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Il bastone d'avorio
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Il bastone d'avorio

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About this ebook

In una remota isola della Micronesia, dove i segni del passato si nascondono sotto una fitta vegetazione, le insidie sono dietro l’angolo per i ricercatori di una spedizione esplorativa. Ripercorri insieme a loro le orme di un avventuriero che, a distanza di due secoli, solcava quegli stessi mari in fuga dalla Marina inglese.

Ma cosa è realmente accaduto all’equipaggio di una una nave scomparsa nel nulla?
Quale segreto nascondono le isole dove è approdato? I loro antichi abitanti le credevano infestate da presenze ostili e qualcosa di quell’antica superstizione è sopravvissuto fino ad oggi.
Esplora un luogo in apparenza indecifrabile, abitato in passato da una civiltà primitiva la cui unica eredità è costituita dagli oscuri mohai: gigantesche teste di pietra il cui significato è tutt’ora un mistero impenetrabile.
 
LanguageItaliano
Release dateJan 1, 2021
ISBN9786050424874
Il bastone d'avorio

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    Il bastone d'avorio - Paolo Carlo Borgonovo

    74.

    PARTE PRIMA

    1.

    Dave Mitchell non avrebbe mai adottato il termine pirata per definire sé stesso. Avrebbe potuto imbrattare centinaia di pagine per descrivere la sua persona, senza che nemmeno lo sfiorasse l’idea di usare quella parola. Ma dopo che la Reale Compagnia delle Indie Orientali lo aveva allontanato con disonore, aveva deciso di prendersi con la forza ciò che una vita di onesto lavoro non gli era valsa a fargli riconoscere.

    A ben vedere però, Dave Mitchell non aveva mai dedicato una sola ora di onesto lavoro alla Compagnia.

    Ma suo padre lo aveva fatto, eccome. E questo era sufficiente a determinare in lui la convinzione di essere in credito con la Compagnia, con l’Inghilterra e con il mondo intero che gli aveva voltato le spalle.

    Dal giorno del suo settimo compleanno, aveva trascorso la maggior parte delle sue giornate a bordo del mercantile Britannia. Steven Mitchell, suo padre, aveva praticamente cresciuto il piccolo Dave sul ponte del veliero di cui era orgogliosamente primo ufficiale.

    I burocrati di Londra avevano promesso a Steven il comando della nave il giorno stesso in cui il capitano in pectore si fosse ritirato. Peccato che il vecchio Arthur William Jacobbs sembrava aver deciso di lasciarsi morire a bordo del Britannia, piuttosto che vederlo comandato da braccia e gambe che non fossero le sue.

    Il padre di Dave era un lavoratore instancabile; non si lamentava mai quando il vecchio Jacobbs lo caricava di mansioni che a bordo di qualunque altro mercantile della Compagnia avrebbero destinato a modesti manovali.

    «È perché mi ritiene affidabile e responsabile», ripeteva a chi glielo faceva notare.

    Con il passare degli anni, Dave Mitchell aveva capito da solo che se il tuo capitano ti ritiene affidabile e responsabile, tende a delegarti compiti di prestigio, non incombenze da marinaio semplice.

    A sessantacinque anni suonati, tuttavia, anche per il capitano Jacobbs arrivò il giorno che non tramonta. Ma ciò che il primo ufficiale Mitchell non poteva neppure immaginare, era il modo in cui la sua vita sarebbe successivamente precipitata, travolta e infine abbattuta come un relitto che si sfracella contro scogli sferzati da flutti feroci.

    Correva l’anno 1724. Si trovavano da giorni nel porto di Tavoy, uno dei tanti protettorati inglesi del sudest asiatico. Non già una colonia del vasto Impero Britannico, anche se presto lo sarebbe divenuta. La Compagnia delle Indie Orientali puntava alla creazione di scali commerciali lungo le proprie rotte ed era proprio da questi centri, nell’ipotesi in cui si fossero dimostrati fruttuosi, che la Corona gettava le basi per una conquista coloniale.

    Il Britannia era ancorato a poche leghe dal porto birmano, insieme ad altri mercantili provenienti da luoghi talmente sperduti, che soltanto chi vi era approdato sarebbe stato pronto a giurare che esistevano davvero.

    Dave Mitchell aveva da poco compiuto undici anni e la sua unica preoccupazione, mentre passeggiava per le strade del porto insieme al padre, era contare le pietre rosse del selciato che a intervalli irregolari si alternavano a quelle grigie.

    Suo padre, Steven, era vittima di un umore mutevole. Era infatti consapevole che a breve avrebbe ottenuto il comando del Britannia. Tuttavia non poteva fare a meno di avvertire un senso di colpa, tipico degli uomini incorreggibilmente onesti, che gli pizzicava il profondo dell’animo.

    Era come una formichina sul collo che gli mordesse in continuazione la nuca. Non poteva farne a meno, per il semplice fatto che il suo bene, ovvero la sua promozione, dipendeva dal malessere di un altro uomo.

    Se avesse potuto, Steven Mitchell avrebbe volentieri scelto la salute del vecchio capitano Jacobbs insieme alla sua carriera nella Compagnia, ma a quanto pareva una cosa escludeva l’altra e ciò era sufficiente a farlo sentire in colpa.

    Il porto di Tavoy era un caleidoscopio di colori e odori, ma il piccolo Dave avrebbe potuto credere di trovarsi in un qualunque porto della costa asiatica dal Golfo Persico al mar Giallo.

    A soli undici anni aveva già fatto meta nei principali scali portuali di tutte le rotte della Compagnia.

    Come tutti gli altri, anche il porto di Tavoy presentava alcuni elementi ricorrenti: un campionario di uomini e donne dal più basso gradino sociale al più elevato rango nobiliare. Un’esposizione di esercizi commerciali che avrebbe fatto impallidire l’immenso mercato di Liverpool che Dave era solito frequentare con la sua vecchia nonna, prima di prendere il mare. Un odore pungente che solo i nasi più allenati potevano scomporre nelle sue unità elementari che spesso si riassumevano nel pescato, che poteva emanare tanto una fragranza di fresco, quanto un lezzo rancido; nell’odore del bitume caldo, che veniva cotto in grosse pignatte per calafatare gli scafi delle barche; e in rare occasioni nell’effluvio del mare che, trasportato dalle brezze oceaniche, mostrava la pietà di rovesciarsi sulle maleodoranti banchine portuali.

    Ciascuno pareva animato da una smania frenetica, come se dalla propria puntualità fossero dipese le sorti del mondo intero.

    Soltanto Steven Mitchell e il giovane Dave si concedevano il lusso di camminare lentamente, osservando i mercantili alla fonda nella baia dai quali si ergevano orgogliosi gli alberi maestri, come superbi fusti ondeggianti che sovrastano i giunchi e le piante che non li eguagliano in altezza.

    «Il capitano sta morendo?»

    La domanda era uscita quasi involontariamente dalle labbra di Dave. La sua bocca si era limitata a dare fiato ad un pensiero che nella mente del bambino era tanto curioso quanto innocente.

    «Ecco…» aveva detto Steven quasi imbarazzato. «Credo di sì, Dave. Ma questo non deve preoccuparti.»

    «Jobin dice che quando il capitano morirà sarai tu il comandante.»

    Jobin era un marinaio originario dell’isola di Java. Un uomo gigantesco, di cui si poteva dire che avesse ispirato Omero per descrivere i Ciclopi, ma buono quanto il succo dello zenzero. Jobin aveva preso in simpatia il figlio del primo ufficiale Mitchell, come del resto la maggior parte dell’equipaggio del Britannia.

