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Parole & Media
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Parole & Media

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Televisione e Web si assomigliano non soltanto perché entrambi dotati di uno schermo. Si assomigliano perché condividono strutture e schemi che governano la loro funzione principale, che è quella di comunicare e di coinvolgere il fruitore, di immergerlo in mondi di appartenenza emotiva, di condurlo allo sviluppo di un pensiero e di un senso comuni. Entrambi sono palcoscenico per l’esibizione, sia pure nello spessore semiotico di un linguaggio multicodico, dell’antico e inveterato protagonismo della parola. Si assomigliano ma anche si contrappongono, da una parte paradigma “verticale” del broadcasting, emittente vs destinatario, dall’altra il costitutivo dialogismo consentito dalle tecnologie dell’interattività.
Nell’epoca caratterizzata dalla cosiddetta oralità di ritorno, modelli espressivi e contenutistici tipici della trasmissione orale del sapere riaffiorano con insistenza nello spettacolo quotidiano dei programmi televisivi e nello spazio delle maggiori piattaforme di condivisione e di social networking presenti su Internet. Si assiste così a una sorta di cortocircuito categoriale che identifica la natura ibrida di questi media, in cui la forza della parola viva e istantanea motiva l’espansione di una conoscenza comunitaria, basata su un nuovo ma sempre presente linguaggio sociale.
LanguageItaliano
Release dateMar 1, 2012
ISBN9788897527015
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    Parole & Media - Lorenzo Denicolai

    Denicolai

    Prefazione di Ambrogio Artoni

    Per un apparente paradosso della storia l’affacciarsi e l’affermarsi di mezzi di espressione e di comunicazione tecnologici quali il cinema, la radio e la televisione ha di fatto coinciso con un graduale arretramento del peso e dell’autorità del libro, vale a dire dello strumento per eccellenza su cui l’Occidente ha fondato e realizzato la sua specificità culturale. Alla (relativa) innocenza della scrittura che, sottraendo la parola all’effimerità e alla volatilità del tempo, ma anche alla presenza della voce e all’espressione corporea del parlante (così purificandola dalla sovrapposizione di altri codici espressivi), i media tecnologici rispondono con un gesto uguale e contrario, vale a dire con la ricostituzione di uno spessore semiotico che intreccia diversi codici a vari livelli,  tanto da aver indotto gli osservatori più avvertiti, sulla scia di autori come  McLuhan, Ong, Havelock, a parlare in proposito di un’inedita oralità di ritorno, ambigua e inquietante, ma anche affascinante e sorprendente, destinata a produrre radicali mutamenti nel modo di pensare e di comunicare nella nostra tarda modernità. Una mutazione antropologica ormai del tutto evidente, che si realizza sotto i nostri occhi in modo francamente non resistibile, quantomeno da parte dei pur irriducibili sostenitori della scrittura, chirografica e a stampa. I quali, del tutto ragionevolmente, possono effettivamente insistere sul carattere analitico e critico della parola scritta, che per contro tenderebbe necessariamente ad appannarsi ove tornasse a riaccompagnarsi, retrogradando dall’occhio all’orecchio, con la seduzione della voce, del corpo, del gesto, in sostanza con i linguaggi del sensibile che finiscono con il depotenziarne la nuda letteralità, cioè a dire la piena intelligibilità da parte della ratio.

