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Volevo crederci per volare: Fiat - Dagli anni di piombo agli albori del Rinnovamento -
Volevo crederci per volare: Fiat - Dagli anni di piombo agli albori del Rinnovamento -
Volevo crederci per volare: Fiat - Dagli anni di piombo agli albori del Rinnovamento -
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Volevo crederci per volare: Fiat - Dagli anni di piombo agli albori del Rinnovamento -

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About this ebook

Un Ragazzo della Basilicata che ama lavorare, ed è costretto a lasciare il suo paese natale per farlo.
Un ragazzo che diventa Uomo, e lavora, e sposa la donna che ama.
Un uomo che diventa Padre, e mantiene la sua famiglia con onore e dignità, con sacrifici ed abnegazione, così come hanno fatto gli Italiani degli anni sessanta.

“… Guarino racconta dall'interno, con la passione di chi è stato dentro la vita di fabbrica e ora può fare il punto tra cronaca, memoria, informazione e analisi. Gli anni belli della Fiat, quando l'azienda godeva di fortuna e non ancora si parlava di cassa integrazione, d'esuberi, di perdite secche, quando Torino e gli Agnelli erano una cosa sola e le vendite erano tali da promuovere continui disegni d'espansione. I favolosi anni della Cinquecento.
Ma la storia della Fiat è anche la storia dell'Italia e della sua imprenditoria. Un Paese sgusciato dalla miseria del mondo rurale che si è trasformato in Paese industriale. Tutto questo Fabiano lo racconta dal suo punto di vista di dipendente, non con la sicumera del giornalista specializzato o del grande studioso di storico dell'impresa o dell'economista”
Raffaele Nigro
LanguageItaliano
Release dateMay 2, 2016
ISBN9788899333195
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    Volevo crederci per volare - Fabiano Guarino

    no".

    NOTA INTRODUTTIVA di Raffaele NIGRO

    Giornalista RAI, scrittore lucano

    All’improvviso Fabiano Guarino sentì il diavolo della poesia che bussava alla porta della sua mano e le imponeva di scrivere.

    Fabiano aveva letto qualche libro del poeta di Tursi, Pierro, e su quella strada s'incamminò, costruendo versi ricchi di sapori tradizionali, di cultura antica e di parole de-suete, versi che rinviavano ai fantasmi di casa, alla voracità della morte, ai ricordi di gioventù.

    Ma la poesia non bastava a raccontare ciò che la sua vita gli aveva offerto. La più grande esperienza esistenziale era stata l'allontanamento dal paese, la fuga verso Torino, alla ricerca del lavoro. Una ricerca non ancora complessa come negli ultimi decenni. Il lavoro Guarino lo aveva trovato alla Fiat, come accadeva negli anni Cinquanta e Sessanta e l'a-zienda automobilistica finì col diventare la sua famiglia, la sua casa fuori di casa.

    Ma il richiamo del tuo posto di lavoro lo avverti fortis-simo quando ne sei fuori. Allora ti sembra di aver perduto ogni punto d'ancoraggio e di riferimento. Quando lavori sei preso dalle lotte sindacali, dalla quotidianità, dalle incom-prensioni dei colleghi, che non sempre riesci a vedere come membri di una grande famiglia, ma spesso come antagoni-sti.

    Se non nelle serrate, quando si occupano i reparti e la lotta di classe ti chiama al ruolo di sfruttato. Poi torna la quiete e scopri che l'azienda è la grande casa dove hai trova-to rifugio, hai trovato uno stipendio e qualche certezza. E tutto questo va difeso.

    Va difeso persino il capitale, che ti permette di continua-re a lavorare. E' lo spirito d'amore per la sua azienda che spinge oggi Guarino a scrivere questo libro, dove memoria e malinconia si fondono, dove informazione e riflessioni si tengono per mano.

    Guarino racconta dall'interno, con la passione di chi è stato dentro la vita di fabbrica e ora può fare il punto tra cronaca, memoria, informazione e analisi. Gli anni belli della Fiat, quando l'azienda godeva di fortuna e non ancora si parlava di cassa integrazione, d'esuberi, di perdite secche, quando Torino e gli Agnelli erano una cosa sola e le vendite erano tali da promuovere continui disegni d'espansione. I favolosi anni della Cinquecento.

