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Un osservatore esterno al sistema
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Un osservatore esterno al sistema

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Parigi, 1958. Tutto era iniziato il giorno in cui il maestro Lachart aveva proposto, per la lezione di storia: La seconda guerra mondiale e la resistenza in Francia.

Si trattava della lezione di storia più entusiasmante, perché quando si è il figlio di un grande eroe è naturale sentirsi orgogliosi ed è così che Samuel si sentiva, profondamente orgoglioso delle sue origini e della sua identità. Finché non viene citata quella data, assolutamente incongruente con la sua data di nascita.

Cecilia si offre di aiutare Samuel a trovare la verità su suo padre, accompagnandolo nella ricerca tra il laboratorio del liutaio Gerard e il garage delle invenzioni.

Attraverso i taccuini di Ester, la madre di Samuel, i due ragazzini si imbattono nella formula che vuole condensare tutte le espressioni della fisica, come dovevano essere al tempo zero del cosmo, il frutto della ricerca che aveva assorbito le energie di una vita, quella di Ester, appassionata astrofisica.

L'arrivo di Jan a Parigi sembra destabilizzare la vita di Samuel, minacciata dall'amore più invincibile tra gli amori potenti, quello che appartiene al passato.

Attraverso la voce di Jan si dipana la storia di Ester, la sua infanzia a Praga, l'abbaino in Na Františku da cui, fin da bambina, Ester scrutava l'universo con il telescopio che suo padre, l'ottico, aveva assemblato per lei, l'amicizia con Nina e con lo stesso Jan, pianista figlio d'arte, con il quale la giovane Ester condivide le notti dedicate all'osservazione astronomica; gli studi a Berlino e poi la fuga dalla guerra, che la vede raggiungere la Francia, poi l'Africa e infine abbracciare il servizio da crocerossina sulle Navi bianche italiane.

Con la fine della guerra, una nuova vita a Parigi, con il figlio Samuel, in una casa dalla quale la vista sulla Senna si confonde con quella sulla Moldava. E un padre che li osserva da una fotografia appoggiata sul comodino della camera da letto.

Della stessa Autrice, nel 2010 la casa Editrice Ancora ha pubblicato "Il mantello del Sommo Sacerdote"

LanguageItaliano
PublisherPaola Emaldi
Release dateApr 17, 2016
ISBN9786050422801
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    Un osservatore esterno al sistema - Paola Emaldi

    10

    I

    Parigi, 30 Luglio 1958

    Il problema era che Napoléon non piaceva a nessuno e non sarebbe stato facile trovargli una casa.

    «Bisogna anche vedere se Napoléon si adatterebbe a vivere in una casa» aveva osservato Gerard e tutti annuivano dimostrando di essere d’accordo con lui che, in piedi in fondo alla stanza, il gomito destro appoggiato alla madia, nella posa pubblica che gli è ormai abituale, rivolgeva agli ospiti la metà sana del viso mentre declamava le sue opinioni strappando ogni parola alla tensione della guancia e del labbro della parte destra.

    Napoléon non aveva fatto che abbaiare per l’intero pomeriggio e sembrava un cane indemoniato. Gerard aveva messo uno stuoino accanto alla stufa ma Napoléon non si era mai accucciato. Continuava a lamentarsi e a guaire vicino alla porta della liuteria e, quando aveva accertato che gli era vietato uscire, si era messo a correre attorno al tavolo da lavoro e a fare un tale sconquasso che avevo temuto che Gerard lo lanciasse in strada con una pedata, sulla neve, solo sotto il cielo gonfio e bigio.

    Tatì gli aveva allungato una ciotola di zuppa di pane e, infine, il cane si era quietato.

    «Il cibo è sempre un buon rimedio al dolore» aveva affermato sedendomisi accanto e mi aveva carezzato la testa, trasferendo al mio capo il gesto affettuoso destinato al cane, come se il dolore riguardasse entrambi in pari misura. Ma non mi aveva offerto la zuppa, che comunque avrei rifiutato.

    Solo quando Napoléon, esausto, aveva smesso di fracassarci i timpani, la pace era tornata nella liuteria e avevamo potuto fare delle ipotesi sul suo destino. Gerard non aveva la minima intenzione di tenerlo in bottega, né tanto meno in casa. Sua moglie detesta le bestie perché sporcano e portano solo guai.

    «Figuriamoci un bastardone come Napoléon, sempre vissuto in strada» aveva concluso puntando sul cane uno sguardo sbieco e ripiegando le labbra serrate del suo lato sinistro, quello intatto, espressione che aveva definitivamente smorzato qualsiasi slancio da parte della piccola assemblea.

    Sorretti dal drastico giudizio del liutaio, tutti si sentivano legittimati a sostenere i più svariati argomenti: «Le pulci, è troppo vecchio, è di taglia troppo grossa…» insomma, sembrava proprio che Napoléon fosse troppo di tutto.

    Io non lo trovavo per niente esagerato, né nella taglia né per il resto. Il suo lungo pelo avrebbe indubbiamente avuto bisogno di una lavata, poiché il colore chiaro era ormai indistinguibile sotto lo strato superficiale di polvere e terra, ma per il resto era un animale splendido: il muso affilato, le orecchie che ricadevano morbide ai lati del capo e gli occhi, grandi e mansueti, raccontavano quanto la fedeltà incondizionata vi aveva deposto negli anni, calpestando giorno dopo giorno gli impervi sentieri della vita.

