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End and Clash - Il contributo di F. Fukuyama e S. P. Huntington alla riflessione politica contemporanea
End and Clash - Il contributo di F. Fukuyama e S. P. Huntington alla riflessione politica contemporanea
End and Clash - Il contributo di F. Fukuyama e S. P. Huntington alla riflessione politica contemporanea
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End and Clash - Il contributo di F. Fukuyama e S. P. Huntington alla riflessione politica contemporanea

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About this ebook

Dopo la caduta del Muro di Berlino un interrogativo si è posto ovunque nel mondo, e ha ricevuto tentativi di risposta da ogni tradizione politica e culturale: come sarebbe evoluto l'equilibrio politico mondiale con la fine della Guerra Fredda? Questo libro descrive e analizza due risposte forti e categoriche a questa domanda, quelle elaborate da Francis Fukuyama e da Samuel P. Huntington: due politologi americani ideatori di visioni del futuro antitetiche, entrambe occasione di innumerevoli critiche, discussioni e polemiche, entrambe tuttora imprescindibili e attuali.
Continuatore dalla filosofia della storia hegeliana nell'interpretazione novecentesca di Kojève, Francis Fukuyama ha sostenuto la celeberrima tesi della "Fine della Storia" e dell'evoluzione del mondo in una direzione post-storica in cui si sarebbe dimostrata vittoriosa la democrazia liberale, destinata a sconfiggere i suoi antagonisti più acerrimi - fascismo, comunismo e Islam - grazie alla sua capacità di soddisfare il bisogno umano fondamentale di identità e di riconoscimento.
Invece Samuel P. Huntington, politologo puro, senza fare riferimento alle filosofie della storia tradizionali ipotizzò che fosse imminente uno "Scontro di Civiltà", suddividendo il globo in sette culture-civiltà ed individuando lo scontro più aspro e imminente in quello tra civiltà occidentale e civiltà islamica.
End and Clash offre al pubblico italiano un'analisi minuziosa e documentata delle tesi di entrambi gli studiosi, ed è uno strumento indispensabile tanto per chi si accosti a loro per la prima volta quanto per chi, già informato, voglia conoscere meglio la complessità del loro pensiero, quale che sia lo spirito in cui ai due autori ci si accosti: che può essere quello della curiosità e dell'adesione alle loro visioni, come quello della radicale negazione della loro validità.
LanguageItaliano
Release dateSep 12, 2012
ISBN9788897527107
End and Clash - Il contributo di F. Fukuyama e S. P. Huntington alla riflessione politica contemporanea

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    End and Clash - Il contributo di F. Fukuyama e S. P. Huntington alla riflessione politica contemporanea - Mara Fornari

    Fornari

    Introduzione

    Obiettivo della ricerca del savant è il sapere, la verità, la comprensione di eventi che, senza il suo apporto, risulterebbero difficilmente intelligibili; egli opera nel campo della conoscenza, utilizzando lo strumento della riflessione, lontano dall’azione, dalla politica e ci si chiede quando debba essere interessato alle possibili applicazioni della sua ricerca. Oppure, compito del ricercatore è proprio di applicare i risultati dei suoi studi, le sue opinioni intellettuali alla dimensione della realtà politica, chiamato dalle stesse élites politiche ad un ruolo consultivo, di sostegno.

    Quale – tra questi due ruoli – è il più legittimo per uno studioso che opera all’interno di una democrazia liberale? Questi, dunque, deve limitarsi alla ricerca, alla comprensione dei fenomeni senza intervenire ovvero può influire sugli stessi eventi che analizza, proponendo indicazioni alla politica e interagendo con le scelte sociali?

    Nel contesto statunitense è la seconda posizione a prevalere, l’intellettuale è engagé, impegnato in prima persona sulla scena delle problematiche socio-politiche, le sue analisi influenzano le decisioni dell’élite politica, la quale – a sua volta – orienta più o meno velatamente l’opinione pubblica – usufruendo prevalentemente dei mass-media, a loro volta strettamente connessi alle lobby economiche, la cui influenza è diffusa sia sulla società civile sia sul politico. In questo gioco di influenze occorre chiedersi se i principi della democrazia liberale sono salvaguardati oppure corrono dei rischi, per ciò che concerne a libertà individuale – fulcro della concezione liberale – si pone come interrogativo se essa sia realmente tale oppure se le scelte individuali non siano veramente libere ma già pre-determinate dalle élites intellettuali. Ritorniamo dunque al punto di partenza: è legittimo il ruolo attivo dell’intellettuale in politica, o meglio, al servizio di una determinata élite politica?

    Francis Fukuyama e Samuel P. Huntington appartengono entrambi a questa categoria di studiosi politicamente impegnati, quindi, restando sulla scia dei quesiti posti finora, è necessario chiedersi quanto le loro asserzioni abbiano influito sulle scelte politiche e sul modo di affrontare i conflitti.