    Ma la storia della Fiat è anche la storia dell'Italia e della sua imprenditoria. Un Paese sgusciato dalla miseria del mondo rurale che si è trasformato in Paese industriale. Tut-to questo Fabiano lo racconta dal suo punto di vista di di-pendente, non con la sicumera del giornalista specializzato o del grande studioso di storico dell'impresa o dell'econo-mista.

    Lui racconta per come ha visto fiorire e ammalarsi la sua azienda, il decremento delle vendite, la morte dell'Avvocato, la fine di un impero, i piazzali d'automobili invendute, l'apertura di stabilimenti nel Mezzogiorno, lo slancio con cui a Pomigliano, a Termini Imerese e poi a Melfi e il Sud ha risposto alla chiamata del Piemonte. E poi la lenta moria anche di quegli stabilimenti, la ricerca di mercati e di manodopera esteri.

    La difesa del lavoro. Una, memoria lenta e lunga. Come di un cetaceo spiaggiato. Fino all'evento di Marchionne, a quello che sembrava il miracolo Marchionne. Qui Fabiano prova a dare giudizi, ad offrire anche punti di vista, tuttavia il suo libro non è per questi rilievi teorici che potrà suscitare oggi o domani degli interessi, ma per la semplicità della testimonianza che rappresenta.

    In qualche misura ricorda i racconti che si facevano un tempo presso la collana dei Franchi narratori della Feltri-nelli, l'esperienza di vita. Ma con il modo pacato che è tipi-co di Guarino, il quale è animato da un proustismo senza fine, la voglia di raccontarsi e di ricostruire la propria espe-rienza di vita e con la propria quella del Paese, questa Italia così contraddittoria che ha e abbiamo abitato e devastato.  

    Considerazioni di Roberto PLACIDO

    Vice Presidente Consiglio Regionale Piemonte

    Il rapporto che il nostro Paese, in particolare Torino, ha avuto con la Fiat, è sempre stato intenso, contrastato e conflittuale. Il Lingotto, Mirafiori, le boite(piccole officine) dell'indotto, le fabbriche nate nel Centro e nel Sud tra gli anni Sessanta e Settanta non appartengono solo alla storia economica e della produzione industriale dell'Italia, ma a quella sociale e politica. La Fiat è stata fondamentale per la storia personale dei tanti meridionali, del Sud come del Nord, che da contadini si trasferivano nella grande città. Iniziavano a lavorare in fabbrica diventando operai inurbati.

    Da contadino a tuta blu non significava solo indossare una divisa e imparare un nuovo mestiere, ma era una rivoluzione profonda, antropologica e sociologica. Sono le storie che il cinema ha saputo raccontarci con film intensi come Così Ridevanodi Gianni Amelio, o l'arrabbiato e dolente Trevico -Torino. Viaggio nel Fiat-Nam, diretto nel 1973 da Ettore Scola su sceneggiatura di Diego Novelli.

    Il rapporto tra la gente del Sud e la Fiat si è rafforzato e, per certi versi, complicato ancora di più quando l'azienda di Torino ha iniziato ad aprire stabilimenti nel meridione, a cominciare dall'acquisto del marchio Alfasud e soprattutto a San Nicola di Melfi, con la costruzione dello stabilimento Sata nei primi anni Novanta.

    Fa davvero impressione leggere le pagine di Guarino in questi nostri giorni in cui la Fiat si è trasformata in qualcosa di radicalmente diverso. Non più one company town, ma una multinazionale capace di acquistare il colosso americano Chrysler, cosa impensabile fino a poco tempo fa. Ieri azienda intrinsecamente legata ad una famiglia, tanto che Fiat era sinonimo di Agnelli, mentre ora sotto la guida di Marchionne e del giovane Elkann quel cognome non compare nemmeno più.

    Se ieri tanti meridionali fuggivano dal Sud per venire a lavorare a Mirafiori, oggi è la Fiat che rischia di fuggire dall'Italia: un ben strano epilogo per la più grande azienda italiana per la quale era stato coniato il detto Quel che è bene per la Fiat è bello per l'Italia.

