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Il sentimento del suono: L’espressività musicale nell’estetica analitica
Il sentimento del suono: L’espressività musicale nell’estetica analitica
Il sentimento del suono: L’espressività musicale nell’estetica analitica
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Il sentimento del suono: L’espressività musicale nell’estetica analitica

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Che la musica sia capace di esprimere emozioni, e di suscitarne, è cosa da sempre riconosciuta come ovvia. Ma come ne è capace? Perché due cose così eterogenee e distanti tra loro come un assolo di violino e un sentimento di nostalgia possono essere in relazione?
Dal mondo antico alla filosofia contemporanea la natura speciale di questo legame continua ad essere presente alla riflessione con una forza sorprendente, perché questa relazione è difficile da descrivere, al punto che l'evidenza dell'intuizione originaria è direttamente proporzionale alla fatica del pensiero che cerca di articolarla.
Non sorprende dunque se proprio negli ultimi anni i filosofi analitici di area angloamericana abbiano riportato al centro del dibattito estetico proprio la questione del carattere espressivo ed emotivo della musica, impegnandosi tenacemente ad affrontare questioni del tipo: su quali basi è possibile fondare l'ipotetico rapporto tra la musica e le emozioni? Come spiegare la nostra risposta emotiva alla musica? Che tipo di emozioni sono quelle generate dall'ascolto musicale? A chi appartengono? Qual è il loro oggetto intenzionale e il loro contenuto? Come spiegare poi le nostre attribuzioni di qualità emotive alla musica?
Seguendo un dibattito come questo, la cui vivacità si misura dalla eterogeneità degli interventi e dallo scambio ininterrotto tra i suoi esponenti, questo libro individua i percorsi più rappresentativi entro cui vengono a dirimersi le questioni fondamentali dell'espressività della musica e del tema delle descrizioni emotive, senza però rinunciare al tessuto più complesso e articolato che caratterizza quasi sempre la letteratura sul tema. Infatti, è proprio installandosi nelle pieghe di questo tessuto che infine ci è possibile trarre insegnamento dai tratti più fecondi ed interessanti di questa parte della riflessione filosofica sull'arte.
LanguageItaliano
Release dateFeb 12, 2013
ISBN9788897527176
Il sentimento del suono: L’espressività musicale nell’estetica analitica

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    Il sentimento del suono - Domenica Lentini

    Lentini

    Introduzione

    La musica e le emozioni. Due mondi tanto lontani, se li si osserva da un punto di vista ontologico, eppure così inscindibilmente vincolati nell’esperienza di chi vive la musica. Sembrerebbe infatti questo un legame avvertito sia da chi più comunemente si affida alla musica per diletto, sia da quanti, filosofi, musicisti, specialisti in genere, tentano più razionalmente di darne una spiegazione. L’idea cioè che esista un legame stretto, un rapporto privilegiato, una sorta di intreccio ineludibile delle emozioni con la musica, si darebbe con la forza di un’intuizione.

    La luce dell’intuizione si porta sempre dietro, però, il cono d’ombra, il tratto oscuro che deriva proprio dalle difficoltà di sostenere e giustificare razionalmente la natura dell’ipotetica relazione. In effetti, proprio la possibilità di individuare un fondamento epistemologicamente valido ha rappresentato sin dalla notte dei tempi, sin dagli esordi della filosofia in occidente, il nodo gordiano da sciogliere, la trama più complessa da dipanare.

    Nella storia del pensiero musicale, fino ad arrivare ai nostri giorni, in effetti quella del rapporto musica-emozioni è una questione che affascina e si rinnova nel tempo, trovando singolare slancio nel dibattito dell’estetica analitica, in particolare a partire dalla metà del secolo scorso.

    Proprio nel contesto angloamericano, infatti, la tradizionale questione del rapporto tra musica ed emozioni riceve sempre maggiore attenzione, favorendo il costituirsi di una comunità la cui ricerca è vitale, feconda e oramai ci interpella. Numerose sono dunque le tesi in campo e altrettanto numerose le pubblicazioni centrate esclusivamente sulla questione. Una trattazione ricca del tema dell’espressività e del rapporto musica-vita emotiva la troviamo nelle due principali riviste di area anglo-americana, il British Journal of Aesthetics e il Journal of Aesthetics and Art Criticism. Possiamo senz’altro dire che la musica è la forma d’arte che ha più stimolato il dibattito analitico se teniamo conto della quantità ed estrema varietà dei contributi ad essa dedicati.