    Mutatis mutandis, nell’attuale discussione su questi temi, vediamo riemergere con una certa significativa  approssimazione  quelle stesse contrapposizioni categoriali che alle origini del pensiero metafisico Platone nello Ione  e nella Repubblica aveva voluto interrogare nella sua lotta contro la persistenza delle antiche tradizioni orali; e particolarmente  nella loro forma semiotica più autorevole e specifica, quella poesia che il filosofo identificava nella sostanziale teatralità della techné mousiké. La performance del poeta, sosteneva Platone, non era riconducibile prioritariamente all’azione espressiva della lingua e ai suoi specifici livelli di funzionamento. Così che la parola, rivestita dal potere seduttivo della phonè e della phisis del poeta/cantore, finiva per veicolare una sua certa significazione non in virtù del suo intrinseco valore discorsivo, del resto privo di originalità creativa e fondato sui topoi della tradizione, ma soprattutto in forza dello strapotere comunicativo dell’insieme dei codici che la rivestivano:  «Quando all’inizio del quarto secolo Platone, nella Repubblica, mette sotto accusa Omero, e con lui la poesia in generale, egli chiama in causa non un’opera specifica, un testo scritto e fissato in libro per le giostre esegetiche dei filosofi, bensì il fondatore di una paideia, di un sistema culturale più o meno concepito come una sorta di enciclopedia del pensiero collettivo: un sistema trasmesso per via orale, recitato con accompagnamento musicale e memorizzato con l’aiuto di formule ritmiche. Una cultura poetica, insomma, che suscita nell’animo di chi ascolta affetti e sentimenti decisamente condannati dalla filosofia delle Idee.»[1]

    Analogamente, in epoca medievale e fino a modernità avanzata, l’arte orale del giullare e dell’attore fu sistematicamente condannata dalla letteratura cristiana (clericus e litteratus, nel Medioevo, sono sinonimi), fino alla scomunica e alla conseguente esclusione dalla civitas dei per chi la praticava. Una sola citazione, a mo’ d’esempio, da un paradigmatico testo secentesco di Franco Maria del Monaco: «Vuoi sapere che cosa abbia di più la scena per cui in essa diviene pessimo d’un tratto quel che poco prima era solo malefico? Te lo dirò subito: i gesti, i volti, le voci [...]. Sulla scena infatti le voci sono spiegate per esprimere piacere, allegre per indicare letizia, basse  a esternare imbarazzo, esitanti a denotare paura, flebili e a inflessioni morbide a provocare compassione. Sulla scena l’espressione del volto è ardente nell’ira, ilare nella gioia, contrita nelle avversità, petulante nelle invettive, composta nelle cose serie, giuliva nei divertimenti, corrucciata nelle difficoltà. Sulla scena, infine, le mani accompagnano le parole o (per meglio dire) le seguono e spesso le interpretano; quanto sono argute e sapienti, e come completano le parole e la loro evidenza o efficacia, tanto che si potrebbero giustamente chiamare le frecce del discorso»[2].