    Per questo il libro di Guarino è importante: perché è racconto, è testimonianza, che, come tante altre narrate negli ultimi anni, ci fa comprendere come sia davvero finita un’epoca: perché ciò è scomparso è un'idea di fare industria, un'idea di fabbrica, un modo di essere e di sentirsi classe operaia.

    Perché la Fiat nel bene come nel male, è stata importante per intere generazioni sindacali, sociali e politiche. Non ha prodotto solo auto, ma forgiato passioni, tensioni, scontri e speranze.

    Grazie Guarino, per quanto hai scritto e raccontato, un contributo a riflettere sulle vite e sulle lotte di tanti meridionali nella fabbrica che non c'è più.         

    UN LUNGO VIAGGIO NELLA NOSTALGIA

    La mia storia inizia da Valsinni, in Basilicata, terra di grandi contrasti e dalle più armoniose convivenze, spettacolare per la sua bellezza paesaggistica, un mausoleo di civiltà passate, posto in una valle, attraversata dal fiume Sinni. Il paese è famoso per aver dato i natali alla poetessa e scrittrice Isabella Morra.

    Era l'anno 1968: nel mese di maggio decisi di dire addio alla mia strada del cuore, al balcone fiorito, all'erbetta sempre secca sulla casa sottostante e al camino con gli odori affumicati degli arrosti. La sera prima di partire per Torino, mia madre ripiegò con cura la poca biancheria, per metterla in quella valigia di cartone che era stato testimone di tanti addii, di sogni perduti e ritrovati.

    In un silenzio quasi religioso, curiosamente attorniata dalle mie sorelle, con le sue mani ruvide, screpolate dal duro lavoro, accarezzò lentamente ogni piccolo capo di biancheria come aveva fatto, quando partii a tredici anni per il seminario. Il suo gesto sistematico suscitava un'angoscia in quella serata ventosa, raddoppiando i miei battiti del cuore.

    Sempre uscivano dalle sue labbra tanti consigli, ma quella sera assunse un'aria più pensierosa del solito, eppure non era la prima volta che mi allontanavo da casa. Prese il fazzoletto, vedevo i suoi occhi celesti lucidi di lacrime come il tremolio delle stelle nel firmamento.

    Mi abbracciò come quando ero piccolo. Sembrava sola nella tristezza, con la mente confusa. Il mio cuore ricordava quel volto stanco e passionale che quand'ero bambino mi dava carezze e affanni. Io non so cosa mi stesse succedendo. Il momento era triste, reso ancor più sconsolante dalla mancanza di mio padre che lavorava in un paese lontano. Le mie sorelle gaie, senza pensieri, gironzolavano cercando di rompere la monotonia del momento.

    La mattina, alzatasi presto, mia madre tolse le mani dalla tasca del grembiule per porgermi i soldi per il viaggio, come usava sempre fare, quando avevo bisogno per mettere la benzina nella mia decrepita Fiat 850 con fil di voce mi disse: Figlio mio, pensa al domani, porta sempre nel tuo cuore i miei insegnamenti. Non dimenticare l'amore per la famiglia per la tua terra e non staccarti mai dal cuore di tuo padre. L'aria surreale che si era creata fu interrotta da un passo cadenzato che saliva i gradini della scala di casa. Era Giuseppina, l'amica del vicinato di mia madre, donna gentile, umile e affabile, che veniva per salutarmi e per dire alla mamma: Non ti preoccupare! Lo accompagno io alla fermata del pullman, mettendosi la mia valigia sopra la testa, scendendo le scale. Scendiamo velocemente per quella strada sterrata e quasi fangosa della costa del Petroso per raggiungere velocemente la fermata situata nella strada sottostante. Porto dietro i miei pensieri, mi rivolgo verso l'alto, mi vengono in mente tanti ricordi che scendono in quella confusione mentale. I piccoli alberi, mossi dal vento mattutino, sembrano presagire qualcosa di strano. Lontano, la nebbia primaverile avvolge la cima del monte Coppolo.

    Che bella primavera era quella, guardo la strada che scende da quel monte e nel rogo della mia memoria affiorano tanti ricordi.

    Per un attimo, ritorno indietro nel tempo dei miei anni. Come un'ombra perenne, con i miei occhi da bambino, vedo scendere dalle calanche, alto e robusto dalle mille magie, l’Uomo del mistero, Zio Giuseppe il mago buono di Valsinni. Mi era rimasto impresso il suo viso rozzo ma gentile, i suoi sopraccigli lunghi che entravano quasi negli occhi espressivi, penetranti e pieni di gran mistero.