    E’ dunque in quest’ottica che verranno analizzate le tesi di questi autori.

    Entrando in contatto con le analisi proposte da Huntington e Fukuyama è immediatamente emerso come si trattasse di temi di ampio respiro, non incasellabili in una data epoca storica – seppur figli della destabilizzazione successiva alla caduta del Muro di Berlino e al crollo del comunismo – ma potenzialmente applicabili in diversi contesti, come è altresì dimostrato dal permanere di questi due paradigmi – End e Clash – nel dibattito politico contemporaneo con interesse sempre rinnovato.

    Diversità e analogie di tali tesi verranno qui esaminate, ma risulta immediatamente evidente come i due studiosi si contrappongano per la loro metodologia.

    Mentre Huntington adotta un approccio realistico, pragmatico, nell’esaminare gli eventi, le loro origini ed implicazioni, suggerendo poi esplicitamente modalità di intervento in funzione del tema analizzato, Fukuyama ricorre alla filosofia come strumento di analisi della realtà contemporanea.

    L’approccio di Fukuyama è senz’altro particolare e pare quasi un’anomalia il veder impiegata la filosofia europea da uno studioso americano in ambito politologico, proprio in un periodo in cui l’analisi filosofica è sempre più delegittimata e superata dalle scienze sociali. In un certo senso, Fukuyama ha il merito – fermo restando che si possa concordare o meno con la sua tesi – di aver riesumato la filosofia come strumento di analisi della realtà, quasi liberandola da quella visione strettamente metafisica e trascendente in cui era stata relegata e – benché sia presumibile che la parte più strettamente filosofica del suo saggio rientri tra quelle meno lette – probabilmente questo ha inciso sulla risonanza della sua argomentazione.

    Siamo quindi di fronte ad un politologo che parte dalla filosofia, ma la filosofia può realmente dare un contributo alla riflessione politica?

    La cornice in cui si muovono i due studiosi è quella della globalizzazione, un fenomeno alla cui base vi è l’uniformità promossa da sviluppo tecnologico e dall’economia, il cui ruolo è di prima importanza. Nel mondo globalizzato non vi è spazio per i regionalismi, per gli affari interni di uno stato che non sono più tali, ma divengono affari di tutti, poiché incidono su quella conformità e stabilità necessarie all’espansione dell’economia. Fukuyama rispecchia chiaramente questa visione totalizzante già adottando un metodo filosofico, poiché la filosofia stessa - nella sua visione più tradizionale - implica l’esistenza di un sistema, la nozione di continuità e quella stessa di umanità, mentre il realismo porta Huntington a porre maggiore attenzione verso i particolarismi, le culture. E’ dunque legittimo domandarsi se l’unitarismo dell’uno e il relativismo dell’altro – forzando un po’ le posizioni di entrambi – li abbiano condotti a conclusioni divergenti e quindi se la diversità di approccio teorico da essi adottata perviene anche ad una differenza in ambito pragmatico. Oppure se vi è in ultima istanza una convergenza tra i due autori, che potrebbe essere definita di interessi dato il loro legame con la politica attiva statunitense. Ulteriore interrogativo - posto che la filosofia può essere utilizzata a sostegno sia di visioni globalizzanti che particolaristiche proprio per il suo tendere a mettere tutto in discussione - concerne la dimensione filosofica: questa può contribuire a definire diversamente ed in modo giusto gli elementi dei conflitti, in altri termini, può proporre vie alternative a quelle offerte dalle scienze sociali, oppure resta semplice strumento, funzionale a posizioni che non riesce – o non può riuscire – a rimettere in discussione? Come emergerà dall’esame delle tesi di Fukuyama e dal confronto con quelle di Huntington, la filosofia non acquisisce un ruolo veramente attivo e forse difficilmente potrà pervenirvi.

    Intento del presente studio è utilizzare le tesi della fine della storia e dello scontro della civiltà come strumenti per una visione privilegiata della crisi politica internazionale contemporanea, con particolare attenzione – inoltre – agli interrogativi qui esposti. Prendendo come punto di partenza queste asserzioni e i dibattiti da esse suscitati, si approderà alla controversia relativa alla guerra preventiva ed alla questione arabo-islamica, sulla quale ci si soffermerà cercando di fornire elementi che possano favorirne la comprensione.

    Nell’effettuare questa analisi si è adottato un metodo analitico per l’ampia parte monografica relativa a End e Clash – al fine di dare più elementi possibili per una chiara disamina delle due tesi – mentre per le altre, la cui struttura è maggiormente variegata, si è optato per un approccio quasi sintetico, che consentisse di focalizzarne immediatamente i punti chiave.