    Al pari di Platone, del resto citatissimo nella tarda trattatistica clericale contro gli spettacoli, l’eminente religioso mostra di comprendere fino in fondo i dispositivi dell’espressione orale. Le parole, a differenza di ciò che accade nella loro alfabetizzata veste grafica, nella performance orale sono accompagnate ed eccedute dalla voce (con i connessi tratti paralinguistici) e dal gesto, tanto da perdere in trasparenza semantica a favore di un’azione ben più potente e insidiosa, diretta alla ricezione dei sensi e alla loro fallacia, ben  più che dell’intelletto. Di conseguenza, per mantenersi quanto più lontano dalle perniciose seduzioni della scena, il cristiano «dovrà  accontentarsi della semplice lettura, la quale non è completata dai gesti, né appoggiata dagli occhi, né valorizzata dalla voce: del tutto muta, anzi mutila, morta [...]. Io dico che la commedia scritta è un equivoco chiamarla commedia, se la si confronti con quella che viene presentata sui prosceni»[3]. Trasportata sulla scena teatrale ed affidata alla multicodicità della performance, l’autentica significazione della parola in sé, così come si produrrebbe sulla pagina alla semplice lettura, risulta dunque compresa e fatalmente compressa nello spessore semiotico della performance orale integrale, che in quanto tale si realizza come un sistema multiplanare dove ogni istanza espressiva si trova a interagire con le altre in un quadro relazionale.  Come del resto succede, in epoca di oralità di ritorno, negli audiovisivi in genere e particolarmente nella televisione, che non a caso è divenuta il maggiore bersaglio, quasi un capro espiatorio, delle critiche e talvolta dell’insofferenza degli uomini di libro (ma non solo). Da Popper a Pasolini, da Sartori a Baudrillard, sia pure secondo diverse prospettive, la perdita di senso e persino di ogni referenza reale è sempre in agguato dietro i messaggi del tubo catodico, oggi peraltro definitivamente superato dalle ancor più de-realizzanti tecniche del digitale. Con conseguenze denunciate come esiziali soprattutto quanto ad effetto sugli spettatori, e che, secondo un analista come Hans Magnus Enzensberger  sono frutto di una strategia che «viene imposta in primo luogo come un metodo ben definito per un lavaggio del cervello che produca godimento»[4]. Si potrebbe in tal modo parlare di un medium zero, almeno tendenzialmente e in ultima analisi, che nel trionfo della percezione sensibile rimodella ogni messaggio televisivo al limite della non significazione e che pertanto, per giocare con la terminologia di McLuhan,  si fa, letteralmente,  massaggio.  Un concetto che, al di là della funzione terapeutico/catartica che Enzensberger comunque concede forse un po’ troppo negligentemente alla Tv (ma non dimentichiamo che Aristotele nella Politica fece un gesto per certi versi analogo nei confronti del teatro vivente)[5], richiama proprio gli effetti denunciati da Platone a proposito dell’oralità greca, e che, segnatamente per quanto riguarda cruciali pertinenze comparabili con le caratteristiche della comunicazione televisive, in questa sede troveremo discussi con rigore analitico nell’ottimo studio di Lorenzo Denicolai dedicato alla spettacolarizzazione parola nel talk show televisivo.

    Il pericolo, non solo potenziale, di un futuro dominato dagli effetti anestetizzanti della  televisione e pertanto sempre più segnato da una perdita di senso e parallelamente di pensiero critico (con conseguente che, ormai lo sappiamo,  potrebbero rivelarsi esiziali per la qualità stessa delle nostre democrazie), non sarà comunque contrastato da una tanto romantica quanto illusoria rivincita del libro, della vecchia e cara scrittura a stampa, perlomeno così come siamo abituati a riconoscerla, direi anche ad amarla.

    S’avanza piuttosto uno strano soldato, che non a caso si è affermato al di fuori dell’editoria broadcast, e che è ormai felicemente individuabile  come la più autentica e soprattutto praticabile alternativa al dominio soporifero e massificante della televisione. Il riferimento è ovviamente al computer e specificatamente alla rete, nella sua ormai affermata configurazione del cosiddetto web 2.0, denominazione ormai di routine che fa convenzionalmente segno all’insieme di quelle applicazioni che permettono uno spiccato livello di interazione, tramite un sito, tra utente ed utente. Si tratta di applicazioni che per quanto consentano di norma l’impiego di un ampio paradigma di codici espressivi – la cosiddetta multi/trans/medialità) danno un peso spesso e volentieri predominante, anche se di norma non esclusivo, alla scrittura. Una scrittura sulla sabbia, se vogliamo far segno ad un uso spesso evenemenziale e sostanzialmente volatile della comunicazione in rete (scripta volant? Anche se in qualche recesso delle memorie tecnologiche sembra che nulla sia davvero definitivamente cancellabile), ma che per certi versi richiama ancora una volta virtualità discorsive che ci riportano ancora e direi utilmente ad ulteriori  istanze platoniche, sulla  cui sorprendente attualità  vale ancora la pena di fare qualche  riflessione. 

