscono, spariscono nella più totale indifferenza. Oggi si può porre fine a una lingua così rapidamente come mai prima nella storia dell’umanità: i media e l’insegnamento sono i primi responsabili di questo tipo di crimine in cui si trova ugualmente implicata, anche se indirettamente, la mondializzazione dei sistemi economico e politico. Contemporaneamente e autonomamente, i linguisti si impegnano attivamente a dare una descrizione della diversità linguistica del nostro pianeta, come fanno i biologi che si sforzano di compilare un inventario completo delle specie animali e vegetali viventi sulla Terra, prima che alcune di esse spariscano. Tant’è che disponiamo di «Red Book» sulle lingue minacciate, allo stesso titolo che sugli animali o i vegetali. Esiste anche una definizione precisa delle condizioni nelle quali una lingua rischia di sparire: perché la lingua non venga trasmessa alla generazione seguente è sufficiente che abbia un piccolo numero di locutori, che sia vittima di uno statuto politico sfavorevole, e soprattutto che i bambini smettano di impararla. Secondo le previsioni dei «linguisti-ottimisti», la metà delle lingue parlate oggi spariranno nei primi decenni del nostro secolo, ma i «realisti-pessimisti», come Michael Krauss, stimano che entro un secolo solo il 10% di tutte le lingue saranno veramente vive; il resto, cioè il 90%, saranno «morte» o «condannate a morte».

    Di fronte a questa apocalisse annunciata, la sorte della diversità linguistica sembra preoccupare poche persone, mentre quella della biodiversità suscita molte inquietudini. Perché nessuno denuncia nelle istanze internazionali questo genocidio linguistico? Perché la protezione di tale immenso patrimonio immateriale rappresentato da queste migliaia di idiomi non figura nei programmi delle grandi ONG, viene sottovalutata nei convegni mondiali, nei summit dei capi di stato, in quelli delle fondazioni e riceve poche sovvenzioni per la ricerca?

    Ricercatori come David Harmon, Tove Skutnabb-Kangas, Luisa Maffi³ – specialisti del bioculturale, disciplina che studia i rapporti tra lingua, cultura e ambiente – hanno studiato le correlazioni tra biodiversità e diversità linguistica, e constatato che i paesi che posseggono il numero più elevato di specie di vertebrati o di piante a fiori o di farfalle sono quelli in cui la diversità linguistica è più ampia. Ciò vorrà pur significare qualcosa.

    Essi affermano che la salvaguardia della diversità linguistica mondiale deve far parte degli obiettivi maggiori di qualunque programma per la protezione della diversità bioculturale, e che interrompere in modo brutale i legami che uniscono gli uomini ai loro ambienti vorrebbe dire correre verso una catastrofe. Così, se durante questo secolo annienteremo tra il 50% e il 90% della diversità linguistica –

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