    «Vedremo, piccolo. Vedremo…» Steven aveva strizzato l’occhio al figlio e, per cambiare argomento, si era avvicinato ad una bancarella affollata che vendeva filetti fritti di Quashy, una leccornia locale che altro non era se non sardine fritte servite in un alga saporita, che vagamente ricordava il gusto delle rape.

    Il capitano Arthur W. Jacobbs soffriva di tubercolosi.

    La malattia lo stava consumando ormai da anni e lo aveva reso, a detta dei suoi marinai, il più intrattabile figlio di buona donna a cui la sorte avesse mai concesso un pezzo di legno galleggiante da comandare.

    La sosta del Britannia al porto di Tavoy era direttamente connessa alla cagionevole salute del suo comandante. Si diceva, infatti, che i migliori dottori dell’estremo oriente fossero di leva presso la clinica militare di tale porto.

    Jacobbs aveva programmato lo scalo a Tavoy, lungo la rotta commerciale per Singapore, allo scopo di sottoporsi ad un’analisi da parte dell’equipe birmana di chirurghi che sapeva operare nella clinica De Toimery, fondata dai francesi durante i primi anni delle loro sortite in quei territori lontani dalla madrepatria.

    Durante gli ultimi giorni di viaggio il capitano era peggiorato, fino al punto di dover essere sostituito al comando della nave dal primo ufficiale Mitchell.

    Il medico di bordo si era visto costretto a somministrare oppiacei al comandante Jacobbs al fine di concedergli qualche ora di pacifico riposo, altrimenti turbato dagli spasmi e dagli incubi causati dalle continue febbri.

    Durante le recenti notti trascorse in coperta, sdraiato sulla propria branda, non erano mancati episodi di deliri e vaneggiamenti in preda ai quali il capitano accusava tutta la stirpe umana di complottare alle sue spalle per sottrargli il comando del suo veliero.

    Quei vaniloqui erano proseguiti durante tutto il trasferimento dal Britannia fino alla clinica De Toimery, avvenuto ad opera degli ufficiali inglesi in servizio al porto di Tavoy.

    Normalmente nessuno avrebbe dato peso alle frasi di un uomo palesemente in fin di vita, che farneticava senza che le parole avessero alcuna corrispondenza con quanto di umanamente verosimile.

    Il destino volle, invece, che tra gli ufficiali inglesi destinati al trasporto degli infermi vi fosse, quel particolare giorno, in quella particolare ora, il tenente Cletus McArny, giovane nipote di Weylon McArny, il Governatore di Birmania. Un uomo del re, che lo stesso sovrano, Re Giorgio II, aveva personalmente voluto premiare, affidandogli il governatorato di una delle roccaforti inglesi tra le colonie incardinate lungo la costa meridionale dell’Asia.

    Questa casualità fu però determinante per la vita di molte persone, a partire dallo sventurato primo ufficiale del Britannia, Steven Mitchell.

    Erano trascorsi quattro giorni da quando il giovane Dave Mitchell aveva gustato il suo Quashy avvolto nelle alghe al gusto di rapa nel pittoresco mercato del porto di Tavoy.

    Quando vennero a prelevare il padre, nella mente di Dave, fu come se la sciagura più grande che la sorte potesse riservare a quella giovane vita, si fosse abbattuta su di lui, insieme ad una selezionata combinazione di calamità e disgrazie.

    La taverna in cui alloggiavano padre e figlio era poco più che un tugurio, una bettola a due piani incastrata in una sudicia via alle spalle della baia, abbastanza lontana dal caos dei traffici portuali, ma non sufficientemente distante da potersi sottrarre al fetore del porto, che sembrava avvolgere ogni cosa all’interno della stamberga.

    Anche se la tappa a Tavoy non era prevista nel manifesto di bordo, stilato dagli armatori a Londra, i marinai del Britannia si davano comunque da fare, approfittando della sosta fuori programma.

    C’erano provviste da sostituire, barili d’acqua potabile da accumulare in coperta, riparazioni straordinarie da effettuare insieme alle consuete opere di manutenzione alla deriva, al bompresso, alle vele di trinchetto e agli stralli. In tutto questo, il primo ufficiale non era tenuto a muovere un dito, ma Steven Mitchell semplicemente non era in grado di stare a guardare un uomo al lavoro senza avvertire il bisogno di dare una mano.

    Per questo motivo, aveva trascorso gli ultimi tre pomeriggi facendo la spola tra il Britannia e il porto di Tavoy, a bordo di scialuppe noleggiate a spese della Compagnia. Tutto ciò per mettere il veliero in condizione di poter affrontare l’ultima tratta che ancora li separava da Singapore, dove avrebbero concluso il loro lungo viaggio.

    La sera del quattro settembre, Dave Mitchell aspettava il ritorno del padre affacciato alla finestra della locanda che dava sulla strada acciottolata in malo modo. Quando lo vide materializzarsi da lontano, il piccolo Dave aveva il mento poggiato sui pugni, la testa che ciondolava distrattamente in attesa di riconoscere il familiare passo del padre nella lontana sagoma che risaliva la strada verso la taverna.

    Quando fu sicuro di averlo riconosciuto, Dave abbandonò la sua postazione di vedetta e, saltandoli a coppie, discese i gradini di pietra fino al pianterreno dove, sotto lo sguardo severo dell’oste, attraversò rumorosamente la sala da pranzo per riversarsi in strada.

    Dave corse verso il padre come una gazzella e, appena lo raggiunse, prese a saltellargli intorno.

    «Che ti prende?» domandò Steven Mitchell spettinando i riccioli scuri del figlio.

    «Perché ci hai messo così tanto, oggi? Me l’hai portato il temperino? L’hai trovato il temperino?»

    Come sempre Dave rispose a una domanda con altrettante domande e la cosa suscitò una spontanea risata da parte del padre.

    «Purtroppo, non ho trovato il temperino…» spiegò Steven, mal simulando un repentino sconforto.

    Da giorni Steven aveva promesso al figlio che gli avrebbe recuperato dal banco di carpenteria del Britannia, un temperino, col quale avrebbe insegnato a Dave come incidere e scolpire il legno, un’attività che durante i lunghi viaggi poteva rendere meno monotona la vita a bordo della nave.

    In una manciata di secondi, la vivacità di Dave sembrò dileguarsi per la delusione, ma fu breve l’inganno quando il padre estrasse da una tasca un piccolo oggetto avvolto in un panno.

    «Pettycoat non aveva un temperino in più da darmi, quindi mi ha regalato un vero coltello da intagliatore!»

    Dave osservò il padre svolgere delicatamente il panno per mostrargli il pugnale ricurvo col manico in corno di narvalo.

    «Posso tenerlo davvero?»

    Il sorriso era subito tornato sul volto di Dave Mitchell che consumava con lo sguardo quell’oggetto affascinante.

    «Pettycoat è molto geloso dei suoi arnesi, ma quando gli ho detto che era per te, ha insistito perché te lo portassi. Dice che durante il viaggio per Singapore ti insegnerà come intagliare il legno.»

    Dave stringeva il piccolo pugnale con gli occhi illuminati dal desiderio di provarlo subito.

    «Avanti tutta, ora!» lo incalzò poi il padre. «Andiamo a scoprire che c’è per cena.»

    Padre e figlio si incamminarono lungo la breve salita, fino a raggiungere l’ingresso della bettola, dove qualche altro avventore cominciava a prendere posto al lungo tavolaccio di legno, per farsi servire la cena.