    Come abbiamo visto, pur nemico giurato della  poesia e della tradizione orale, l’allievo di Socrate rimase tuttavia sempre fedele all’avversione, quantomeno squisitamente teorica,  del suo maestro Socrate per la scrittura. Siamo agli inizi del IV secolo a.C., è ancora troppo presto per quel clima industrioso e pragmatico della biblioteca di Aristotele, laboratorio di quello che di lì a poco diverrà l’alessandrinismo della cultura occidentale; Platone per il momento è ancora  impegnato a sfidare la poesia sul suo stesso terreno, quello della comunicazione orale, vivente, immediata. Il linguaggio della filosofia, insomma, non ha ancora intenzione di trasferire il suo quartier generale dall’Accademia,  dall’agorà e dai giardini fioriti del Fedro alla severa solitudine del leggio e dello scrittoio. La forma canonica del dialogo, con cui ci sono pervenute le opere del filosofo, è del resto chiaramente indicativa della volontà, sempre avvertita, effettivamente praticata ed espressamente teorizzata, di non separare il prodursi del pensiero dal farsi istantaneo del linguaggio e dal suo immediato effetto comunicativo, come inevitabilmente accadrebbe riproducendo l’immagine grafica delle parole sulla superficie statica del papiro. È vero che nel Fedro Platone fa dire a Theuth, il mitico inventore dell’alfabeto, che la parola scritta renderà gli egiziani più sapienti e arricchirà la loro memoria perché questa scoperta è una medicina per la sapienza e la memoria;  ma subito dopo fa ribattere al re Thamus, cui Theut aveva appena offerto i suoi servigi, che l’alfabeto genererà oblio nelle anime di chi lo imparerà: essi cesseranno di esercitarsi la memoria perché fidandosi dello scritto richiameranno le cose alla mente non più dall’interno di sé stessi, ma dal di fuori, attraverso segni estranei Per così concludere: Né tu offri vera sapienza ai tuoi scolari,  ma ne dai solo l’apparenza perché essi, grazie a te, potendo avere notizie di molte cose senza insegnamento, si crederanno d’essere dottissimi, mentre per la maggior parte non sapranno nulla; con loro sarà una sofferenza discorrere, imbottiti di opinioni invece che sapienti[6]. La frecciata  è ai mal sopportati sofisti, ma in questi passi Platone già immagina con inquietudine una scuola piena di leggii e di papiri, con gli scolari ripiegati su sé stessi per acquisire conoscenze che non nascono più dalla e nella dialettica, vale a dire nell’ambito di una discussione reale, rigorosa, che nel mettere a confronto tesi ed enunciati implica di necessità la com-presenza reale e attiva dei soggetti che vi partecipano. Quel discorso orale e lealmente agonistico, insomma, che va al di là di una serie di singoli monologhi monumentalizzati nel libro e da memorizzare passivamente, i quali in quanto tali e senza il vaglio di un immediato e coerente contraddittorio si risolverebbero in una pura serie di doxai, di «opinioni». Così Platone nel Fedro difende a spada tratta l’istanza di un dibattere sereno e puntuale (orientato dalla maieutica) fra singoli individui contemporaneamente coinvolti in un discorso collettivo ma al tempo stesso analitico, basato sul confronto di posizioni individuali ma tale da consentire, attraverso il confronto, provvisorie conclusioni unitarie e possibilmente condivise. Un passo in avanti, e poi ancora un altro, e un altro ancora, sui sentieri della conoscenza, di una conoscenza che si produce dall’atteggiamento ad un tempo critico e cooperativo di ogni enunciato individuale. L’espressione orale, in questo orizzonte, come modello discorsivo  espressamente fondato sullo statuto ontologico della presenza, di una presenza capace di trasmettersi e di rinnovarsi non solo  di discorso in discorso, ma anche da padre a figlio, infine da maestro ad allievo, in una prospettiva sempre vitalistica e in divenire. Proprio ciò che la scrittura, che interrogata risponde sempre con un maestoso silenzio, non può certo garantire. L’espressione orale, dunque, come conditio sine qua non per il farsi e il disfarsi del discorso nella dialettica; ciò che definisce questa oralità come del tutto antitetica e incompatibile con quella della tradizione, dunque rigorosamente scevra di loci communes,  necessariamente in prosa e non in versi, massimamente contenuta nell’espressione sensibile della phoné, tale da conferire al logos, al pensiero che si fa

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