    Assopito da tutti questi ricordi, la brava Giuseppina, quasi svegliandomi dal momento di torpore mentale, disse d'affrettare il passo, perché il pullman stava arrivando.

    Raggiungemmo la destinazione, appena il tempo di salire e salutarci, che il mezzo ripartì per la stazione di Metaponto. Gli scompartimenti erano pieni di viaggiatori e di odori soffocanti.

    Le valigie e le scatole di cartone legate da funi erano ammucchiate lungo il corridoio stretto. Si viaggiava proprio come bestie. Da poco avevano tolto la terza classe, le locomotive a carbone con i lunghi motori e dal fischio riconoscibile a chilometri di distanza e conducenti sempre dal viso nero da sembrare uomini venuti dall'Africa erano appena andate in pensione. Le locomotive Diesel della Breda, erano state sostituite da quelle elettriche, portando velocemente lontano i sogni e le tristezze, le paure di tanta povera gente.

    Il treno correva, correva, correva, forte in mezzo alla pianura Emiliana. Il paesaggio era desolante: casolari, filari d'alberi di gelsi, cascine isolate distante e poi risaie nella pianura Vercellese. Guardavo stupito questo paesaggio di risaie. I pensieri portavano la mente al fondamentale lavoro delle mondine ai loro canti, resi celebri nel film Riso Amaro degli anni quaranta.

    Un gran melodramma prodotto da Giuseppe De Santis nel 1949. Con grande interpretazione dell’attrice Silvana Mangano e di Vittorio Gasman. Era evidenziato lo sfruttamento dell'epoca e la prepotenza dei signorotti latifondisti. La sceneggiatura del film venne girato sia a Venaria di Lignina vicino a Vercelli, nella tenuta acquistata nel 1935 dalla famiglia Agnelli e sia nella tenuta di Selve (Salasco).

    Dopo aver sonnecchiato in piedi, nel mio piccolo e ristretto spazio vicino alla porta del bagno, ero costretto a spostarmi di continuo per le esigenze dei viaggiatori e del baffuto controllore che passava nel momento inopportuno ad interrompere il mio dormiveglia. Una ragazza insieme agli altri membri della famiglia portava con il suo sorriso un fiore di sole in quella tristezza e un vento di primavera. C'erano uomini dai volti rugosi, malinconici di una semplicità enorme, bambini con visi stralunati ma gioiosi di vedere tante novità che per loro erano sconosciute, donne, che allattavano i propri bambini.

    Una famiglia festeggiava il compleanno della loro bambina. I componenti erano tanti, avevano occupato quasi tutto lo scompartimento. Il genitore aveva aperto sul sedile una torta gigantesca fatta in casa, del pane casereccio con un buco al centro, riempito di peperoni secchi, frittata e salame condito da strutto di maiale. Per terra aveva posato una bottiglia di spumante e un bottiglione impagliato pieno di vino. Io ero davanti alla porta, sentii la voce dell'uomo che con tono ruvido ma bonario da paesano mi disse:

    Signore, vuoi assaggiare un poco di torta e mangiare qualche cosa genuina della nostra terra? La mia bambina, oggi fa il compleanno, l'avrebbe voluto festeggiare a casa con i suoi nonni e con gli altri della famiglia, ma ciò è stato impossibile.

    Accettai solo un poco di spumante e una tazza di caffè. Chiesi che mi fosse versato nello stesso bicchiere di carta in cui avevo bevuto prima lo spumante, ne bevvi un sorso, era ancora bollente. In quel lasso di tempo, mi venne in mente una mattina che, con il viso infreddolito e soddisfatto per un amore corrisposto, mandai giù il primo sorso di caffè, con la punta del naso arrossata dal vento.

    All'improvviso fui assalito per un istante dal desiderio di rivedere la donna che mi avrebbe dato coraggio d'affrontare questa avventura. Poi i miei occhi si posero su un altro signore con due baffi alla garibaldina. Lo avevo notato per il suo strano atteggiamento, per lo stentato dialetto e per una patacca d'orologio con una catenina d'argento posto nel taschino del panciotto. Con tono forte ma gentile si presentò dicendomi di chiamarsi Lorenzo.