    L’oste era un cambogiano in sovrappeso, consumato dal tempo e indurito dalla gotta, che vestiva un grembiule lercio, sul quale a intervalli di pochi secondi, strofinava le mani imbrattandolo dei colori e degli odori della cucina. Quando entrò nell’unica sala del pianterreno, che fungeva da mensa, reggeva un enorme tegame fumante.

    «Salve, Yem-Ho.»

    Steven salutò il vecchio che dal canto suo si limitò ad emettere una sorta di grugnito aspro. Anche Dave si produsse in un saluto tutt’altro che spontaneo, solo perché incalzato dal padre.

    «Che c’è in pentola?» domandò un uomo che stava seduto senza muovere un dito, fumando foglie di tabacco arrotolate. Steven non l’aveva mai visto prima, ma era normale vedere facce nuove lì dentro. I porti erano come una calamita che attirava gente da ogni angolo del mondo, ciascuno con la propria storia, i propri progetti e i propri segreti, talvolta inconfessabili.

    «Amok-trey!» ruggì l’oste posando rumorosamente la pentola sul tavolo. Amok-trey era l’espressione che Dave aveva udito sei delle otto volte in cui aveva consumato la cena in quella taverna. Era un piatto tipico del menù khmer, a base di curry di pesce al vapore.

    Evidentemente, il vecchio Yem-Ho non amava variare in cucina.

    Due marinai scalzi e malvestiti si avvicinarono famelici alla pentola, reggendo le loro scodelle di legno. Yem-Ho gli si parò davanti farfugliando qualche imprecazione nel suo incomprensibile idioma.

    «Che accidenti gli prende al vecchio?» disse uno di loro sghignazzando.

    «Dove moneta? Dove moneta?»

    Yem-Ho poteva anche sembrare un vecchio scorbutico intontito dall’età, e in effetti lo era, ma era pronto a sfoderare il suo coltellaccio da cucina se qualcuno tentava di fare il furbo nella sua locanda.

    «Ce l’abbiamo la moneta, vecchio cancro!»

    Uno dei marinai frugò nella sua bisaccia e ne estrasse qualche scellino inglese che lanciò sul tavolo. Yem-Ho raccolse le monete e si assicurò che l’effigie di Re Giorgio fosse ben incisa a garantire la genuinità del conio.

    Ciascuno si servì una porzione di Amok-trey nella propria scodella, senza fare complimenti.

    Dave fu l’unico a non riempire la ciotola. Tutta la sua attenzione era ancora rivolta al suo nuovo coltello col quale immaginava di poter dare forma a soldati, cavalli e velieri che, nella sua immaginazione, prendevano vita per combattere eroiche battaglie, o attraversare tempeste oceaniche.

    Pochi minuti dopo il siparietto svoltosi tra il panciuto oste e i due marinai, tutti gli ospiti della taverna erano seduti al tavolaccio di legno, ciascuno concentrato nel divorare la propria cena, tutti troppo affamati e stanchi dalla giornata al porto per lamentarsi della qualità del cibo.

    Steven fu il primo ad avvertire un lontano rumore proveniente dalla piazzola da cui si dipanava la strada in salita che conduceva alla bettola.

    Qualche istante dopo lo udirono tutti.

    Era il campanaccio del carro della polizia portuale inglese.

    Nessuno ci badò più di tanto e persino Steven, che inizialmente si era domandato cosa diavolo ci facesse in giro a quell’ora il carro della polizia, proseguì a ingurgitare una cucchiaiata dopo l’altra di Amok-trey.

    Soltanto quando il carro arrivò a pochi passi dall’ingresso della taverna, i commensali furono costretti a posare gli attrezzi con cui davano fondo allo stomaco.

    Tutti i presenti non poterono fare a meno di alzarsi da tavola. I due giovani marinai sgranarono gli occhi e, con la bocca ancora piena di Amok-trey, fecero cascare la sedia a terra e si precipitarono verso la finestra che si affacciava direttamente all’unica strada che conduceva al porto.

    La carovana della polizia portuale doveva essersi fermata davanti all’ingresso della taverna, perché all’interno della sala da pranzo risuonavano distintamente le voci degli ufficiali e le grida dei curiosi che avevano scortato la carrozza.

    «Chi saranno venuti a prendere?», «Qualcuno dormirà al fresco stanotte!», «Ci vuole la galera per certa gente!» Erano soltanto alcune delle frasi che Dave registrò quella sera mentre, allarmato, appoggiava il cucchiaio di legno nella ciotola ancora piena, in sottofondo il caratteristico squillo del campanaccio che ciondolava appeso ai finimenti del cocchio.

    Il vecchio oste cambogiano stava ancora trascinando l’enorme pentolone di rame verso la cucina, quando la porta d’ingresso fu spalancata con una violenza tale che per poco non si staccò dai cardini.

    Sei uomini in divisa irruppero nella sala da pranzo. La livrea blu e bianca della polizia portuale inglese era inconfondibile e da come si muovevano, fu subito chiaro a tutti i presenti che non erano venuti fin lì per assaggiare la specialità della casa.

    Occhiate fulminee saettarono dagli occhi degli ufficiali in direzione dei commensali. Dave ebbe l’impressione di poter scorgere un fluido rabbioso prendere forma dai poliziotti per disperdersi all’interno della taverna.

    Furono rapidamente passati al setaccio i due marinai, il misterioso pescatore che per tutto il tempo non aveva smesso di fumare il suo rocchetto pestilenziale, il vecchio Yem-Ho, il piccolo Dave e infine Steven Mitchell.

    Il più basso degli ufficiali si avvicinò minaccioso al tavolaccio di legno. Fece un rapido cenno ai due soldati che gli stavano accanto, che scattarono come molle circondando Steven, che nel frattempo si era alzato da tavola, domandandosi confuso che cosa stesse accadendo.

    «Il Signor Steven Mitchell, primo ufficiale del mercantile Britannia?»

    Quel Signor appariva come un vero e proprio insulto per effetto della voce sgradevole e del ghigno perverso dipinto sul volto del poliziotto che pronunciò la domanda.

    «Sono io…» balbettò Steven.

    «Sono il tenente McArny. Ho il compito di tradurla presso le carceri del Tribunale di Sua Maestà Re Giorgio, presso la Procura coloniale di Tavoy.»

    Così dicendo, l’ufficiale si sfilò i guanti bianchi dalle mani ed il tricorno militare blu con cucita la bandiera imperiale.

    «Con quale accusa?» osò domandare Steven.

    «Non sono tenuto a dare risposte ad un pirata!»

    La voce di McArny era tagliente come una sciabola saracena. «Porrai le tue domande al Procuratore Barlow. Portatelo fuori.»

    Steven era sbalordito.

    «Pirata… Ma è assurdo, che significa?»

    Nessuno degli ufficiali sembrava intenzionato a dare spiegazioni.

    I due marinai si sentirono immediatamente sollevati dal fatto che non erano loro l’oggetto della retata, ma il buon senso, o forse il fatto che non avevano una coscienza del tutto immacolata, gli suggerì di defilarsi, fintantoché l’attenzione delle guardie era rivolta ad altri.

    «Papà!»

    Dave si alzò dalla sedia nel momento stesso in cui l’agente McArny dava ordine ai suoi di immobilizzare il padre.

    Fu un gioco da ragazzi stringere i manichini intorno ai polsi di Steven Mitchell, ancor più per il fatto che non opponeva alcuna resistenza.

    «Stai buono, Dave!» fu tutto ciò che riuscì a dire Steven per tranquillizzare il figlio, mentre un terrore profondo cominciava a prendere forma dalla base del suo stomaco.

    «Si tratta certamente di un errore.»