    Pensando alla fecondità di tale ricerca ma anche alla modesta attenzione che essa riceve nella nostra tradizione, il presente lavoro nasce con l’intenzione di colmare una lacuna, dando la giusta rilevanza alle proposte teoriche che negli ultimi anni sono venute sviluppandosi. Diciamo subito che l’idea, nello specifico, è quella di ricostruire, a partire da un orientamento tematico, le conversazioni, i dialoghi che si stanno svolgendo, dando particolare rilievo a quei filosofi le cui singole teoriche sono paradigmatiche di una certa tendenza. D’altronde entro la straordinaria moltitudine di proposte che animano la discussione, ci è parso opportuno ricercare un criterio orientativo, una sorta di guida rossa che consentisse di intraprendere il viaggio senza smarrirci tra i percorsi laterali che, pure, si aprono ad ogni crocicchio.

    Si è preferito dunque adottare un criterio tematico. In questo senso, per ciascun punto o problema che ci siamo impegnati a trattare, il nostro obiettivo non è stato – compito che sarebbe stato peraltro infruttuoso se non impossibile – quello di presentare l’insieme delle teorie o dei punti di vista che lo hanno affrontato, ma al contrario, di fare appello per la trattazione di ciascun tema a una sola voce, spesso più significativa rispetto al tipo di problematica in questione o importante in relazione alla vicendevole corrispondenza creatasi tra quanti dialogano sulla medesima tematica. Ecco perché abbiamo infine preferito affrancarci da ogni pretesa, diciamo così, di completezza, per descrivere quelle che ci sembrano una serie di questioni importanti (musica-forma, musica-metafora, musica-isomorfismo) ed esemplificarle attraverso il riferimento ad alcuni dei numerosi autori che ne trattano (Kivy, Davies, Levinson, Matravers, Zangwill, Scruton, Budd e Davies).

    Seguendo questi criteri metodologici, abbiamo così iniziato il nostro percorso di ricerca, cercando di penetrare quanto più possibile nel cuore di questa discussione, per capire quali ancora sono i problemi, gli interrogativi e dunque anche le soluzioni più significative a quella che, dicevamo, si è sempre dimostrata essere una problematica scivolosa. Un punto va chiarito: come nel passato, non è in discussione l’idea che tra la musica e le emozioni vi sia una qualche speciale relazione, dato pressoché inamovibile, ma ancora una volta tutte le complessità sono legate alla difficoltà di stabilire in che termini è possibile giustificare questa relazione, in che senso essa possa sussistere, quali le motivazioni profonde.

    L’attenzione, precisiamo, nell’attuale dibattito, nella maggior parte dei casi, è diretta in particolar modo alla musica assoluta, cioè alla musica strumentale senza testo, titolo o programma. È rispetto ad essa infatti, che è certamente più problematico giustificare l’idea che vi sia una relazione con le emozioni, visto che, diversamente dalle arti a vario titolo rappresentative (si pensi alla pittura figurativa, al teatro, letteratura, ecc.) la musica pura non è un’arte contenutistica che intrattiene legami evidenti con il nostro mondo rappresentativo.

    Dal nostro approfondimento è emerso che due sono le concezioni dominanti nel dibattito analitico. In un primo momento ha riscosso consenso soprattutto l’idea di chi, in antitesi con le affermazioni scettiche di Hanslick, ritiene che è certamente sensato parlare della musica in termini espressivi, perché essa possiede le emozioni e le possiede come proprietà percettive della sua struttura. In aperta polemica con tale posizione, si è successivamente affermata invece l’idea di quanti ritengono che le proprietà emotive stiano alla musica piuttosto che come proprietà percettive, come proprietà disposizionali. Secondo tale idea, la musica è cioè espressiva delle stesse emozioni che essa normalmente desta o suscita nell’ascoltatore. Peter Kivy, che è uno dei più illustri e attivi rappresentati del dibattito, ci informa non a caso di come l’antica querelle concernente il problema del rapporto della musica con le emozioni il più delle volte, nella recente discussione, sfoci in una accesa diatriba tra queste due posizioni, rispettivamente ribattezzate come cognitivismo ed emotivismo. E come Kivy, anche Derek Matravers, si riferisce alla stessa diatriba caratterizzandola nei termini dell’opposizione tra sostenitori del requisito dell’esternalità (externality requirement) e teorici della teoria eccitazionistica (Arousal Theory). Gli stessi Kivy e Matravers sono tra i principali protagonisti di questa querelle, essendo il primo il più estremo sostenitore della tesi cognitivista e il secondo il più estremo sostenitore di una teoria eccitazionistica. Proprio Kivy e Matravers sono infatti i due veri contendenti, perché hanno radicalizzato rispettivamente le loro tesi e di conseguenza accentuato il loro dissidio teorico. Più sfumate sono invece le tesi di altri autori, visto che tra quanti si fanno sostenitori dell’idea che la musica è espressiva perché le emozioni sono una sua proprietà, si riscontra, il più delle volte, anche una parziale convergenza con una teoria eccitazionistica o Arousal Theory. Ci è parso questo nello specifico il caso di Malcolm Budd ma anche di Jerrold Levinson e Stephen Davies, i quali infatti pur muovendo da quel presupposto fondamentale, diciamo pure, cognitivista, non negano comunque il potere che la musica ha di suscitare emozioni in chi ascolta. Naturalmente, essendo il punto di partenza quello di una tesi anti-emotivista, non è ridondante precisare che questo riconoscimento non deve portarci a pensare – come invece spesso accade con gli emotivisti – che sia anche questa la ragione per cui si può spiegare la portata o capacità espressiva della musica.