    Incominciò a raccontare la sua storia, mentre un giovane di nome Francesco, ascoltava attentamente e timidamente.

    Lui di rimando rispose e come un fiume iniziò a dire che: La sua era, una storia interessante.

    Eravamo nel corridoio e il vento polveroso sollevava i suoi capelli facendoli ricadere sul rugoso viso, mi sembrava Garibaldi in battaglia. Lorenzo, rompendo la monotonia incominciò a raccontarsi. Le sue parole uscivano con il contagocce, forse per diffidenza. Ero alla disperazione, stavo lasciando il mio paese situato nei dintorni di Potenza. Chiaromonte, è un paese di poche persone, le sue case sono arrampicate al monte. Domina tutta la vallata, si vede Senise, paese più ricco e più grande. Lavoravo come pastore in una masseria.

    Ero come una bestia da soma. Uscivamo insieme con un ragazzo all'alba, d'inverno e d'estate, con un pezzo di pane nella bisaccia, oppure legato ad una tovaglia stropicciata, che sognava da lontano il suo bucato.

    Ritornavamo solo la sera con il bestiame, stanchi e affamati. Arrivati alla casa colonica, dovevamo mungere e mettere al riparo il gregge prima di poter accedere alla sospirata cena. Vedevo solo altri mondi, conoscevo altre persone, quando facevamo la transumanza.

    La nostra stanchezza era enorme per i chilometri percorsi, però eravamo contenti di fare amicizie e vedere luoghi migliori e sorrisi di qualche bella ragazza, dimenticati nel tempo.

    Il nostro pasto consisteva in un altro pezzo di pane nero con formaggio, che solo a romperlo con il coltello o con i denti mi procuravo dei tagli. Certe volte era accompagnato da un poco di minestra di verdura, con fagioli, ceci o fave quando l'annata dei legumi era stata buona. La raccoglievo durante l'ora del pascolo nel campo, la condivano con una fetta di lardo e per dissetarmi mi davano un bicchiere d'acqua o un dito di vino nelle feste comandate e poi a letto per la stanchezza.

    Il letto...... la nuda terra. Il padrone mi considerava un suo dipendente mai come un essere umano oppure un amico. Solo un elemento da sfruttare al massimo. Gli anni della mia prima giovinezza, sono da dimenticare, sono diventato vecchio nella mente, nei sentimenti e nel fisico prima del tempo. Questa era la mia vita prima di pensare a volare con i sogni verso il miraggio delle grandi fabbriche del nord, con la speranza di trovare una realtà diversa. Tale era la situazione nei primi anni del dopoguerra di noi tutti lavoratori dei campi e dell'industria in provincia.

    Si cercavano dei cambiamenti, ma attraverso quali inumani sacrifici.

    Interrompendo il suo parlare aggiunse, sento la mia gola arsa e rivolgendosi alla moglie disse:

    Giuseppì damm' nu biccher d'acqua, in uno stretto dialetto. Dissetatosi, riprese il suo discorso, perché la piena travolgente delle sue parole, non si era esaurita.".

    Nelle alte sfere, in quel periodo non c'era una coscienza verso la classe operaia.

    Nell'industria il lavoro era con il contagocce, lavoravano solo quelli raccomandati.

    Avevo lasciato nel paese i miei vecchi genitori, con una sorella e un fratello malaticcio. I soldi per il viaggio mi erano stati dati dai suoceri. Mi attendeva mio cognato, che qualche anno prima aveva lasciato la sua famiglia ed ora aveva quasi un posto sicuro in una grande fabbrica di Torino. In uno stentato italiano, diceva, che era quella dove costruivano i telai dei camion.

    Entrato nello scompartimento, anche perché parecchi erano scesi alla stazione di Bologna, repentinamente aprì la tovaglia, per mangiare qualche cosa, riempì il bicchiere, con grande sincerità e spontaneità, gesti che si possono vedere solo a persone umili del sud, specialmente ai contadini, mi disse: Bevi, non ti vergognare.

    Conoscendo l'usanza e la semplicità della mia terra, per non offenderlo accettai, facendo buon viso e cattivo gioco. Era un vinello primitivo, genuino, fatto da lui, ricavato dal suo piccolo orto.