    «Hai sentito il tuo vecchio?» disse una delle guardie posizionandosi tra l’arrestato e il piccolo Dave che stava già fiondandosi verso il padre.

    «Devi stare buono!» abbaiò la guardia appioppandogli un manrovescio che lo fece capitombolare a terra.

    «No! Dave!» Steven cominciò a dimenarsi nella stretta degli ufficiali, che per tutta risposta strinsero ancora di più i manichini fino a impedire il flusso del sangue oltre i polsi.

    L’ufficiale McArny sembrava impalpabilmente divertito, ma in realtà aveva segretamente sperato in una tenace resistenza all’arresto, in modo da poter giustificare un pestaggio come si deve, prima di consegnare l’arrestato ai secondini del carcere.

    Si prendono sempre loro tutto il divertimento, pensò McArny, pregustando il momento in cui avrebbe dato sfogo al suo impulso sadico.

    Dave era sconcertato.

    La guancia destra cominciava a pulsare per lo schiaffo violento, ma non era questo a turbarlo. Degli sconosciuti stavano portando via suo padre e non c’era nulla che potesse fare per impedirlo.

    Steven Mitchell pensò che per il momento, la cosa migliore che potesse fare fosse collaborare coi militari, senza opporre resistenza.

    «Papà sistemerà tutto, non avere paura!»

    Steven cercava persino di sorridere mentre guardava gli occhi di Dave già gonfi di lacrime.

    Il vecchio Yem-Ho pareva istupidito. Per tutta la durata della scena che si era svolta davanti ai suoi occhi, era rimasto impalato col pentolone rovente in mano sulla soglia della cucina. La sua preoccupazione maggiore era che i poliziotti se ne andassero alla svelta, si fossero anche portati via tutti i presenti in sala. Viste le abituali frequentazioni del suo locale, lasciare la carrozza della polizia portuale davanti al suo ingresso, non era certo il modo migliore per attirare avventori.

    La vista del padre che veniva accompagnato con la forza in strada, con tutti quegli estranei che gli lanciavano occhiatacce, come se già sapessero che era colpevole dei più nefandi crimini, materializzò in Dave un impulso irrefrenabile.

    Correndo con tutta la forza che aveva nelle gambe, si proiettò verso l’ufficiale che stringeva i polsi del padre e, strizzando gli occhi per lo sforzo, gli morse una mano serrando le piccole mascelle con una violenza tale che le ossa del palmo scricchiolarono sotto i suoi denti.

    Il poliziotto lanciò un urlo penoso e contemporaneamente gli altri ufficiali si voltarono verso di lui impugnando allarmati le lunghe pistole a luminello col dito sul grilletto, ma quando videro un moccioso appeso per i denti alla mano del loro compagno, alcuni di loro scoppiarono in una risata sgangherata.

    L’espressione del tenente McArny, invece, era tutto fuorché divertita.

    Richiamò subito gli uomini all’ordine: «Clifford!» urlò in direzione di un ufficiale. Il militare non ebbe bisogno di altre sollecitazioni. A passo svelto si fiondò sul ragazzino e gli rifilò una seconda manata in faccia, questa volta a pugno chiuso.

    «Dagli al pirata!» gridò un ragazzotto dalla folla intorno alla carovana, divertito dalla scena.

    «Accidenti, è solo un ragazzino!» Qualcuno, impietosito, osò invece prendere le difese del piccolo Dave.

    «È un criminale!» si limitò a replicare il tenente McArny, sfidando la folla intorno a sé, «Esattamente come suo padre. Se avesse l’età giusta finirebbe appeso insieme a tutti gli altri.»

    Steven Mitchell aveva fatto in tempo a vedere il figlio cadere a terra con un labbro spaccato che già cominciava a perdere fiotti di sangue.

    «Non osate!» urlò.

    La stretta intorno ai polsi aumentò fino a divenire insopportabile.

    Massaggiandosi il carpo arrossato per il morso subito, il soldato ferito nell’orgoglio, gli si avvicinò al volto, tanto che Steven poté sentire il lezzo del suo alito guasto di vino cattivo «Altrimenti che farai?»

    «Aiutatelo, vi prego…»

    Mentre Steven veniva spinto sulla carrozza, una donna, colta da un fulmineo impulso materno, si avvicinò al piccolo Dave piangente e sanguinante. Tentò di ripulirgli la ferita, ma il ragazzino si liberò subito dell’abbraccio della sconosciuta e prese a rincorrere la carrozza, già in movimento dietro la spinta di quattro enormi cavalli che protestavano per le vergate inferte dal cocchiere.

    Il manipolo di ufficiali era già salito a bordo per scortare Steven Mitchell fino al carcere. Questa volta la carrozza non procedeva a passo d’uomo. Ora che avevano catturato il prigioniero, avevano l’ordine di tradurlo immediatamente a destinazione e, a giudicare dalle frustate che vibravano sulle bestie davanti alla carrozza, non ci sarebbe voluto molto tempo.

    2.

    Dave correva a perdifiato.

    Il sole era tramontato da poco e il cielo era ancora sufficientemente chiaro da gettare una grigia luce sulla baia di Tavoy e, fino a quando la carrozza si era mantenuta sulla strada che conduceva al porto, era rimasta nella sua visuale.

    Soltanto la sera prima aveva trascorso quasi un’ora seduto sulla panca fuori dalla taverna di Yem-Ho, insieme al padre. Erano rimasti a guardare il cielo tingersi di arancione e rosa fino ad oscurarsi completamente, lasciando la baia alla mercé delle uniche fioche luci provenienti dai velieri che vi galleggiavano molli e lontani.

    Ora tutto questo non aveva alcuna importanza.

    Dave si augurava soltanto di non perdere di vista la carrozza che lasciava dietro di sé una cometa di polvere e qualche curioso che usciva dalle porticine lungo la strada, attratto dallo scampanio incessante che accompagnava il cocchio.

    Qualcuno dal bordo della strada, osservò il piccolo Dave correre dietro il carro, domandandosi per quale motivo un ragazzino sanguinante, che pareva vicino al punto di scoppiare, stesse inseguendo la polizia portuale.

    Dopo aver corso per quasi mezza lega, Dave dovette fermarsi. I polmoni bruciavano e il cuore sembrava schizzare fuori dal petto. La carrozza era ormai sparita chissà dove, ma Dave sapeva che, qualunque fosse il luogo in cui era diretta, non poteva essere molto lontano dal porto.

    Tavoy si sviluppava intorno alla baia e tutti gli esercizi commerciali, le case private dei locali, i magazzini ed anche gli edifici amministrativi inglesi, sorgevano a pochi passi l’uno dall’altro. Il problema era che la luce se ne stava andando e per le strade del porto non c’era più nessuno, fatta eccezione per qualche mendicante o marinaio che si attardava nelle vicinanze della banchina presso cui erano ancorate numerose scialuppe, in attesa di tornare a bordo del proprio vascello.

    Le sagome dei palazzi, costruiti per metà in legno e per metà in pietra, sembravano ora più che mai sinistre. Durante il giorno le pagode orientali che sovrastavano a più livelli gli edifici, erano piacevolmente colorate, ma al buio proiettavano le loro sagome nere sul cielo tenebroso e apparivano a Dave come draghi scuri e minacciosi.

    Soltanto la strada che costeggiava il porto era lastricata con mattoni regolari, per facilitare le operazioni di carico e scarico delle merci e per consentire a cavalli, buoi e altre bestie da tiro di trascinare le mercanzie fino al punto di raccolta. Oltre la strada costiera, invece, Tavoy era un dedalo di strette vie sterrate, che si arrampicavano in salita serpeggiando tra case in pietra e zone incolte in cui palme e cespugli si contendevano il poco spazio disponibile.

