La sottile visione dell'altalena
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La sottile visione dell'altalena - Eleonora Buompane
Fabio.
Irene e la poesia
Era fine aprile e Irene sentiva rifiorire il suo respiro. Pedalava schivando l’ombra delle otto e mezza del mattino. Pensava a quanto le sue ginocchia somigliassero a pietre, come quelle che di tanto in tanto assaliva con le ruote. Era legata dalla notte, aspettava di consegnare il suo corpo addormentato al nuovo giorno.
La primavera era diventata un’esperienza sensoriale alla quale chiedere tutto, voleva sentire profumi vanigliati e aromi al cioccolato, guarniti di frutti di bosco. Tanta era la voglia di cambiare atmosfera che l’olfatto aveva sviluppato la capacità di raccontarle frottole.
Irene scese dalla bicicletta e si mise a camminare sentendo il pedale importunarle lo stinco. Lo fece per non sentire il vento, anche se le sarebbe bastato andare piano. Ma lei era così, tendeva a rendere estremo il lavoro degli arti inferiori. Le sue gambe erano armoniose e nascoste da larghi pantaloni ricamati sui fianchi. Indossava un lupetto viola; un ingiusto nascondiglio, se si pensava al suo collo, così femminile e velato. Sembrava quello di una ballerina che danzava sulle punte stendendo il suo corpo, per guardare al di là dell’orizzonte. Teneva le spalle dritte perché il paesaggio la invitava a farlo, ma non pensava al suo collo.
Si avvicinò a un portico di mattoni a vista che diventava sempre più imponente, mentre lei sembrava ritrarsi e diventare sempre più piccina.
Il suo pensiero dirottò all’infanzia. I soli conteggi che l’avevano interessata, erano quelli dei mattoni a vista. Il piccolo borgo in cui aveva vissuto da bambina era zeppo di mattoni antichi che quando venivano toccati, lasciavano quella polverina rossa che lei usava per fare magie: trasformava le foglie in fiori, i sassi in pasticcini, i cani in gatti, i… i… il ricordo si era fermato. La sosta del pensiero abbracciava la sua sosta al semaforo. Osservava le primule e i papaveri che si trovavano sulla nuova rotonda. Aiuole circolari piene di colore presenziavano per i saluti, quelli che sarebbero iniziati a breve: i saluti educati in cartoleria.
Irene lavorava tra penne e matite colorate. Viveva in città, una bellissima città sentimentale del Centro Italia. La definiva così perché sembrava che tutte le risorse di quella terra sgorgassero da emozioni forti, buone e cattive, ma vive. Lo intravedeva nello sguardo delle persone, inondate dall’amore e dalla crisi, dall’amore in crisi, dalla crisi dell’amore.
Un ipotetico figlio di Irene avrebbe incontrato nei libri di testo questo pesante periodo storico. Ma a un figlio ancora non ci pensava, anche perché al suo fianco non c’era nessuno di stabile. In archivio aveva storie brevi di uomini brevemente presenti, brevettati ma non ben assortiti; insomma, solo personaggi secondari e comparse.
Aveva ventinove anni e correva come il vento. Arrivò al negozio e davanti vi trovò Micio, un gattino tutto nero che le faceva compagnia da cinque anni, da quando Irene aveva iniziato il lavoro in cartoleria. Micio aveva tutte le sue comodità nel retro e in cambio, il suo musetto donava dolcezza e calore alle scatole di cartone che riempivano la stanza, fatta di scaffali e mobili d’ufficio. Era sgusciato fuori per aspettarla o meglio, per aspettare la colazione.
Irene era diffidente. Aprì la saracinesca e mise lo zerbino davanti alla porta d’ingresso, sistemò la sua giacca in finta pelle sull’appendiabiti e si scrollò di dosso i morbidi detriti dell’aria.
La cartoleria Il Pennino delle Fate apparteneva a una signora facoltosa di nome Lavinia, una donna che amava l’odore della carta, l’odore dei libri, dell’inchiostro e delle penne, ma che era astiosa verso l’umanità in genere. Aveva deciso di avere una cartoleria che le permettesse di dormirci, se solo lo avesse desiderato. Si sarebbe cullata con il profumo della carta, ma non l’aveva mai fatto, almeno fino a quel momento. La cara zia Amelia le aveva presentato Lavinia a una mostra di un famoso artista fiorentino. La signora Lavinia aveva preso Irene nella sua speciale
simpatia. Le aveva fatto una sorta di esame verbale e all’ultima pungente esternazione, Irene per niente dolorante, rispose che se avesse potuto avrebbe sempre evitato di somigliare al suo prossimo. Da quel momento Irene occupò un posto nell’egocentrico mondo di Lavinia.
I clienti della cartoleria erano affezionati alle lentiggini di Irene, scenografiche come un bel cielo stellato. I suoi capelli rossi sembravano decorazioni su quel muro giallo limone; erano ondulati e corti, incorniciati da una graziosa frangetta. I suoi occhi verdi attiravano la gentilezza della gente: erano sinceri.
Entrarono una dozzina di persone quel giorno e la maggior parte le aveva chiesto penne dall’inchiostro cancellabile. Aveva ricamato un’altra teoria nel suo machiavellico pensiero: oggigiorno i ragazzi volevano avere la possibilità di sbagliare senza lasciare macchie, non volevano affrontare le loro debolezze.