    Intanto il treno, quella mattina del mese di maggio, correva, correva per poi fermarsi finalmente in quella freddolosa stazione di Porta Nuova. Confuso, stralunato per questa nuova realtà, per la marea di tanta gente che come un formicaio andavano e tornavano, seduto sulla mia valigia di cartone, me ne stavo sul marciapiede, pensando alla nuova realtà.

    Mi portavo dietro pensieri e preoccupazioni, mentre apparivano le prime luci del nuovo giorno. Sentivo freddo nel corpo e nello spirito, ma ero cosciente di avere un grande amico che indirizzava i miei passi e che non mi avrebbe mai tradito. Quell'amico era il mio Dio, che nell'universo comanda tutto e tutti.

    Aspettavo, ansioso insieme all'amico Fabiano, inseparabile compagno della mia avventura e del lungo viaggio, di vedere arrivare il fratello che ci avrebbe portato in una sistemazione temporanea, per poter riposare e distendere il nostro corpo. Assorto in questi pensieri, vidi un momento fermarsi davanti ai miei occhi una persona. Era Lorenzo, il signore di Chiaromonte, che con benevolenza mi aveva invitato a bere e a gustare il suo nettare.

    Abbassando la valigia che portava sulle spalle, fermandosi mi tese la sua mano callosa, mentre la moglie e i due figli lo seguivano a breve distanza. Con grande ardore, con bontà, virtù che esistono solo nelle persone semplici ed umili, mi disse: Buona fortuna amico mio.

    Avevo proprio bisogno di quelle parole sincere e genuine com'era la sua persona. Emozionato, vidi la sua sagoma, allontanarsi lentamente verso il suo destino e man mano sparire nella marea umana. Assorto ancora, in quella nebbia che si diradava, vidi apparire con un passo cadenzato con occhi che si giravano da tutte le parti, il fratello di Fabiano, l'amico della nostra speranza, l'amico che conosceva tutte le nostre incertezze e i nostri bisogni del momento.

    Prendo un bel respiro, per allontanare tutta la mia nostalgia per non piangere, pensavo al momento in cui mi aspettavano sentimenti più forti, emozioni più violente ed una vita più dura. Dalla strada arrivavano rumori a non finire, assordanti alle mie orecchie. Le auto da lontano strisciavano veloce, le voci dei tassisti chiacchieroni invitavano la gente a salire sulle loro macchine, mi sembrava di vivere altre realtà. C'incamminammo sotto quei portici a ritrovare una nuova strada, la nostra nuova vita e ad incominciare questa nuova avventura. 

    SOGNANDO L’ALBA DELLA SPERANZA

    Pregiudizi nei nostri confronti

    Lasciati dietro le spalle i rumori dei treni e i binari della monumentale stazione di Porta Nuova, incominciavo a vivere l'integrazione con il popolo Piemontese che ci guardava con curiosità e con indifferenza, quasi con disprezzo. Noi meridionali venivamo dipinti come Insofferenti verso il lavoro metodico, incapaci d'adattarsi ai ritmi delle società moderne e persino sporchi, incivili.

    Ero stato molto fortunato. Con l'aiuto dei miei compagni paesani, avevo trovato una dimora e una decente sistemazione momentanea. Abbandonare la casa e la famiglia per andare a lavorare in quelle fredde terre del Nord, vivere in una camera d'affitto con più compagni di lavoro o in una baracca, accettare i lavori più umili e pesanti rifiutati dai lavoratori locali, sentirsi abbandonato e incompreso da tutti e passare in un'umiliazione perenne, mi dava fastidio.

    Per conoscere attentamente la città, l'ambiente, le persone, camminavo spesso da solo. Mi rendevo conto, man a mano che i mesi passavano, che le difficoltà aumentavano. Vedevo sui portoni di case anche catapecchie, cartelli con la scritta: Non si fitta ai meridionali.

    Era per me difficile accettare un simile giudizio. Eravamo a prescindere della regione d'appartenenza, chiamati I Napule. Avevano nella loro mentalità quell'idea, che era meglio di non fidarsi dei Napule". Facevamo arrivare (questa era realtà), troppi parenti.