    Dave si guardò intorno frustrato.

    Non aveva idea di dove fosse finito suo padre e, improvvisamente, alla frustrazione subentrò la paura.

    Camminò per un’altra mezz’ora. Quando incontrava qualcuno provava a chiedergli informazioni, ma tutte le persone in cui ebbe la sfortuna di imbattersi erano birmani che non comprendevano una sola parola della sua lingua.

    Quando fu ormai esausto, sedette su una panca di pietra, non lontano dalla zona dove solo qualche giorno prima aveva passeggiato sorridente tra le bancarelle del mercato.

    Cercò di scrutare nell’oscurità il punto in cui presumibilmente doveva trovarsi il Britannia. Soltanto vederlo sarebbe stata un’iniezione di fiducia, ma era ormai troppo buio per distinguere qualcosa al di fuori di qualche debole fiaccola sulle barche lontane.

    Con le lacrime silenziose che gli solcavano le guance, si raggomitolò intorno alle ginocchia stringendosi forte la testa per la disperazione.

    Quando aprì gli occhi non aveva idea di quanto tempo fosse trascorso. L’unica certezza che aveva, era il buio, completo e avvolgente. Ora si sentiva anche infreddolito, ma non era intenzionato a tornare alla taverna senza avere notizie di suo padre.

    Perché l’hanno portato via?

    Uno degli ufficiali gli ha dato del pirata.

    Non aveva alcun senso.

    Dave Mitchell si alzò dalla panca con le gambe in preda ad un forte formicolio.

    Doveva trovare suo padre.

    Scrollandosi la stanchezza di dosso, avvertì un peso nella tasca della piccola bisaccia che aveva intorno alla vita. Ci infilò la mano dentro e la ritrasse che stringeva il coltello da intagliatore.

    «Pettycoat…» la voce uscì debole dalle labbra gonfie e coperte di sangue rappreso.

    Guardando la baia, provò l’impulso di mettersi ad urlare finché qualcuno del Britannia non l’avesse udito, ma si disse che era un’idea stupida.

    Stava ancora riflettendo sulle parole di quel McArny: «Non devo dare spiegazioni ad un pirata!» aveva detto, o qualcosa del genere.

    Ma papà non è un pirata.

    Chi mai potrebbe sostenere il contrario?

    Camminava a testa bassa senza una meta precisa, quando alle sue spalle furono appena udibili dei passi.

    Dave si voltò, ma non vide nulla all’infuori della stradicciola illuminata da una torcia che bruciava in un piccolo altare scavato in una parete di roccia di una casa, con ogni probabilità disabitata.

    Si strinse nelle spalle cercando sollievo dall’aria umida della notte.

    Di nuovo passi pesanti dietro di lui.

    Normalmente si sarebbe dato alla fuga, ma le gambe gli dolevano ancora per aver corso ininterrottamente per tutte le strade di Tavoy nelle ore precedenti.

    Si voltò di nuovo, ma ancora una volta lo spettacolo fu il medesimo: la strada pavimentata del porto che rubava un po’ di luce alle deboli torce appese qua e là per illuminare uno di quegli strani altari ornati di fiori e incensi, o una zona di attracco, o la facciata di una casa.

    Quando decise di proseguire la sua peregrinazione, svoltò l’angolo per lasciarsi alle spalle il porto.

    Fu come sbattere contro la prua di una nave.

    «Che ti prende, ragazzino?»

    L’uomo che gli si parò davanti gli fece pensare ad un galeone con gambe e braccia, tanto era vasta la sua mole.

    «Allora?» disse il gigante. «Di’ un po’… Sei forse ubriaco?»

    Istintivamente Dave afferrò il piccolo pugnale e lo strinse forte di fronte a sé.

    Non aveva la più pallida idea di quello che stava facendo, ma quel gesto non era dettato dalla ragione, quanto dagli ultimi eventi di quella notte assurda.

    Dave non aveva mai alzato un dito contro nessuno e nemmeno partecipato ad una zuffa con dei coetanei, per questo si stupì di Sé stesso quando, senza indietreggiare di fronte a quell’uomo immenso, aveva pensato addirittura di poterlo intimidire.

    Lo sconosciuto si limitò a guardarlo stupito attraverso gli occhi aperti per una fessura talmente ridotta da far pensare che stesse dormendo.

    Aveva la barba più spettacolare che Dave avesse mai visto. Era talmente lunga ed estesa da dover essere raccolta con diversi nastri colorati che la assicuravano in più punti all’enorme pastrano verde e blu che indossava.

    La fiaccola appesa sopra la porta da cui doveva essere uscito quell’uomo, illuminava i grossi bottoni dorati, disseminati sui lati delle maniche del tabarro che lo ricopriva interamente. Dall’enorme cappello che portava in testa, sgorgava una massa informe di capelli grigi che andavano ad unirsi alla barba in modo tale che non si capiva dove cominciava l’una e dove finivano gli altri.

    Il giovane deglutì avvertendo un repentino aumento del battito cardiaco.

    Bastarono pochi secondi per far capire a Dave Mitchell che un ragazzino armato di coltello non avrebbe potuto costituire una minaccia per il colosso che gli stava di fronte.

    Dal canto suo, lo sconosciuto si limitò ad emettere una risata grassa e roca quando quel moccioso brandì la sua arma con decisione.

    «Non vorrei disilluderti, ragazzino…» disse l’uomo passandogli accanto incurante del pugnale di Dave. «Sai, diversi uomini, molto più forti di te, hanno cercato di farmi la pelle in più occasioni, ma in vita mia, nessuno ha mai osato puntarmi addosso un coltello tanto insignificante.»

    L’uomo rise di nuovo tenendosi la pancia che ondeggiava da un lato all’altro, tanto era divertito da quel ridicolo affronto.

    «Non avvicinatevi…»

    La voce di Dave era tutto fuorché minacciosa e, come unico risultato, ottenne un’ulteriore risata da parte di quella pittoresca parodia di un essere umano.

    «Oh sì, starò lontano… Non cerco guai io!» disse quasi strozzandosi per via del riso sfrenato.

    Il gigante gli passò di fianco, materializzando da una piega del pastrano quella che doveva essere una bottiglia di vino riempita per un quarto e ne trasse una profonda sorsata.

    Dave osservò lo sconosciuto e la sua enorme barba sfilargli di fianco e quando ormai gli aveva dato le spalle, avvertì le ginocchia cedere inesorabilmente.

    La fatica della corsa, l’aria fredda della notte e non ultimo il sangue che aveva perso dal labbro ferito, erano uno stress troppo traumatico da sopportare per il suo giovane e gracile fisico. Semplicemente il suo corpo non era resistente quanto la sua mente.

    Con ancora il coltello nella mano sinistra, Dave cadde a terra con un tonfo sordo.

    3.

    Le carceri della Procura del Governatorato di Birmania, prossima colonia del vasto impero britannico, si trovavano all’interno dell’edificio del tribunale.

    Il Governatore Weylon McArny era plenipotenziario della provincia: decideva in merito a questioni cruciali relative ai tributi che la comunità versava regolarmente nelle casse della madrepatria ed era a capo del consiglio di sicurezza che deliberava sulle spese per la difesa militare dello scalo di Tavoy. Era, inoltre, responsabile dell’allocamento delle risorse economiche necessarie agli impianti agricoli in tutta la provincia. In pratica sostituiva in tutto e per tutto la figura di Sua Maestà Re Giorgio II.