    Alla fine di questo percorso non ci si propone di ottenere risposte o ipotizzare soluzioni, ma di suggerire nuovi interrogativi, potenzialmente utili per far luce sulla complessa e sempre più oscura scacchiera della politica internazionale.

    Un ringraziamento particolare al Prof. Mario Tesini, per l’attenzione e la disponibilità con cui mi ha seguita durante la stesura del presente studio.

    Parte Prima: Biografie intellettuali a confronto

    Premessa

    Appartenenti entrambi all’ambiente accademico statunitense – strettamente correlato, come già accennato, con l’establishment istituzionale - Fukuyama e Huntington sono due personaggi difficilmente incasellabili.

    Docenti universitari, titolari di incarichi governativi, autori di saggi la cui risonanza mondiale è incontestabile, seppur lontani anagraficamente e per formazione, hanno ricoperto ambedue il ruolo dell’intellettuale politicamente impegnato.

    Politologi di professione e politici per elezione[1], già dai brevi cenni biografici che si andranno ad esporre emerge come le loro strade si siano intersecate più volte – costruttivamente – per venire successivamente affiancate e contrapposte nell’identificazione compiuta tra essi e le loro tesi più note.

    I.     Francis Fukuyama: percorso ed evoluzione intellettuale.

    Francis Fukuyama è nato il 27 ottobre 1952 a Chicago da una famiglia di accademici, il nonno materno aveva fondato il reparto di economia all’Università di Kyoto e faceva parte della generazione giapponese che si recò in Germania per studiare nel periodo antecedente la prima guerra mondiale, trasferta dalla quale Fukuyama erediterà una prima edizione del Das Kapital di Marx. Sua madre proviene da questa élite occidentalizzata, mentre il padre era sociologo e ministro protestante; Fukuyama non imparò il giapponese e conobbe poche persone giapponesi durante la sua crescita.

    Dopo Pearl Harbour, suo nonno paterno fu costretto a vendere il suo negozio e a trasferirsi da Los Angeles in un accampamento di detenzione in Colorado, mentre il padre di Fukuyama evitò la detenzione vincendo una borsa di studio per l’Università del Nebraska, dalla quale passò poi all’Università di Chicago, dove conobbe la madre di Fukuyama. Francis è il loro unico figlio, poco dopo la sua nascita la famiglia si trasferì a Manhattan dove egli crebbe. Il lavoro di suo padre per la Congregational Church era tra loro motivo di attrito, poiché Fukuyama ritiene questo genere di protestantesimo a mala pena una religione e suo padre passò la maggior parte della sua vita osservando da lontano che aveva un’altra forma diretta di spiritualità, mentre per lui la religione era essenzialmente attivismo e politica sociale; Fukuyama e sua moglie si unirono alcuni anni fa ad una Presbyterian Church, ma egli non si definisce un praticante, anzi quasi un agnostico.

    Nel 1970 si recò alla Cornell University per studiare letteratura classica, imparò il greco attico, il francese ed acquisì conoscenza della lettura di russo e latino. In quel periodo entrò in contatto col professore Allan Bloom, autore di uno dei maggiori best-seller degli anni Ottanta, un assalto conservatore al relativismo morale – The Closing of the American Mind. Fukuyama arrivò a Cornell subito dopo le proteste studentesche che virtualmente ne avevano interrotto l’operato, Bloom apparteneva d un gruppo di professori che si sentirono oltraggiati dalla vicenda – in cui l’università fu accusata di essere un’istituzione razzista e priva libertà accademica, accuse contro le quali la gestione universitaria capitolò – e che lasciarono Cornell. Bloom tenne ancora un ultimo corso a cui partecipò anche Fukuyama, il quale dalle sue lezioni acquisì l’interesse per la riflessione sui fondamenti della natura umana che lo contraddistingue. Tra l’altro Bloom fu il primo a tradurre gli scritti di Kojève in inglese e fu sempre lui ad invitare Fukuyama ad esporre la sua conclusione sulla fine della storia in una lecture a Chicago.

    Questi ottenne il suo B.A. in Classics dalla Cornell University nel 1974 e continuò gli studi post-laurea in letteratura comparata a Yale. Durante questo periodo si recò sei mesi a Parigi per studiare con i grandi maestri del decostruzionismo, Roland Barthes e Jacques Derrida. Risultò profondamente deluso da questa esperienza e maturò l’idea che la difficoltà di una teoria non ne determina la profondità, anzi a volte si tratta solo di nonsense; scriverà un romanzo a Parigi, mai pubblicato, e tornerà poi ad Harvard per completare il corso di letteratura comparata con un tale senso di disillusione che cambierà corso iscrivendosi a scienze politiche, muovendo dalle idee accademiche ed astratte a problemi molto concreti e reali.

    Uno dei suoi primi professori ad Harvard – Nathan Tarcov – lo descrive come un intellettuale insolito as a social scientist and policy person he was interested and knowledgeable about literary and aesthetic matters, which was a rare combination[2], rara combinazione che emergerà chiaramente nei suoi scritti.