    Sulla scorta quindi di queste premesse generali è doveroso sottolineare che per chi ha voluto dimostrare la tesi che la musica è espressiva in quanto incarna le emozioni nella sua struttura, la questione dell’espressività si dimostra certamente più complessa e articolata, dal momento che diverse sono le questioni da dover fronteggiare. Primo fra tutti vi è il problema di come, ovvero secondo quale processo, la musica sia capace di incarnare le emozioni ordinarie. In secondo luogo, occorre spiegare quale ruolo giocano queste proprietà espressive nella struttura musicale alla quale appartengono. Infine, l’ultima questione: dato che le emozioni ordinarie risiedono, in quanto proprietà espressive, nella musica, e non nell’ascoltatore, cosa significa dire che una persona è emotivamente colpita dalla musica.

    Come può dunque la musica ‘incarnare’ le emozioni ordinarie? Per ragioni di ordine e di chiarezza abbiamo individuato due tipi di risposta a questa domanda: una risposta dal basso e una risposta dall’alto.

    La risposta dal basso è quella secondo cui il problema espressivo è da ricondurre sul piano di una risposta immediata, a partire soprattutto dalla riabilitazione di una tesi isomorfica. L’idea è che proprio sulla soglia dei nostri decorsi percettivi si rivelino somiglianze, similarità, tra le dinamiche della musica e quelle del comportamento espressivo umano. Il senso dei decorsi percettivi è cioè una proiezione che si radica in una struttura. Le nostre percezioni, come del resto la fenomenologia ha ben mostrato, non sono delle esperienze puntuali ed isolate, ma disegnano una trama. Questa trama, fatta di ritenzioni e protensioni, rappresenta quello che qui chiamiamo ‘struttura’. Ed è proprio grazie a questa nozione che possiamo arrivare a concepire le proprietà emotive come analogicamente ancorate alla struttura musicale.

    L’orizzonte dell’affettività da una parte e l’insieme delle strutture percettive dall’altra non sono due dimensioni che stanno in un qualche rapporto tra loro, ma due aspetti di un’unica realtà, strutturalmente isomorfici. Secondo questa lettura, l’isomorfismo si presenta con il suo massimo di necessità, ogni qualvolta si voglia fuggire da ipotesi riduzionistiche che, ispirate all’autorità della logica scientifica tendono a riaffermare il principio secondo cui la musica non può provare emozioni né può essere triste, a meno che tali attribuzioni non si dicano poetiche o metaforiche, per la circostanza che l’esperienza (la possibilità) di sentire emozioni dentro di sé è propria solo degli esseri senzienti.

    Una risposta dal basso è quella che abbiamo facilmente riconosciuto nella cosiddetta teoria del profilo (Contour Theory) di Peter Kivy, ma anche nella tesi espressiva (Emotion-characteristics-in-appearances Theory) di Stephen Davies. Nel caso specifico, Kivy sostiene che certamente deve esservi una somiglianza tra la struttura, il profilo, il contorno della musica e le manifestazioni acustiche e visive dell’espressione emotiva umana. Kivy precisa che, nonostante l’apparenza, non si tratta di una teoria rappresentazionale, perché le emozioni non sono percepite come rappresentate, vale a dire in maniera mediata, ma in modo immediato: l’analogia tra la musica e gli aspetti acustici o visivi delle emozioni umane è in altri termini subliminale, dobbiamo cioè trovarci in uno stato di inconsapevolezza rispetto all’esistenza dell’analogia stessa, non dobbiamo in alcun modo presupporla. A seguito delle obiezioni ricevute, Kivy recentemente ha anche seriamente messo in discussione la validità della teoria del profilo, seppure arrivando alla conclusione che attualmente siffatta teoria non ha, diciamo così, una degna sostituta, anzi – egli precisa – resta ancora la più attraente. Quale soluzione adottare, in ultima analisi, Kivy non ce lo dice. Si ferma solo a constatare che attualmente c’è un accordo generale sul fatto che la musica esprima le qualità emotive come qualità percettive, e che quindi la cosa migliore da fare, stabilite così le cose, è di attendere fiduciosi che nel futuro si trovi una spiegazione più convincente. Muovendosi da questa acquisita consapevolezza egli infatti ha preferito spostare l’attenzione alle altre due questioni dell’espressività, al ruolo cioè che tali qualità giocano nella struttura e nell’esperienza musicale.