    Naturalmente era anche al vertice della magistratura inquirente di quella che ormai tutti si erano abituati a chiamare colonia.

    Il trasporto di Steve Mitchell dalla locanda del vecchio Yem-Ho fino alle carceri del tribunale non richiese più di venti minuti.

    L’edificio della Procura sorgeva in cima ad una collina che dominava la baia. Il Governatore McArny aveva scelto quel palazzo medievale come propria dimora.

    Non aveva elementi in comune ai castelli inglesi del quindicesimo o del sedicesimo secolo che il Governatore era solito occupare quando ancora ricopriva cariche pubbliche in Inghilterra.

    In effetti non aveva nulla che neanche lontanamente ricordasse l’architettura inglese. Era piuttosto un confuso complesso di edifici a cui, nell’arco dei secoli, erano stati aggiunti disordinatamente piani, livelli, stanze e androni, senza tenere in minima considerazione l’aspetto estetico.

    Era arroccato sulla collina in modo da occupare un punto strategicamente difendibile e, al tempo stesso, tale da dominare l’intera laguna.

    Durante il viaggio, Steven era rimasto seduto silenzioso nella scomoda carrozza.

    Era assalito da miriadi di preoccupazioni e paure.

    Non appena si concentrava su una di queste, subito ne sorgeva una nuova più amara della precedente.

    Che cosa diavolo stava accadendo?

    Quanto tempo ci sarebbe voluto perché finisse quell’incubo?

    Che ne era di Dave?

    Le guardie si limitavano a sghignazzare tra loro. Steven riconobbe l’accento tipico della contea del Sussex dalla parlata di uno dei poliziotti. Con ogni probabilità, fino a qualche mese prima, quegli stessi uomini si trovavano in Inghilterra tutti intenti ad occupare il più basso gradino della scala sociale. Steven sapeva come funzionava l’arruolamento della polizia coloniale.

    Nella maggior parte dei casi si trattava di persone abiette che avevano commesso qualche crimine minore. I giudici inglesi spesso arrivavano a formulare una proposta agli imputati: l’arruolamento nelle forze armate coloniali in cambio dell’indulto plenario. Molti manigoldi finivano nell’arma per evitare la prigione o comunque una vita di stenti in patria.

    Ora era Steven Mitchell ad essere condotto in prigione.

    Ma per quale motivo?

    Chi gli aveva teso una simile trappola?

    Quando la carrozza si fermò davanti ad un enorme cancello arrugginito, piantonato da due guardie tanto sporche quanto assonnate, Steven si impose di rilassarsi sullo schienale.

    «Chi ha formulato l’accusa?» domandò senza indirizzare le proprie parole ad un interlocutore preciso.

    Nessuno sembrò badargli.

    Quello che doveva essere il più alto in grado fece cenno ad una delle guardie al cancello di farli passare.

    Il sole era ormai un ricordo che lasciava soltanto una debole luce dietro di sé. Presto sarebbe stato buio pesto.

    Varcando quel cancello, Steven ebbe la sensazione di oltrepassare un confine. Un confine tra la vita che aveva vissuto fino a quel giorno e un futuro che non aveva alcuna prospettiva incoraggiante.

    I cavalli al traino della carrozza, sembravano contenti di essere finalmente giunti a destinazione, pregustando il momento in cui li avrebbero sganciati da quell’ammasso innaturale di ferro e legno.

    Steven pensò al suo capitano.

    Non impiegò molto a fissarsi sull’idea che in qualche modo doveva centrare il vecchio Jacobbs in quella faccenda.

    Durante le ultime settimane, a bordo del Britannia, il capitano aveva urlato quasi ininterrottamente maledicendo tutto l’equipaggio quando era sveglio e delirando quando dormiva.

    In più di un’occasione, Steven l’aveva sentito pronunciare il suo nome durante quei deliri.

    No, non poteva essere…

    La carrozza attraversò l’ingresso del tribunale.

    Presso quell’enorme edificio, di cui a stento Steven riusciva ad individuarne le forme, si aveva la percezione di penetrare all’interno del ventre di un mostro.

    Molte persone dovevano aver avuto la stessa sensazione percorrendo quelle strade.

    Ma quelli erano criminali, pensò Steven.

    Lui non aveva fatto niente di male, mai.

    Il pesante cancello si chiuse alle sue spalle.

    Il giovane McArny si era fatto più serio, sembrava piuttosto suscettibile nei confronti dell’autorità che ispirava il tribunale.

    Steven venne fatto scendere in malo modo dalla carrozza che sparì proseguendo la sua corsa in chissà quale antro del palazzo.

    «Ti consiglio di fare esattamente quello che ti si dice, Mitchell.»

    McArny fece strada camminando nei pesanti stivali di cuoio consumato. Davanti a lui due inservienti vestiti di stracci illuminavano il sentiero con le torce accese cosparse di bitume.

    «Dove mi portate?» chiese Steven con voce tremante. «Io non ho fatto niente!»

    «Hai sentito il tenente?»

    Una delle guardie gli afferrò l’avambraccio ancora piegato all’indietro nella morsa dei manichini.

    «Obbedisci, pirata!»

    La guardia che pochi minuti prima si era presa un morso da parte di Dave tossì e sputò per terra un amalgama di tabacco masticato.

    Dave…

    Steven provò l’impulso di scappare, ma sapeva che in pochi secondi i moschetti delle guardie avrebbero fatto fuoco abbattendolo.

    Si concentrò sul sentiero.

    Probabilmente McArny aveva ragione. Era meglio per lui attenersi rigorosamente agli ordini. Almeno per ora.

    Un secondo portone sovrastato da una pagoda arrugginita che faceva da architrave fu aperto dagli inservienti, rivelando dietro di sé un chiostro interno al palazzo.

    Steven osservò le pareti incrostate e fatiscenti.

    Visto dal porto, il palazzo dava un’impressione di rigore ed opulenza, ma ora Steven capì che la parte dell’edificio visibile dalla baia era soltanto quella costituita dai livelli superiori, destinati ad accogliere ricchi commercianti o importanti delegati imperiali.

    Steven valutò che doveva trovarsi nei bassifondi dell’edificio.

    A intervalli regolari poteva sentire il fragore delle onde quando si infrangevano nell’insenatura naturale che si incuneava ai piedi della scarpata sulla cui sommità sorgeva il tribunale. Dopo una vita trascorsa in mare aperto, per lui fu inevitabile pensare al fatto che la marea stava salendo.

    Mentalmente calcolò le fasi lunari dal giorno del loro arrivo a Tavoy ed ebbe la conferma che le previsioni fatte quando ancora si trovava ancorato nella baia a bordo del Britannia erano esatte.

    Si stupì di Sé stesso per essersi abbandonato ad un pensiero tanto inutile in un momento critico come quello.

    Per quasi dieci minuti percorsero corridoi, chiostri e scale che sembravano discendere fino all’inferno. Steven rinunciò al tentativo di mantenere il senso dell’orientamento. Il tragitto che seguivano sembrava fatto apposta per confondere le idee a chi fosse capitata la sventura di doverlo percorrere.

    Quando la comitiva giunse a destinazione, Steven non sapeva dove lo avessero condotto, ma avrebbe potuto scommettere di trovarsi ormai al disotto del livello del mare, tanti erano gli scalini che avevano disceso.

    4.

    Quando Dave si svegliò non aveva idea di dove si trovasse e per qualche istante si lasciò cullare da quella leggera sensazione di universale oblio.

    Nel momento in cui lentamente aprì gli occhi, si rese conto di trovarsi a bordo di una nave.