    Nel 1978-79 Fukuyama divenne Graduate Fellow del Center for Science and International Affairs e del suo National Security Program alla Harvard University; ottenne poi il suo Ph.D. presso la stessa università in Soviet Foreign Policy and Middle Eastern Politics nel 1981, con la tesi Soviet Threats to Intervene in the Middle East, 1956-1973.

    Nel 1979 entrò a far parte della RAND Corporation[3], l’organizzazione di public policy della quale è tuttora membro, con la qualifica di Associate Social Scientist, mantenuta fino al 1981. I suoi primi scritti per la RAND riguardavano i problemi di sicurezza relativi l’Iraq, l’Afghanistan e l’Iran; scrisse inoltre, nel 1980, un influente rapporto sul Pakistan – The Security of Pakistan: A Trip Report - ed un altro sugli effetti dell’invasione sovietica in Afghanistan.

    In California, inoltre, conobbe sua moglie, Laura Holmgren, con cui vive vicino Washington assieme ai loro tre figli.

    Durante il suo primo periodo di due anni, dal 1981 al 1982, nel Policy Planning Staff del Dipartimento di Stato, sotto la presidenza Reagan, Fukuyama fu membro della delegazione statunitense ai colloqui egiziano-israeliani sull’autonomia palestinese.

    Nel 1987 fu co-autore del testo The Soviet Union and the Third World: The Last Three Decades assieme a Andrzej Korbonski.

    Successivamente all’esperienza in politica, ottenne alla RAND il ruolo di Senior Staff Member del Political Science Department, mantenuto fino al 1989. Ottenne inoltre, nel 1986 e nel 1989, il ruolo di Visiting Lecturer presso il Department of Political Science della UCLA[4]. La vittoria nel 1988 di Bush senior, vide Fukuyama tornare alla vita pubblica col ruolo di Deputy Director nel Policy Planning Staff del U.S. Department of State, posizione che ricoprì nel 1989-1990.

    Fu in quel periodo che egli si fece una sua reputazione, i suoi consigli furono fondamentali per il riassetto di un nuovo ordine, dalle proposte fin dal maggio 1989 per la riunificazione della Germania ai progetti per la dissoluzione del patto di Varsavia. Quell’anno fu trionfale per la politica estera americana, ma anche per Fukuyama, che riflesse il sentore del trionfo dell’Occidente nel suo noto articolo The End of History?, edito nel 1989 su The National Interest, seguito da un lungo dibattito.

    Fukuyama lasciò l’incarico governativo quando ottenne una grossa somma per scrivere il libro che gli diede notorietà mondiale, decisione che non ha rimpianto, preferendo la libertà di insegnare e scrivere, di dibattere pubblicamente su i temi per lui di maggiore interesse, al prendere decisioni politiche, al condurre un genere di vita che lo teneva sempre più lontano anche dalla sua famiglia. Dal 1990 al 1994 occupò quindi il ruolo di Consultant alla RAND Corporation e nel 1992 la Free Press pubblicò The End of the History and the Last Man, tradotto in più di venti lingue, vincitore di diversi premi – tra cui il Premio Capri International Award per l’edizione italiana nel luglio 1992 e il Los Angeles Times’ Book Critics Award nella categoria Current Interest vinto nel novembre dello stesso anno – e best-seller in vari Paesi – oltre gli Stati Uniti, in Francia, Giappone, Cile.

    Dal 1994 al 1996 ricoprì il ruolo di Fellow nel Foreign Policy Institute della John Hopkins School for Advanced International Studies, presso la quale ottenne anche il ruolo di Direttore del Telecommunications Project. Nel 1995 venne pubblicato il suo secondo libro Trust: The Social Virtues and the Creation of Prosperity, anch’esso oggetto di interesse oltre i confini statunitensi, tradotto in varie lingue e focalizzato maggiormente sul ruolo del capitale sociale nelle società democratiche, soprattutto in quella nord americana. Quello stesso anno gli fu inoltre conferito un dottorato onorario dal Connecticut College.

    Nel 1995-1996 rivestì inoltre il ruolo di Senior Social Scientist alla RAND. Sempre per la RAND pubblicò nel 1997 il saggio The Virtual Corporation and Army Organization.

    Dal 1996 al 2000 è stato Omer L. and Nancy Hirst Professor di Public Policy alla School of Public Policy della Gorge Mason University; nel 1999 diede alle stampe The Great Disruption – il cui tema, che prosegue quanto esaminato in Trust relativamente al capitale sociale e l’ordine sociale, era stato anticipato in un breve saggio edito nel 1997, The End of Order.