    Come per Kivy, anche per Davies l’espressività della musica dipende prevalentemente da una somiglianza che si può cogliere percettivamente nell’immediatezza. Una somiglianza che percepiamo tra il carattere dinamico della musica e il movimento, l’andatura, il comportamento o l’atteggiamento dell’uomo. Se la musica è espressiva, non lo è perché essa possiede le emozioni, nel senso in cui un essere senziente le possiede: alla musica mancano i pensieri, le attitudini, e i desideri che sono caratteristici dell’esperienza emotiva e che contribuiscono a far sì che esse siano le emozioni che sono. Ciò che la musica invece presenta in quanto arte espressiva sono le caratteristiche esteriori delle emozioni, vale a dire: la nostra esperienza dei brani musicali e, in particolare, del movimento in musica è simile alla nostra esperienza di quelle forme di comportamento che, negli esseri umani, sfociano nelle caratteristiche esteriori delle emozioni. L’analogia risiede nella maniera in cui queste cose sono esperite, piuttosto che essere fondata su una qualche inferenza che cerchi di stabilire una relazione simbolica tra alcune componenti specifiche della musica e alcuni particolari del comportamento umano. Un’analogia che possiamo per l’appunto cogliere subito, in quanto sostiene Davies, l’emozione è immediatamente, non mediatamente, presentata nella musica.

    Inoltre, una risposta dal basso è anche quella che abbiamo potuto rintracciare nella spiegazione di Malcolm Budd e Jerrold Levinson; sebbene sia necessario precisare che nell’uno e nell’altro caso la spiegazione del problema espressivo della musica non passa da un’unica e precisa soluzione, ma da una serie di categorie concettuali ugualmente adottabili (nel caso di Budd), e da una serie di requisiti (nel caso di Levinson) che un’adeguata spiegazione dell’espressività deve soddisfare. Tra queste categorie concettuali/requisiti, vi è appunto quello dell’analogia che possiamo cogliere tra la musica e il comportamento espressivo umano. Muovendosi da un’ottica possibilista, entrambi giungono poi a declinare il problema espressivo della musica a partire dal coinvolgimento immaginativo che vi è nella nostra esperienza di essa come espressiva. Significativa è in tal senso l’adesione da parte di Budd ad una tesi finzionale, e altrettanto significativa la teoria della persona di Levinson.

    In questo nostro tentativo di individuare delle linee esemplificative di lettura, abbiamo anche parlato di una risposta dall’alto che è quella di chi riporta il problema espressivo della musica ad un tipo di risposta che non è immediata come quella che si rivela in una dinamica percettiva, ma mediata dalla incidenza della nostra componente immaginativa nell’esperienza della musica. Emblematica in tal senso la prospettiva teorica di Roger Scruton, filosofo di chiara ascendenza kantiana le cui tesi non potrebbero intendersi se non entro una teoria dell’intenzionalità e dell’immaginazione. Per quanto concerne nello specifico la musica, Scruton separa il fenomeno dei suoni fisici dall’esperienza della musica; la differenza non risiede in una semplice variazione di grado e la musica non sarebbe il risultato di una sequenza organizzata di note e accordi, ma suoni e musica sono entità di genere differente che agiscono nell’ambito delle rispettive sfere d’appartenenza: i primi fanno parte del mondo fenomenico degli esseri di  natura e in esso vengono ascoltati concettualmente come suoni naturali semplici, mentre la musica chiama in causa unicamente la sfera intenzionale del solo essere di natura (l’uomo) capace di relazionarsi contemporaneamente con la propria facoltà immaginativa per trascendere la sua condizione materiale del qui e ora. L’esperienza musicale è propriamente il tentativo razionale dell’uomo di evolversi da se stesso, dalla propria condizione di finitezza naturale per dislocarsi su un piano di intenzionalità immaginativa che rappresenta l’antitesi di quella relazione analogica che ogni altro essere di natura intrattiene attraverso l’apparato sensoriale con il proprio ambiente di riferimento.