    Il Britannia…

    Qualche immagine confusa di Sé stesso che correva per le strade sconosciute di Tavoy gli si proiettò nella mente e credette così di essere stato vittima di un sogno terribile. Tale prodigio durò però soltanto una manciata di secondi.

    Questo non è affatto il Britannia…

    Destandosi completamente si sollevò dalla branda lurida su cui doveva aver trascorso le ultime ore e si guardò intorno.

    «Papà!»

    Fu la prima parola che disse camminando a piedi nudi sulle assi di legno ruvido. Parlare gli procurò un dolore al labbro inferiore e istintivamente si portò le dita sulla bocca ricordandosi immediatamente quanto era successo la notte precedente: gli uomini in divisa che erano venuti a prelevare il padre, il morso inferto alla mano della guardia, le botte ricevute in cambio e la corsa infinita nel porto di Tavoy.

    Ma c’era ancora qualcosa che gli sfuggiva.

    Esaminando la cabina in cui si trovava si rammentò finalmente di quell’uomo smisurato con barba e capelli spaventosi incontrato sul marciapiede non lontano dal porto.

    «Ehi!» urlò di nuovo lanciandosi verso la porta di legno pesante, che costituiva l’unico elemento di arredo all’interno di quella cabina che emanava odore di muffa.

    La sola risposta che giunse a confortarlo fu il rumore del rollio e del beccheggio della barca che facevano scricchiolare le vecchie assi di legno di cui era ricoperto l’intero vascello.

    Tentò di aprire la maniglia, ma la porta non si mosse di un centimetro.

    Il pensiero di essere stato rapito si materializzò nella sua mente lasciandolo inerme con la fronte poggiata alla porta.

    Per puro istinto di sopravvivenza cominciò ad urlare e a battere i pugni sulla soglia, mentre con la mano cercava di scardinarne la maniglia. «Aiutatemi!» gridò. «Fatemi uscire!»

    Le lacrime stavano già rigandogli le guance, mentre i riccioli color nocciola si agitavano dalla disperazione.

    Nella stanza non c’era nemmeno un oblò che gli rivelasse la loro posizione.

    Erano ancora a Tavoy o stavano navigando chissà dove?

    E se stavano navigando, da quanto tempo erano salpati?

    La frustrazione lo fece sentire come un topolino indifeso nelle spire di un pitone. Si sedette di nuovo sulla branda cercando di mettere ordine nei propri pensieri.

    Con la testa tra le mani poteva ancora avvertire il dolore alla mascella. Non gli era mai capitato di ricevere un pugno in vita sua, ma era certo che non se ne sarebbe scordato per un lungo periodo.

    Finalmente ebbe la sensazione di udire una voce provenire da un luogo invisibile sopra di lui.

    Dopo qualche secondo fu certo di udire un uomo esibirsi in quella che doveva essere una canzone, che rammentava però il raglio di un mulo sotto sforzo.

    In un secondo Dave fu nuovamente alla porta e prese a batterla nuovamente con tutta la sua forza.

    «Aiutatemi! Fatemi uscire, vi prego!»

    Le sue stesse urla coprivano la voce sconosciuta in avvicinamento. Quando finalmente decise di prendersi una tregua, capì che qualcuno si trovava a pochi passi dal lato opposto della soglia.

    «Non si può certo dire che ti abbiano insegnato le buone maniere, ragazzo!»

    La voce era inconfondibile. Doveva essere il gigante incontrato durante la notte.

    «Fatemi uscire, per pietà!»

    Dave afferrò la maniglia dislocandola in tutte le direzioni.

    «Accidenti a te! Tieni ferme quelle mani per un istante e ti farò uscire.»

    Sentendo queste parole, Dave si calmò allontanandosi di qualche passo dalla porta. Non aveva idea di ciò che avrebbe potuto fargli quello sconosciuto, ma di una cosa era certo: lui non avrebbe potuto fare assolutamente nulla a quell’uomo.

    Un grosso mazzo di chiavi tintinnò vicino alla toppa e un istante dopo la porta si aprì.

    Lo stipite dell’ingresso arrivava all’altezza del mento di quel gigante che, per entrare, dovette abbassarsi sulle gambe con uno sforzo non indifferente, almeno a giudicare dai gemiti che produsse in quel movimento.

    «Non uccidetemi, vi prego!» fu tutto quello che riuscì a dire il piccolo Dave di fronte a quella specie di orco.

    «Diavoli del mare e dell’inferno, questa è proprio bella, ragazzo! Ti ricordo che poche ore fa eri tu a puntarmi un coltello addosso.»

    Lo sconosciuto si mise a rovistare in una cassapanca poggiata contro una parete. Dave era talmente preso dal panico, che non si era nemmeno accorto di quel baule.

    Alla luce del giorno, che filtrava dal fasciame della barca e dalla porta spalancata, Dave dovette riconoscere che quella montagna d’uomo non era poi così minacciosa come gli era sembrata la notte precedente. Il buio e la stanchezza dovevano averlo suggestionato non poco.

    «Non mi ucciderete?»

    Il gigante si voltò verso Dave, degnandolo di uno sguardo per la prima volta.

    «Non lo farò se non me ne darai motivo, dei e diavoli…»

    «Dove mi trovo? Perché mi avete portato qui? Dov’è mio padre?»

    «Quante domande, ragazzo…»

    L’uomo si voltò reggendo due grosse damigiane. Sembrava che il solo parlare lo affaticasse.

    «Prendi questa» disse porgendo a Dave una bottiglia. «Non te la scolare tutta però…»

    Il gigante esplose in una sonora risata catarrosa.

    «Forza, andiamo di sopra. È ora di fare colazione, dei e demoni del mare!»

    Il piccolo Dave rimase impalato per una manciata di secondi, come se una mano invisibile gli avesse inchiodato i piedi nudi alle assi di legno del pavimento. Non ricordava come fosse finito a bordo di quella nave, non sapeva che intenzioni avesse il suo anfitrione, ma si rendeva conto di avere lo stomaco completamente vuoto. Se voleva riprendere la ricerca di suo padre era necessario mettere qualcosa sotto i denti. Doveva recuperare le forze spese durante la notte.

    Infilò i piedi nei suoi calzari e, facendosi coraggio, si incamminò lungo lo stretto corridoio che conduceva ad un altrettanto stretta scala, i cui gradini di legno dovevano aver sopportato il peso di un numero incalcolabile di marinai, vista la curvatura che presentavano per il carico a cui erano stati sottoposti negli anni.

    Dave si chiese quale stirpe di uomini potesse aver calcato quegli scalini. Si trattava di individui perbene, dediti al lavoro e ad un’onesta vita di mare? Oppure esseri malvagi consacrati al vizio, al furto e ad altre bassezze di cui Dave non avrebbe potuto nemmeno sospettare l’esistenza?

    Immerso in quei dubbi inforcò la scalinata scostandosi i riccioli sudati che si appiccicavano alla fronte.

    «Signore?»

    Dave cercò di individuare lo sconosciuto, ma riusciva soltanto a sentirne la voce che generava una cantilena disarmonica e stonata.

    Salendo verso il ponte, lungo la breve rampa di scale, si accorse immediatamente che quel vascello non aveva nulla in comune con il Britannia.