    Fino al 2010, Fukuyama è stato Dean di Facoltà e Bernard L. Schwartz Professor di Economia politica internazionale alla Paul H. Nitze School of Advanced International Studies della John Hopkins University. Egli è stato – ed in alcuni casi è tuttora - inoltre membro del President’s Council on Bioethics[5], nonché dei comitati consultivi per il National Endowment for Democracy[6], The National Interest, Journal of Democracy e The New America Foundation[7]. E’ altresì presidente del comitato editoriale di The American Interest, rivista che ha contribuito a fondare nel 2005.

    Attualmente, egli è Olivier Nomellini Senior Fellow al Freeman Spogli Institute for International Studies (FSI), situato presso il FSI’s Center on Democracy, Development, and the Rule of Law,

    L’attività di Fukuyama come pubblicista è estremamente intensa: tra i suoi articoli più discussi, quello edito da Commentary nel settembre 2002 e scritto in collaborazione con Nadav Samin – neo-laureato alla SAIS – Can any good come from Radical Islam?. Da evidenziare inoltre l’intervento a Melbourne nell’agosto 2002 - Has History Restarted Since September 11? – trasformato in articolo dall’ International Herald Tribune con titolo The West May Be Cracking e tradotto in diverse lingue, nonché fonte di un dibattito ancora in corso. Origine di questa riflessione è stata la preoccupazione circa il divario che avrebbe potuto crearsi tra Europa e Stati Uniti in relazione alle loro diverse risposte – e percezioni – del pericolo costituito dal terrorismo internazionale, oggi identificato soprattutto col terrorismo islamico. La necessità di combatterlo con tutte le armi a disposizione non è stata mai minimamente messa in dubbio da Fukuyama – il quale afferma tra l’altro come one thing that has happened since September 11 is that people have been reminded that serious matters happen in the world[8] – che risulta tra i firmatari – assieme, tra gli altri, ad Huntington – di una sorta di lettera, edita da Propositions, What We’re Fighting For, volta a legittimare le azioni anche di natura militare preventiva da parte degli Stati Uniti – e dei loro alleati - contro il terrorismo internazionale.

    Tra i suoi saggi, si segnalano in particolare Our Posthuman Future: Consequences of the Biotechnology Revolution, pubblicato negli Stati Uniti nell’aprile 2002, e The Origins of Political Order edito nel 2011.

    II.   Samuel P. Huntington: un conservatore engagé.

    Samuel Phillips Huntington è nato il 18 aprile 1927 a New York City da una famiglia di classe media, unico figlio di Richard Thomas Huntington - editore di pubblicazioni commerciali per hotel - e di Dorothy Sanborn Phillips - scrittrice di storie brevi, nonché nipote di John Sanborn Phillips, co-direttore di un magazine.

    Huntington fu una sorta di prodigio, andò all’Università di Yale dalla Peter Stuyvesant High School a soli sedici anni e si laureò con nota di merito solo due anni e mezzo dopo, nel 1946. Servì nella U.S. Army, dopodiché ottenne un master in scienza politica all’Università di Chicago nel 1948 e un Ph.D. ad Harvard conseguito nel 1951. Tra l’altro, i mesi in cui si dedicò alla stesura della sua tesi di dottorato furono così intensi che egli imputa alla fatica di quel periodo il peggioramento del diabete di cui già soffriva.

    Intorno al Department of Government di Harvard ruotavano due importanti figure intellettuali, Carl Friedrich – liberale, contribuì alla stesura della costituzione dell’ex Repubblica Federale Tedesca – e William Yandell Elliot, un filosofo conservatore con molta esperienza a Washington, convinto della necessità di una vigorosa presa di posizione contro l’Unione Sovietica e di un relativismo morale; quest’ultimo ebbe una notevole influenza su Huntington come anche sul suo noto contemporaneo, Henry Kissinger.

    Affermazioni decise e ampiezza di vedute dominano i testi di Huntington. Questa categoricità contrasta notevolmente con la sua presenza fisica e il suo contegno. Ecco come lo dipinge Robert D. Kaplan, autore di un interessante articolo biografico su di lui: He looks like a character from a John Cheever story, someone you might forget that you had ever met. He blinks. He plays nervously with keys. He is balding, and stares intently at his palms as he talks. The fragile exterior conceals a flinty core.[9] Agli occhi di un suo ex-studente, egli appare come una persona riservata, ma tenace ed acuta nei dibattiti, a quintessential Victorian man of honor – very quiet and container, yet extraordinarily tough when the occasion demands[10].

    Fin dai suoi primi anni di insegnamento il pensiero di Huntington era focalizzato sulle grandi problematiche che attraversano il mondo moderno, interessato in particolare alla trattazione con rigore intellettuale delle questioni appartenenti alla vita reale. Il suo primo libro – The Soldier and the State: The Theory and Politics of Civil-Military Relations edito nel 1957 – fu ispirato a ciò che successe in America in quegli anni e si tratta non di un’apologia del militarismo, ma di una penetrante analisi della relazione tra militari e società.