    Questa spiegazione è la stessa che confluisce nella tesi principale di Scruton, secondo la quale la nostra esperienza della musica coinvolge un elaborato sistema di metafore – metafore di spazio, movimento e di animazione. Già nel nostro apprendimento musicale di base è in gioco un complesso sistema di metafore, il quale non è la descrizione veritiera di un qualche fatto materiale, o di qualcosa che riguardi semplicemente il mondo fisico dei suoni. La metafora non può essere eliminata dalla descrizione della musica, poiché essa definisce l’oggetto intenzionale dell’esperienza musicale. Esplicitamente dichiara: «togliete di mezzo le metafore, e non potrete più descrivere l’esperienza della musica»[1].   

    Questa affermazione – che l’esperienza della musica è irriducibilmente metaforica – è stata rifiutata, tra gli altri, da Malcolm Budd, il quale sostiene che fino a quando non sarà stato compreso lo scopo che sta alla base della metafora, la caratterizzazione di tale esperienza come metaforica è del tutto irrilevante. Detto in altri termini, Budd afferma che ciò che si dà nell’esperienza musicale di una determinata persona, e che quindi viene colto in essa, è, in quanto irreducibilmente percettivo (anziché metaforico), impossibile da specificare senza fare riferimento all’oggetto di quell’esperienza, vale a dire, senza fare riferimento alla musica stessa. 

    A questa critica si è aggiunta anche quella di Davies, il quale, in accordo con Budd, è dell’idea che quando la musica viene descritta come ‘triste’, la parola ‘triste’ è usata proprio nel senso in cui è normalmente riferita ai discorsi ordinari del sentimento, ovvero letteralmente. Nello specifico, egli precisa che i termini che denotano emozioni utilizzati per descrivere determinati aspetti (o modi di apparire) sia delle persone che degli oggetti naturali o delle opere d’arte, sono parassitari rispetto all’uso che di tali termini si fa per riferirsi alle emozioni che vengono vissute; essi rappresentano cioè un uso secondario. I termini che denotano emozioni descrivono per l’appunto quella apparenza acustica, quelle caratteristiche esteriori dell’emozione che sono alla base della stessa spiegazione dell’espressività nella teoria di Davies.

    Dialogo questo cui abbiamo dato rilevanza nell’ultimo capitolo del nostro lavoro, nel quale spesso si sfiora anche l'altra questione legata al problema del rapporto musica-emozioni, e cioè quella della natura linguistica della musica, il problema della sua semanticità. Problematica questa che il tema musica-emozioni si porta dietro come fosse la sua ombra, e che come tutta la storia stessa della musica lascia intravedere, pone sul tappeto l’ipotesi di una prossimità tra musica e linguaggio. Un’ipotesi che nell’attuale dibattito, abbiamo però potuto constatare, non trova facilmente adesioni. Non si è cioè propensi a considerare l’idea che la musica possa essere semplicemente un linguaggio tra i linguaggi. Si ripensa così alla concezione langeriana della musica come simbolo inconsumato e si riflette allo stesso modo sulla concezione simbolica goodmaniana delle arti. Nello specifico, ci si interroga su quanto ancora si possa parlare di linguaggio in presenza di siffatte concezioni simboliche e quanto la musica in ultimo possa avere affinità tali da poter essere ricondotta al linguaggio. Abbiamo così visto che in alcuni casi, particolarmente chiaro quello di Stephen Davies, muovendo dal rifiuto di quelle tesi che prospettano l’idea della musica come simbolica, ci si sposta sul versante di altre questioni, quali: qual è l’esatto modo di definire una metafora, e quale la sua funzione illuminante all’interno delle descrizioni emotive della musica? E a seguire come intendere tali descrizioni? Si tratta di descrizioni metaforiche o letterali?