Era venerdì sera e la cena del venerdì era sempre molto leggera. Tornata a casa dalla cartoleria mangiò frettolosamente del tonno al naturale e delle carote al vapore. Viveva sola in un appartamento di settanta metri quadri, su misura per il suo piccolo cosmo e con una magnifica vista sulla piazza; non quella principale, ma su una piazzetta piccola e nascosta, quindi poco chiassosa. Le permetteva di dormire meglio, considerato il suo sonno ballerino.
Da dietro le tende blu aveva visto un suo praticante Yoga che si dirigeva verso il centro sportivo. Sì, perché Irene dedicava il venerdì sera all’insegnamento di questa pratica che permetteva a lei e ad altri di sentir affiorare benessere e lucidità mentale.
Il cammino esistenziale di Irene era stato tutto tranne che facile e per questo motivo da nove anni, praticava con impegno questa tecnica per armonizzare il corpo e la mente, scaturendo nella chiarezza delle idee e nella consapevolezza di poter trovare la calma, anche quando era difficile da conquistare. Aveva provato su se stessa quanto la mente potesse disturbare il corpo senza toccarlo e senza dire nulla; un processo lento che può facilmente cronicizzarsi.
A ventuno anni era stata in cura da una psicologa per circa un anno. Era stato un percorso difficile, soprattutto accettare l’obbligo di far controllare la propria psiche in profondità. Sentiva che qualcosa le schiacciava lo stomaco e poi lo contorceva, fino a farle sentire che la sensazione dell’ansia non sarebbe andata via così facilmente. Le diceva di stare sempre con lei, fin dal mattino presto. Era novembre quando iniziarono le sedute e ricordava molto bene il momento in cui arrivò davanti all’edificio, spoglio e triste. La sua mente lo dipingeva così ed effettivamente, era realmente così. Non voleva immaginare che l’avrebbe incontrato a lungo, il suo cervello aveva realizzato che con poche parole, avrebbe impacchettato questa terribile sensazione e l’avrebbe fatta scivolare via da sé; peccato che per svuotare il suo corpo e la sua mente dal dolore, ci sarebbe voluto molto di più.
Aveva iniziato le sedute con il Dottor C. ma non lo sopportava. Voleva sfregare pietre su di lei per guarirla. Aveva un metodo inflessibile, era un uomo aspro e insensibile. Le aveva proposto o per meglio dire imposto, alcuni medicinali; non avrebbe mai accettato se la cosa non le avesse così condizionato la vita di tutti i giorni e quindi, accolse la proposta, sperando di non rischiare di dover accarezzare l’ansia, come se fosse un’animale domestico che dormiva, giocava e mangiava dentro di lei. Peccato che ben presto Irene si accorse che quei medicinali non miglioravano la situazione anzi, la peggioravano rapidamente: tremori, tachicardia e una malvagia sensazione di cadere nel vuoto. Si sentiva minacciata. Disse al Dottor C. che le sembrava di soffocare, lui girò lo specchio che si trovava sulla scrivania e le disse:
«Osserva bene, non c’è nessuno che ti sta soffocando».
Era il suo metodo, ma sicuramente non era il sistema più adatto a lei. Quella fu l’ultima volta che incontrò il Dottor C.
Nello stesso edificio c’erano altre persone che potevano occuparsi di lei: trattandosi della sua salute mentale e non potendo permettersi un servizio costoso, aveva deciso di seguire la strada che implicava meno problematiche e che non fosse troppo dispendiosa. Così si trovò fra le dolci mani della Dottoressa T., una donna gentile, materna, interessata al percorso più giusto per lei. Irene si presentò alla Dottoressa T. inciampando sulla porta e aggrappandosi letteralmente all’appendiabiti. La Dottoressa T. le disse divertita:
«Vedo che non hai nessuna voglia di cadere!» e Irene le fece cenno di no con la testa. Guardò la dottoressa con le gambe ancora piegate e si accorse che la matita che aveva sugli occhi era sbavata. Da lì a un anno, non ci fu un giorno in cui gli occhi della dottoressa fossero truccati bene. Giustificò con diplomazia il fatto che Irene non avesse creato un buon rapporto con il Dottor C. spiegandole la differenza tra psicologo e psichiatra. Le disse che il loro metodo di lavoro si basava su fattori differenti. La Dottoressa T. l’avrebbe osservata nell’insieme senza focalizzarsi sul disturbo. Per prima cosa le fece fare il test di Rorschach: dieci tavole senza soggetto da osservare per poi esprimere ciò che le facevano venire in mente. Attraverso le risposte avrebbe proiettato su una figura senza significato la sua personalità, per avere una diagnosi psicologica ai fini terapeutici.
In seguito si addentrò nell’infanzia. La Dottoressa T. le chiese di fare un quadro generale della sua famiglia. Irene si mise le mani sotto al mento tenendo i gomiti poggiati sulla scrivania e traballanti sotto il peso della sua testa; nonostante tutto, era contenta di non essere sdraiata su un lettino come nei film.
Le raccontò dei suoi genitori, separati quando lei e suo fratello gemello avevano due anni. Sua madre scoprì che suo padre aveva un’altra, così per vie legali molto complesse