    Insegnò ad Harvard dal 1950 al 1958; fu poi Associate Director all’Institute of War and Peace Studies alla Columbia University dal 1959 al 1962, anno in cui tornò ad Harvard come Full Professor.

    La tranquillità della vita di Huntington come docente, con una famiglia vicino a Boston, venne interrotta dall’assegnazione di un incarico per l’Amministrazione Johnson nel 1967 come consulente del Dipartimento di Stato. In questo periodo stilò un lungo rapporto sulla guerra del Vietnam, successivamente abbreviato ed usato come base per un articolo, nel luglio del 1968, che gli valse aspre critiche. In quel testo, egli condivideva l’obiettivo di sconfiggere i vietnamiti del nord, ma sostenne che i metodi della Amministrazione per realizzare tale obiettivo erano totalmente errati. Infatti egli riteneva insensato applicare la regola democratica della maggioranza essendo questa valida in una democrazia stabile, ma non in uno stato segnato da violenza e caos. Huntington crede tuttora che l’Occidente debba promulgare i propri valori all’estero nei modi che gli permettono di approfittare dei suoi avversari, ma non deve forzare questi ultimi a ricostruire le loro società dall’interno. Così, verso la fine degli anni Settanta, collaborò con il Presidente Carter e il suo consigliere alla sicurezza Z. Brzezinski nell’elaborazione di una politica di diritti umani progettata per mettere in difficoltà l’Unione Sovietica. Huntington restava tuttavia scettico circa l’utilità dell’installazione di truppe per sviluppare la democrazia occidentale in quei paesi totalmente privi di una tradizione costituzionale e liberale. Tra l’altro, nel 1964, aveva già scritto con Brzezinski un testo sulle relazioni sovietico-statunitensi, Political Power: USA/URSS.

    L’analisi di Huntington sul Vietnam derivava dalla sua visione relativa all’evoluzione politica mondiale. Negli anni Cinquanta e Sessanta, la questione principale nella scienza sociale riguardava la modernizzazione politica, con i suoi sviluppi ed effetti; la risposta accademica convenzionale sosteneva che nuovi paesi in Africa ed in altri luoghi avrebbero sviluppato forme di governo democratiche e sistemi legislativi simili ai nostri. Huntington non era affatto di questo avviso, la sua analisi circa la situazione del Vietnam – in cui il genere di autorità funzionante non era affatto simile ad una democrazia – confluì in un ampio tema elaborato nel libro Political Order in Changing Societies (1968), ove esamina le modalità di formazione degli Stati, descrivendo come lo sviluppo possa condurre verso nuove fonti di instabilità, generando poi istituzioni sempre più complesse, quadro ancor oggi attuale per quei paesi in via di sviluppo che cercano di darsi governi stabili.

    Gli anni Sessanta misero Huntington di fronte a momenti difficili, fu inseguito attraverso Harvard Yard da dimostranti che gli rimproveravano il suo legame con l’Amministrazione Johnson; il Center for International Affairs, dove lavorava, fu occupato e oggetto di atti violenti, addirittura uno dei figli di Huntington un mattino trovò le parole War Criminal Lives Here dipinte sulla porta di casa.

    Numerosi e variegati i ruoli ricoperti da Huntington sia nella vita pubblica che in quella accademica: ad Harvard fu Chairman del Dipartimento di Government dal 1967 al 1969 e dal 1970 al 1971; divenne Associate Director del Center for International Affairs nel 1973 e ne fu direttore dal 1978 al 1989. Divenne inoltre Founding Director del John M. Olin Institute for Strategic Studies nel 1989 – ruolo che mantenne fino al 2000 - e Chairman dell’Harvard Academy nel 1996. Nel 1970 fondò la rivista quadrimestrale Foreign Policy e restò suo co-direttore fino al 1977.

    Tra le diverse cariche che ha ricoperto spiccano le seguenti: è stato Research Associate del Brookings Institution; Faculty Fellow del Social Science Research Council; John Simon Guggenheim Fellow; Fellow del Center for Advanced Study del Behavioral Sciences; Visiting Fellow presso All Souls College, Oxford; Fellow del Woodrow Wilson International Center for Scholars in Washington, D.C.; Senior Research Associate all’International Institute for Strategic Studies di Londra. E’ stato inoltre membro del Council of the American Political Science Association (1969-1971), il vice presidente (1984-1985), e il presidente (1986-1987) di tale associazione; membro della Presidential Task Force on International Development (1969-1970), nonché della Commission on United States-Latin American Relations (1974-1976); chairman of the Defense and Arms Control Study Group of the Democratic Advisory Council (1974-1976); nel 1977-1978 svolse il ruolo di Coordinator of Security Planning per il National Security Council; membro della Commission on Integrated Long-Term Strategy (1986-1988) e della Commission on Protecting and Reducing Government Secrecy (1995-1997).