    Altrettanto marcate e diversificate poi ci sono parse anche le soluzioni date sul versante dell’altra problematica, quelle cioè di come giustificare il potere meraviglioso che la musica ha di commuoverci. È questa certamente l’altra importante questione che debbono fronteggiare quanti negano una teoria eccitazionistica e difendono invece l’idea che le emozioni musicali siano quelle che riconosciamo nella musica, piuttosto che nella dinamica emotiva dell’ascoltatore. Interessante a tal proposito è stato per noi seguire il dibattito serrato tra Kivy, Levinson e Davies, i quali si trovano in sintonia tanto in relazione all’idea che le proprietà emotive siano proprietà percettive della musica stessa, quanto nel rifiutare perentoriamente una teoria eccitazionistica. Il maggior punto di dissenso sta invece nel fatto che mentre per Kivy la musica ci commuove emotivamente per la sua bellezza, per Davies e Levinson la musica ci colpisce emotivamente in virtù del potere che le qualità espressive hanno di suscitare in noi delle emozioni ad esse corrispondenti. In altre parole, stando alle spiegazioni proposte da Davies e Levinson, il meccanismo di stimolazione delle emozioni è attivo quando la musica è espressiva di tristezza, di felicità, o di qualcos’altro, sia o meno essa una buona musica, ovvero una musica bella. Secondo la teoria di Davies, l’espressività è infatti di per se stessa contagiosa (teoria della tendenza o del contagio), sia o meno essa incarnata in un’opera d’arte di alto livello o in qualcosa che non è affatto un’opera d’arte: l’espressività provoca direttamente le emozioni. Secondo la teoria di Levinson, tutto ciò che è necessario affinché la musica stimoli un’emozione è che vi sia un’empatia nei confronti di un personaggio musicale che immaginiamo esprime tale emozione (teoria della persona). Per Kivy invece la musica, affinché commuova, deve essere bella, ovvero musicalmente riuscita. Inoltre, una diversa concezione è anche quella che tali autori manifestano rispetto a come si debbono intendere le emozioni che la musica ha destato: per Kivy, si tratta di emozioni pure, nude e crude, emozioni che, egli precisa, avvalendosi della teoria di Brentano, hanno un oggetto, una credenza e un feeling. Mentre nel caso di Davies e Levinson le emozioni stimolate dalla musica non sono emozioni vere e proprie, che hanno cioè una precisa componente cognitiva e intenzionale, ma quasi-emozioni o emozioni sbiadite.

    In aperta polemica con i teorici cognitivisti o teorici dell’esternalità, dunque in netta rottura con quello che ci è parso essere l’orientamento dominante nel dibattito analitico, troviamo i teorici dell’Arousal. Declinata infatti in forme certamente più singolari e sofisticate, anche nell’attuale dibattito viene a rivivere la teoria disposizionale (qui ribattezzata Arousal Theory) che tanta fortuna ha avuto da Platone fino al XVIII secolo. Da questo punto di vista, come avevamo anticipato, si ritiene che le proprietà emotive appartengono alla musica piuttosto che come proprietà percettive come proprietà disposizionali, vale a dire: la musica esprime le sue distinte emozioni per la sua predisposizione a causarle nell’ascoltatore. Uno dei più illustri rappresentanti di questa tendenza, anzi probabilmente il primo a riaffermare polemicamente un’idea di tipo disposizionale per la comprensione del problema espressivo, è Derek Matravers. Egli sostiene infatti che sebbene l’esperienza musicale causi uno stato mentale caratteristico che non è un’emozione vera e propria, dotata cioè di una componente cognitiva, bensì una sensazione, possiamo descrivere un brano musicale come triste soltanto perché esso suscita in noi quelle sensazioni che nella vita reale sono parte dell’esperienza della tristezza. Certamente anche in quest’orientamento non possiamo esimerci di evidenziare come numerose siano le varianti teoriche in gioco, ma le nostre scelte ci hanno portato infine a un approfondimento esclusivo della tesi di Matravers, soprattutto in vista, avevamo anticipato, del dibattito serrato che egli intrattiene con Kivy.

    Innegabile comunque è, in tal senso, la difficoltà che emerge ogni qualvolta si voglia dare, anche se approssimativamente, una classificazione delle teorie esaminate, poiché diverse sono le sfaccettature che le caratterizzano e con le quali bisogna necessariamente confrontarsi. Per questa ragione fuorviante è, dal nostro punto di vista, il tentativo di categorizzazione proposto da Jerrold Levinson nell’opera The Pleasures of Aesthetics. Si tratta infatti di un percorso espositivo all’insegna della parzialità dove infine prevale la logica strumentale di far venire fuori quegli aspetti delle varie teorie che per qualche misura non pervengono ad una spiegazione dell’espressività esaustiva rispetto all’elenco dei desiderata dallo stesso stilato. Un elenco di esigenze cui, in ultimo, solo la sua teoria sembra soddisfare pienamente. Ma Levinson non è l’unico a muoversi seguendo una logica di questo tipo. Aspetto questo il più delle volte imbarazzante ma soprattutto dicevamo fuorviante perché ciò che infine sembra affermarsi come obiettivo primario non è più quello di guardare al problema in esame ma controbattere nel modo più efficace e convincente le argomentazioni altrui.