    Coltivavamo i pomodori nella vasca da bagno. Tra i tanti migranti che vi si trasferirono negli anni 60, c'erano anche contadini provenienti anche da piccoli centri isolati del Veneto (anche loro denominati terroni del Nord). Fortunatamente in quel periodo queste forme di razzismo si fermarono solo allo scherzo, senza generare in lotte fratricide.

    I fattori d'attrazione, nel nostro stato sociale erano quelli di trovare un lavoro. I nostri pensieri erano esclusivamente su fattori economici, sociali e culturali, che concorrevano a prevedere delle opportunità maggiori per sollevare il tenore di vita per noi e per i membri della famiglia rimasti nei nostri paesi ricchi di storia e di tradizioni.

    Gli emigranti, all'inizio, furono anche protagonisti di spostamenti verso le nazioni dell'Europa settentrionale (Belgio, Olanda, Svizzera e Germania), poi cambiarono direzione, andando verso le aree più ricche dell'Italia. Eravamo attratti dall'industrializzazione di queste regioni, lasciando al sud un'emorragia di mano d'opera specialmente nel lavoro agricolo, che subiva dei contraccolpi.

    Lo spostamento avveniva nella grande fabbrica moderna, nel cosiddetto triangolo industriale Torino, Genova e Milano. La forza lavorativa era prevalentemente in gran parte giovanile, con le inevitabili difficoltà e chiusure iniziali a volte anche di stampo razzista.

    Lì avevo trovato degli amici, che come sirene m'invitavano ad uscire dal mio guscio. Mi proponevano di raggiungerli, per dividere con loro pene, i soprusi e le difficoltà di quei momenti, pur di trovare all'inizio un posto per la sopravvivenza e anche di scoprire, con la curiosità giovanile che mi portavo, un nuovo mondo a me sconosciuto.

    I Piemontesi pensavano di noi cose strane:

    Che eravamo buoni solo a generare tanti figli e a mantenerli ci pensavano gli altri.

    Che il massimo del disonore erano le corna.

    Che la maggior parte dei professionisti per la loro cecità erano barbieri o questurini di mafia, con il coltello alla portata di mano, piuttosto che discutere.

    La nostra replica non si faceva attendere.

    Voi, Piemontesi siete freddi e calcolatori, pensate solo a generare ricchezze e prima di prendere una decisione, pensate almeno tre volte. Vi credete superiori, confermando il detto che in quel periodo era sulla bocca di tutti gli immigrati, Piemontese falso e cortese.

    Migliaia di noi, vivevamo in condizioni disumane sia igieniche sia abitative. Le soffitte e gli scantinati erano di moda. Persone senza scrupoli si approfittavano della difficoltà del momento chiedendo tanti soldi, sopruso per le tasche di noi povera gente di noi visi bruni anneriti dal sole della campagna e scavati per i sacrifici sopportati.

    La varietà etnica era enfatizzata eccessivamente, in ogni momento. Per risparmiare qualche lira, si viveva in letti improvvisati, usati in alcuni casi da più persone. Altri, nell'attesa di sistemazione dormivano nelle stanze vecchie nei pressi della stazione ferroviaria.

    Il comune di Torino, il governo e la Fiat pur essendo a conoscenza dell'enorme impulso emigratorio, non avevano programmato nessun piano d'emergenza.

    Chi aveva fortuna di trovare una casa pagava un affitto elevato rispetto al salario che guadagnava, perciò aveva l’incubo di essere sfrattato da un momento all’altro. Nel sessantotto si pagava più di £ 15.000 per vano e dalle 30 o 40 mila lire per un appartamento, con l’incubo di essere sfrattato da un momento all’altro. In un secondo momento il Comune e la Fiat, vista la necessità e lo stato sociale degradante, si prepararono a costruire alloggi.

    Il comune realizzò le Vallette, case dormitorio prive d'infrastrutture sociali come ad es.( giochi di bimbi, asili nido e parchi). Incaricò degli assistenti sociali per accogliere persone che venivano da lontano, sviluppando delinquenza, soprusi e scippi a non finire. Eravamo già agli inizi del nostro rinnovamento socio economico e culturale. Nel firmamento lavorativo, il sole diradava la nebbia, portando spiragli d'entusiasmo anche per noi.

     Nelle famiglie del sud

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