    In quanto Carter’s National Security Advisor, Huntington scrisse anche la direttiva presidenziale 18, un compendio delle relazioni tra Stati Uniti e Unione Sovietica che doveva sollecitare il Consiglio di Sicurezza ad assumere un atteggiamento contrario agli accomodamenti con Mosca, questo in un periodo in cui i sovietici avevano largo seguito nel Terzo Mondo che si traducevano tra l’altro in una potenziale maggioranza nelle Nazioni Unite. Con un accurato confronto su tutti i campi e le tematiche tra sovietici e statunitensi, Huntington concluse che il vantaggio sovietico era solo temporaneo e raccomandò la creazione di una forza di reazione immediata nel Golfo Persico oltre che un generale rafforzamento militare. Suggerimenti che vennero poi concretizzati negli ultimi due anni della presidenza Carter e negli otto di presidenza Reagan.

    La figura di Huntington è complessa e controversa. Gianfranco Pasquino – presentando al pubblico italiano uno dei più recenti e più noti libri di Huntington - lo ha definito come un Machiavelli democratico, ma conservatore[11]. Consulente di diversi governi latino-americani e asiatici, nonché dotato di un lucido realismo proprio ai conservatori, Huntington, secondo Pasquino, era capace di guardare i fatti senza veli ideologici, per quanto non senza preferenze politiche e operative[12]. Huntington è reputato da Kaplan essenzialmente uno studioso, un insegnante – if he couldn’t teach, he probably couldn’t write[13] – tra i cui ex studenti figurano anche Fukuyama e Fareed Zakaria; in molti sensi egli lo giudica rappresentante di una specie ormai rara, qualcuno che unisce gli ideali liberali con una comprensione profondamente conservatrice della storia e della politica straniera.

    Huntington è – come già si è potuto rilevare dalle cariche da lui ricoperte - un Democratico. Accettando la definizione attribuitagli da Kaplan di old-fashioned Democrat, the kind that no longer exists[14], Huntington si autoproclama figlio di Reinhold Neibuhr, il principale teologo protestante negli Stati Uniti nel XX sec., da cui egli – un Episcopale – fu attratto per il suo congiungere moralità e pratico realismo. Benché ardente partecipante alla guerra fredda, Niebuhr non cedette mai al trionfalismo morale nemmeno quando questa si chiuse col successo statunitense, credendo che la storia sia più profondamente caratterizzata dall’ironia che dal progresso. Anche se gli Stati Uniti dovessero vincere la guerra fredda, Niebuhr scrisse nel 1952, questo risultato potrebbe indurre soltanto la nazione a sovraestendersi, dissipando il suo potere in un eccesso di rettitudine. Questa sorta di sensibilità tragica di Niebuhr costituisce un filo conduttore nei maggiori lavori di Huntington. E’ – sempre secondo Kaplan - la chiave della definizione di Huntington del conservatorismo, ch’egli definì, nel 1957, come la rational defense of being against mind, of order against chaos, scopo del conservatorismo è conservare cosa vi è già, piuttosto che combattere per qualcosa che non c’è o proporre radicali cambiamenti al proprio interno[15].

    Autore di numerosi libri ed articoli, Huntington ha studiato e scritto soprattutto in tre aree principali. In primo luogo politica militare, strategia e relazioni civili-militari: tra i testi appartenenti a questa area il già citato The Soldier and the State: The Theory and Politics of Civil-Military Relations (1957), The common defense: strategic programs in National Politics (1961), Changing patterns of military politics (1962); nell’ambito della seconda area di interesse, la politica americana e comparativa, si veda, ad esempio, The Crisis of Democracy: report on the governability of democracies to the Trilateral Commission (1975 – co-autore assieme a Michel Crozier e Joji Watanuki), American Politics: The Promise of Disharmony (1981); infine lo sviluppo politico e la politica di paesi meno sviluppati: tra i libri riconducibili a tale tematica Political Order in Changing Societies (1968), No Easy Choice: Political Participation in Developing Countries (1976). Tra i suoi saggi più recenti, Global Dilemmas (1985, co-curatore assieme a Joseph Nye), The Third Wave: democratization in the late twentieth century (1991), The Clash of Civilizations and the Remaking of World order (1996, come è noto il suo testo più conosciuto, tradotto in più di venti lingue); è inoltre co-editore di Culture Matters. How values shape Human Progress (2000) e del recentissimo Many Globalizations. Cultural Diversity in the Contemporary World (2002), frutto di un progetto di dieci nazioni, di cui egli era co-direttore, coordinato dal Boston University Institute for the Study of Economic Culture.