    Ad ogni modo, questo è dunque il quadro sintetico delle posizioni in gioco, che come si è detto animano il dibattito analitico contemporaneo intorno al problema del rapporto tra musica ed emozioni. Mi sembra opportuno anticipare ora l’ordine secondo cui tali posizioni saranno esposte e analizzate nel corso della nostra ricerca.

    Nel primo capitolo, abbiamo voluto dar spazio ad un’introduzione di carattere generale del dibattito, esaminando i percorsi storici che hanno favorito la rinascita di questa particolare attenzione alla questione del rapporto musica-emozioni e disegnando anche i percorsi metodologici caratteristici della ricerca analitica. Fino poi a ricostruire in un percorso rapido e sintetico le premesse storiche che sono alla base del dibattito.

    Nel secondo capitolo, dedicato al tema musica-forma, un’attenzione particolare è stata destinata alla concezione di Peter Kivy. L’idea è stata quella di seguire attentamente le tappe più significative della sua indagine sul problema espressivo, fino ad arrivare all’approdo al formalismo arricchito (enhanced). Nell’ambito di questo percorso interessante è anche stato per noi seguire il dialogo che Kivy intrattiene con i filosofi contemporanei Levinson e Davies, in relazione al problema di come intendere il potere della musica di commuoverci e al tipo di emozioni che la musica è in grado di destare. Il passo successivo è stato poi quello di prendere in esame la teoria di Derek Matravers, sia in vista dell’aspra polemica con Kivy sia in considerazione del fatto che egli, anticipavamo, è uno dei più illustri rappresentati dell’altra tendenza riattivatasi nel dibattito.

    Infine nel terzo e ultimo capitolo abbiamo rivolto una particolare attenzione al tema dell’uso delle metafore nelle descrizioni musicali e a quello ad esso connesso dell’isomorfismo. Nello specifico, dopo aver dedicato una primissima parte ai testi seminali che sono alla base della discussione, interessante è stato per noi seguire il dialogo tra coloro che, come Zangwill e Scruton, sostengono, seppure per ragioni diverse, una concezione metaforica delle descrizioni della musica in termini emotivi e coloro che invece, come Budd e Davies, vogliono riaffermare la letteralità di siffatte descrizioni.

    Il nostro è stato un lavoro di esposizione e di analisi, e piuttosto che schierarci da una parte o dall’altra, abbiamo preferito invece il più delle volte portarci fuori dalle nette opposizioni e dalle polemiche, spesso sterili, derivate nella maggior parte dei casi da sottili distinzioni terminologiche e da etichette di vario genere. In tal senso, importante per noi è stato soprattutto rilevare invece quelle puntuali convergenze che di volta in volta emergono sotterraneamente, malgrado cioè i tentativi di dissimularle. La più significativa di queste convergenze è quella che abbiamo intravisto nell’idea dei teorici cognitivisti, i quali, pur muovendosi da posizioni che sembrano inconciliabili, quelle cioè di una risposta dal basso che riporta l’isomorfismo al suo massimo di necessità e di una risposta dall’alto che guarda invece a dinamiche intenzionali, hanno in ultimo sempre e comunque dovuto riconoscere il ruolo dei processi immaginativi in atto nell’esperienza musicale.

    Dimensione quella immaginativa decisiva, come emergerà nell’ultimo capitolo del nostro lavoro, tanto nelle teorie incentrate sulla metafora, tanto in quelle che, al contrario, vi rinunciano optando per una descrizione letterale dei termini implicati, che si pone come candidato principale a rivestire una funzione trans-categoriale, capace di stabilire cioè connessioni che favoriscono il passaggio da un dominio di riferimento concettuale ad un altro. Da questo punto di vista sembrerebbe infatti che la musica crei delle forze immaginative che favoriscono e orientano le nostre possibili associazioni.