    E di giorni faticosi doveva averne passati, al fianco di Daniel, per le vie di una città che sa essere scontrosa, se non cieca, o generosa nell’offrire lo scarto del superfluo.

    Quando a sera, dopo il lungo vagabondaggio quotidiano, Daniel si sedeva sulla panchina davanti a Saint Julien le Pauvre, Napoléon si adagiava ai suoi piedi. Daniel selezionava per lui il cibo più adatto, tra quello che aveva rimediato, trattenendo per sé quanto avanzava.

    Se cercavi di avvicinarti durante il loro pasto, Napoléon ti affrontava ringhiando, scoraggiando chiunque dal procedere. Ma in momenti diversi avevo scambiato qualche parola con Daniel. Era lui che mi chiamava:

    «Ehi, ragazzo, che te ne pare delle mie scarpe nuove?», oppure «Ce l’avresti una moneta, se me la puoi dare, sennò fa lo stesso» e il suo sorriso di denti gialli tagliava, come la cerniera di una borsa di cuoio, il viso coriaceo, mentre gli occhi brillavano, sotto il velo umido, come accesi da quelle poche cordiali parole. Solo qualche battuta che Daniel mi riservava, credo per essere gentile, per sentirsi gentile, per ricevere la risposta gentile che gli serviva a riportare equilibrio tra lui e il mondo.

    Mancando argomenti che ci accomunassero, la conversazione si spegneva presto nel suo sorriso pago, che mi portavo, confuso, fino a casa.

    Siccome me lo chiedeva così, se me la puoi dare, sennò fa niente, che ovviamente per uno che non ha un centesimo in tasca la differenza la fa eccome, se avevo qualche spicciolo glielo allungavo volentieri.

    Napoléon sembrava seguire le nostre conversazioni e mi osservava, credo, con simpatia.

    Per quanto poco, ero, tra i presenti, quello che lo aveva conosciuto meglio, perciò sapevo di non potermi dispensare dall’offrirmi, lo sentivo come quando ho la soluzione al problema di geometria prima ancora che il maestro Lachart abbia finito di esporlo; la risposta giusta è come una luce che inonda la notte, una lampada che si accende nel centro del cervello, dove si trovano le risposte giuste, s’impone alla mente come la parola magica dove tutti gli indizi convergono e ricolma di senso ogni parola che l’ha preceduta.

    I miei occhi dovevano aver rivelato che possedevo la soluzione poiché improvvisamente era calato il silenzio nel laboratorio, Napoléon mi fissava con lo sguardo sazio e mite, mentre tutti i presenti si erano girati verso di me.

    Avevo però il problema di come convincere maman che quella era l’unica cosa da fare. La nostra casa non è molto grande e c’è già tanta confusione, per via dei nostri libri e degli atlanti astronomici, senza considerare che una delle tre stanze è riservata al telescopio di maman ed è l’unica che è tenuta in ordine e Napoléon non potrebbe certo entrarci.

    D’altro canto non avevo mai chiesto a maman se ha una ragione per odiare le bestie come la moglie di Gerard e potevo confidare in quello che sostiene con decisione:

    «Non bisogna avere preconcetti, mai, perché i preconcetti allontanano dalla Verità e, come ripeteva tuo padre, la Verità va sempre onorata».

    Già, mio padre aveva sempre dei pensieri molto illuminati, è stato un eroe della resistenza ma io non porto il suo nome perché sono un figlio illegittimo, particolare che avevo rivelato solamente a Cecilia, dato che maman si era raccomandata di tenerlo segreto; perciò mi chiamo Bezalel come mia madre e non Moulin come lui. Samuel Bezalel, per la precisione, proprio come mio nonno Samuel Bezalel, che non ho mai conosciuto perché è morto a Praga durante la guerra, che è come un buco nero che inghiotte tutto, anche i nonni.

    «Bezalel, Moulin, questi sono solo dettagli, piccolo mio, che non hanno nessun peso. Se tuo padre ed io non ci siamo sposati è per via della guerra che ci ha divisi. La realtà non cambia.

    Tu sei l’erede di un grande uomo e crescerai degno del suo valore, gliel’ho promesso».

    È per questo che devo sempre fare la scelta giusta e onorare la Verità, maman l’ha promesso a mio padre.

    Perciò non avrei potuto tenere Napoléon nascondendolo a maman. Senza contare che un cane come Napoléon è veramente difficile da tenere nascosto.

    L’unica strada che potevo tentare, avendo la soluzione illuminata nel cervello, era convincere maman della necessità di dare ricovero al cane del povero Daniel.

    «Il povero Daniel!» aveva esclamato maman portandosi le mani al viso.

    «Ma l’abbé Pierre non c’era?».

    Allora le avevo raccontato quanto avevo appreso quel pomeriggio alla liuteria: di come Daniel fosse stato trovato, nelle prime ore della mattina, proprio dall’abbé Pierre, che, avendo sentito Napoléon abbaiare come un dannato, era uscito dalla canonica, con il mantello sulle spalle e la veste sbottonata, che tratteneva con le mani all’altezza del bacino, per non scivolare sul ghiaccio dei gradini.

    La neve in piccoli fiocchi danzava davanti agli occhi dell’abbé Pierre e ne limitava lo sguardo, già intimidito dall’ombra della notte.

    Ma il suo passo lo aveva condotto senza incertezze, diritto verso la panchina dove Daniel era solito sistemarsi, perché

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