    Tra gli ultimo incarichi di Huntington quello di Albert J. Weatherhead III University Professor alla Harvard University e Presidente [Chairman] dell’Harvard Academy for International and Area Studies al Weatherhead Center for International Affaire. Collabora ancora con il John M. Olin Institute for Strategic Studies tenendo corsi e seminari, che, nell’ultimo periodo della sua attività, sono stati relativi all’identità nazionale americana e alle implicazioni dei suoi cambiamenti per il ruolo americano nel mondo, tema cui egli dedicò il suo ultimo saggio Who are We? The Challenges to America’s National Identity edito nel maggio 2004.

    Huntington è scomparso il 24 dicembre 2008 a Martha’s Vineyard, nel Massachusetts, all’età di 81 anni.

    Parte Seconda: End and Clash

    Premessa

    Come già annunciato, tema principale del presente lavoro è la comparazione tra le tesi della fine della storia e dello scontro delle civiltà. All’esame analitico di questi due paradigmi, la cui permanenza nel pensiero politico contemporaneo è indicativa della loro valenza intellettuale come della loro acutezza, è dedicata quest’ampia parte. Nell’effettuare tale analisi si è optato per un metodo comparativo-oppositivo, volendo far emergere già dal punto di vista strutturale comunanze e divergenze tra le due tesi, le prime legate immediatamente alla genesi con cui esse si sono affacciate ed affermate – nonché alle modalità con cui sono state confutate – nell’orizzonte politico, le seconde invece sostanziali, relative sia al fulcro dell’argomentazione dei due autori sia all’impianto teorico da essi adottato.

    Articolando questa parte in tre capitoli principali, si è inteso affrontare gli elementi di base utilizzati da Fukuyama e da Huntington – i loro presupposti teorici – per poi passare all’analisi – punto per punto, metodo scelto poiché sono state proprio le letture superficiali e frammentate ad incrementare le critiche tendenzialmente liquidatorie dei due paradigmi – di End e Clash. Ampio spazio sarà poi dato al dibattito che ha seguito – e segue tuttora – l’emergere di queste due tesi. Come si vedrà – e come già accennato – molti degli interventi si limiteranno a bollarle come assurde, errate, esagerate senza apportare argomentazioni valide. Altre critiche – per converso – saranno acute e metteranno in luce alcuni dei vizi che hanno inficiato entrambe le tesi. Si noterà inoltre come il Clash di Huntington riceverà un’attenzione globale, le critiche mossigli proverranno da diverse parti del mondo, mentre per Fukuyama si tratterà per lo più di contributi occidentali. E’ forse superfluo evidenziare il motivo di tale divergenza: mentre l’uno ammette come attori principali emergenti sulla scena del futuro storico civiltà oggi ancor meno che comprimari della potenza occidentale, l’altro pone le stesse ai margini di un passato che le ha viste perdenti ed in un futuro la cui stessa esistenza in senso evolutivo è messa in dubbio poiché quasi segnato da un’aura fatalista: accettare la vittoria occidentale ed uniformarsi ai principi democratico-liberali. Da un lato vi è spazio per il dibattito, seppur limitato, da parte degli altri, dall’altro questa eventualità pare invece sorpassata.

    I.     Tra presupposti filosofici e visione politologico culturale: filosofia della storia o storia della civiltà?

    Al fine di comprendere le tesi che si andranno ad affrontare si ritiene dunque necessario effettuare una breve analisi delle loro fondamenta teoriche.

    Si vedrà come Fukuyama e Huntington hanno un approccio differente alle tematiche esaminate – ciò dovuto, tra l’altro, alla loro diversa formazione – conseguentemente anche le parti in cui ne verrà effettuata l’analisi avranno un linguaggio ed uno stile espositivo differente.

    Fukuyama è chiaramente – e per sua esplicita ammissione – prossimo alla dimensione filosofica in senso stretto: la sua tesi nasce infatti basandosi su presupposti filosofici e, benché analizzabile anche da altre prospettive, privilegiando ad esempio la dimensione politologica o economica della sua argomentazione, si ritiene che l’approccio più efficace sia proprio quello che si sofferma maggiormente su quegli autori e concetti filosofici che ne giustificano la successiva costruzione teorica – le stesse nozioni di storia e ultimo uomo presenti nel titolo del saggio di Fukuyama non possono essere comprese appieno se non ricorrendo esplicitamente alla filosofia.

    Huntington – politologo puro – appartiene invece ad una tradizione empirista, realista - ben lontana dalle fonti filosofiche idealiste dello studioso nippoamericano - a tale tradizione egli non si riferisce esplicitamente, ma se ne evince l’influenza dalla sua metodologia, nonché dal suo linguaggio. Mentre queste basi teoriche si riscontreranno durante l’esame del suo saggio, si è scelto di esaminare preliminarmente il concetto-base da questi utilizzata e

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