    Inoltre, per quanto possa sembrare un azzardo una simile ipotesi, ci è parso infine che le distanze non siano nemmeno così accentuate, come invece potrebbe rivelarsi ad un analisi superficiale, tra i teorici cognitivisti e i teorici disposizionalisti, dal momento che la spiegazione dell’espressività musicale nell’uno e nell’altro caso deve sempre fare i conti tanto con le proprietà della musica quanto con l’incidenza soggettiva di chi fa esperienza di essa. Anche per il cognitivista Kivy questo è un dato con cui dover confrontarsi, e noi crediamo che egli stesso ne sia consapevole quando afferma che in realtà nella sua concezione emozione e cognizione non si diano come separate. E come Kivy anche Matravers riteniamo non possa fare a meno di riportarsi infine a delle proprietà che la musica comunque possiede e che ci predispongono ad un’emozione. Pensando soprattutto alla più aspra controversia che vi è tra i due, e d’accordo con quanto scrive Giovanni Piana sosteniamo che: «quanto più si esaspera il tema dell’oggettività e della sintassi, quanto più si sottolinea l’essere in sé dell’opera come un essere in sé che si separa da ogni legame con il mondo, tanto più nettamente l’impostazione del problema tende ad un completo ribaltamento non appena si avanza nuovamente la pretesa dell’espressione»[2].

    Sembra dunque che quando ci si occupa del problema musica-emozioni non si possa venir fuori da un’oscillazione quasi costante tra concezioni della musica che difendono la sua autonomia e concezioni che invece pensano la musica come parte integrante della nostra esperienza più estesa. Eppure, come  abbiamo voluto far emergere, tirandoci fuori dalle polemiche, dalle obiezioni e contro-obiezioni che caratterizzano la ricerca analitica, il più delle volte quelle due concezioni possono semplicemente coesistere. Anzi è proprio nel segno di questa integrazione, di questo riportare le cose ad unità che riteniamo si possa gettare adeguatamente luce sul problema del rapporto tra la musica e le emozioni. Più significativa in questo senso ci è parsa la sfida ardua intrapresa dal gruppo dei teorici cognitivisti o sostenitori dell’esternalità, i quali, certamente consapevoli del limite in seno alla concezione formalista della musica come ‘universo chiuso’, hanno voluto aprire questo stesso universo al legame negato.

    Altrettanto interessante per noi è stato riscontrare come entro questo stesso ordine di idee l’ipotesi isomorfica, nella maggior parte dei casi, resti ancora, dopo cioè  i precedenti significativi di Pratt e Langer, l’ipotesi più accreditata. Per quanto osteggiata e malvista, ad essa si ritorna, talvolta anche carsicamente. Secondo questa lettura, la relazione specifica della musica con le emozioni è una relazione primitiva, prevalutativa. Sentire questo rapporto non è cioè una conseguenza di un atto di adesione, di apprezzamento estetico, di valutazione; non ci sentiamo coinvolti emotivamente dalla musica perché ne riconosciamo il valore estetico, si tratta piuttosto di un legame originario che può confluire nell’apprezzamento di un valore, oppure no (Kivy, Budd, Davies, Levinson).

    Al contrario chi nega l’ipotesi isomorfica, esemplare in questo senso la teoria di Scruton, lo fa proprio in vista della presunta coincidenza di espressività e valore estetico. Una posizione questa, noi sosteniamo, d’accordo con quanto suggerisce Silvia Vizzardelli, «che fa circuitare pericolosamente la nozione di espressività con il riconoscimento del valore estetico, al punto che anche processi almeno all’origine d’impatto immediato, come la danza, vengono subito riassorbiti in esperienze più complesse e, potremmo dire, privati già in partenza della loro natura»[3].

    Ringraziamenti

    Il presente volume ripropone, in forma revisionata e arricchita, il lavoro di ricerca condotto nell’ambito del Dottorato di Ricerca in Estetica e Teoria delle Arti dell’Università degli studi di Palermo. Ringrazio Luigi Russo, coordinatore del Dottorato, e Silvia Vizzardelli, tutor della mia ricerca, che più di altri ha saputo trasmettermi l’interesse per gli studi di estetica. Accompagnata dagli stessi sentimenti, desidero inoltre ringraziare Salvatore Tedesco, per i consigli sempre pertinenti e generosi, e Lucia Pizzo Russo, la quale si è dimostrata sempre preziosa nel darmi suggerimenti. Un pensiero grato va poi a tutte le persone, amici, colleghi che mi hanno sostenuta con autentico affetto, tra questi, in particolare Federica Pau, Ianni Ortensio e Filippo Focosi. Infine, grazie alla mia famiglia la cui generosità coltiva ancora oggi i miei desideri, i miei sogni.

    Capitolo primo - Prospettive di ricerca e testi seminali

    1.1.      Il rapporto musica-emozioni al centro del dibattito

    L’obiettivo di questo lavoro è quindi ripercorrere alcune delle tappe più significative dell’odierno dibattito analitico sul tema musica-emozioni. Ci soffermeremo in particolare su tre questioni specifiche fondamentali, l’espressività della musica, il ruolo delle emozioni nell’esperienza musicale

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