    Non aveva ancora messo piede sul ponte, ma ebbe subito modo di osservare il pavimento del veliero occupato da una quantità pressoché infinita di oggetti, molti dei quali indefinibili. Una vela di gabbia malamente ripiegata in un angolo che appariva usurata e del tutto inadatta ad essere montata anche su una zattera di fortuna. Diverse botti di legno vecchio, insieme ad anfore di varie dimensioni, circondavano l’albero di poppa. Sartiame vario, scotte, un paio di ancore infestate da alghe e parassiti, attrezzi per la pesca d’altura a perdita d’occhio e una quantità apparentemente incalcolabile di armi, tra cui sciabole corte, moschetti, pugnali e pistole cinesi ammassate in modo disordinato all’interno di pesanti bauli appena sufficienti a contenere metà di tutta quella robaccia.

    Dave rimase impressionato dal disordine ed al tempo stesso dalla varietà di arnesi che costituivano il caotico arredo del ponte della nave.

    Ripresosi dallo shock momentaneo, si apprestò a salire gli ultimi gradini, appena in tempo per vedere con la coda dell’occhio la figura colorata e sgraziata del gigante che spariva in direzione del castello di poppa.

    «Signore?»

    Dave cercò di attirare l’attenzione del gigante.

    «Finiscila con questa formalità, ragazzo! Chiamami Adamo.»

    Finalmente lo sconosciuto ebbe l’accortezza di presentarsi. Lo fece senza badare a Dave. Scostò rumorosamente una vecchia sedia da un banco imbandito cercando di infilare la sua enorme massa tra la stessa sedia scricchiolante al punto di cedere e il tavolo già predisposto per la colazione.

    «Adamo…?» sussurrò Dave.

    Era il nome più strano che avesse mai potuto associare ad un essere umano, ma aveva un che di piacevolmente esotico.

    «Coraggio, ragazzo! Se c’è una lezione sacrosanta da non dimenticare mai, è che quando se ne ha l’occasione, non bisogna mai rifiutare un pasto gratuito. Non c’è niente di peggio di un ventre vuoto, ricordalo.»

    Dave non se lo fece ripetere.

    Avvicinandosi al tavolo, per metà coperto dalla pergola di legno del castello di poppa, ebbe inoltre modo di constatare che la nave non si era mossa di un piede dal porto di Tavoy. Galleggiava alla fonda a mezza lega dal molo che soltanto poche ore prima aveva percorso a perdifiato.

    Accostandosi alla tavola apparecchiata, Dave pensò alle rare occasioni in cui aveva avuto modo di osservare tanto cibo sullo stesso tavolo. Di fronte ad una simile abbondanza non si sentì ancora legittimato ad accettare l’invito.

    «Posso…?» chiese con voce malferma.

    «Dacci dentro, ragazzo!»

    Il gigante, che rispondeva al nome di Adamo, stava già scarnificando a morsi la coscia di quella che un tempo doveva essere stata un’enorme faraona.

    Insieme al piatto principale non mancavano succulenti contorni di pesce. Grosse fette di spada erano adagiate su un tagliere di pietra, una zuppa fumante di tartaruga sembrava voler sfidare chiunque a non gettarvisi sopra cucchiaio alla mano e poi un vasto assortimento di frutta tropicale: kiwi, mango, papaya, ananas e avocado, tanto colorata, quanto profumata.

    Dave pensò alla ciotola di Amok-trey che da giorni costituiva l’unico pasto caldo che aveva potuto ingerire. Allontanando quel pensiero si accomodò a tavola servendosi una fetta di pesce spada, mentre avvertiva la salivazione aumentare per l’appetito.

    Bastarono pochi minuti e lo stomaco di Dave fu subito pieno. Innanzi a quel ben di dio l’appetito sembrava essersi svegliato dopo un lungo letargo e così come rapidamente si era destato, altrettanto in fretta fu placato.

    «Dimmi, ragazzo…»

    Adamo sembrava perfettamente a suo agio seduto a tavola mentre ingollava lunghi sorsi di vino da un bicchiere che poteva comodamente essere impiegato come caraffa.

    «Che cosa ci fa uno sbarbato inglese in giro per il porto di Tavoy, tutto solo e per di più con un labbro gonfio come un pallone?»

    Nella foga della colazione Dave aveva dimenticato la ferita rimediata la notte precedente.

    «Devo ritrovare mio padre!»

    Alzandosi dalla sedia si guardò intorno. La vita al porto stava tornando alla normalità quotidiana. Erano a meno di mezza lega dalla banchina, ed era facile intuire come i traffici commerciali lentamente riprendevano il loro corso, inconsapevoli dei turbamenti del giovane Dave Mitchell.

    «E dove si trova, di grazia, il tuo papà?»

    Adamo non smetteva di ingurgitare bocconi di pesce e ad ogni forchettata diversi residui delle pietanze gli cadevano sul pastrano ungendolo irrimediabilmente.

    «L’hanno preso degli uomini. Mi aiuterete a trovarlo?»

    Dave fu di nuovo in preda alla frenesia. Sentiva che non poteva perdere altro tempo a bordo di quella nave a cui non apparteneva.

    «Diavoli dell’inferno! Vuoi dire che è stato rapito?»

    Finalmente Adamo sembrò dedicare una certa attenzione a quel moccioso che pareva seriamente sul punto di buttarsi in mare per raggiungere il porto a nuoto.

    «No…» disse Dave. «L’hanno portato via. Erano degli uomini in divisa.»

    Quelle parole fecero andare di traverso un boccone di pancetta ad Adamo, che cominciò a tossire.

    «Uomini in divisa? La polizia portuale?»

    Tossendo e sputacchiando si rovesciò mezzo bicchiere di vino giù per la gola.

    Dave si preoccupò ancora di più notando la reazione stupita dell’uomo.

    «Credo di sì… Ma lui non ha fatto niente, Signore.»

    «Beh, ragazzo mio, quando finisci nelle mani di quelli là, ciò che hai fatto o non hai fatto ha poca importanza, diavoli del mare!»

    Dave fece un lungo respiro e si sporse dalla balconata del cassero. Soltanto allora gli venne in mente di cercare con lo sguardo il Britannia, la sua nave.

    «Ma dov’è?» domandò agitato, gli occhi stretti per mettere a fuoco le barche ancorate nella baia. Si spostò dal lato di dritta alla paratia opposta, ma del Britannia non vi era traccia.

    «Che ti prende, ragazzo?»

    Adamo era sinceramente stupito, al punto che posò nel piatto forchetta e coltello.

    «Il Britannia!» urlò Dave sul punto di mettersi a piangere. «Dov’è finito?»

    Per un attimo Adamo credette che il giovane che aveva di fronte fosse stato abbandonato.

    «Vedi, ragazzo…» cominciò a predicare. «Non è inusuale che giovani in gamba vengano… Ehm... Diciamo, dimenticati nei porti. Succede talvolta che…»

    Dave non gli fece terminare la frase.

    «Non sono stato dimenticato! Ero con mio padre ieri sera, alla locanda del vecchio cambogiano, e degli uomini in divisa sono venuti a portarlo via.»

    A questo punto le lacrime divennero intrattenibili.

    «Diavoli dell’inferno!»

    Adamo non era uomo adatto a consolare un bambino in lacrime.

    «Ebbene, se è come dici tu, dove pensi che l’abbiano portato?»

    Dave piangeva scoraggiato. Aveva l’impressione di non riuscire nemmeno a pensare.

    Dov’era suo padre?

    E dov’era finito il Britannia?

    «Animo… Animo, ragazzo!»

    Era tutto quello che il suo ospite fu in grado di dire per confortarlo.

    «Aiutatemi, vi prego…»

    Le parole uscirono in un sussurro dalla bocca ancora gonfia di Dave.

    Una voce gracchiante sembrò emergere direttamente dal mare, quando una figura bizzarra scavalcò a fatica il tramezzo di legno proprio alle spalle di Dave, che si era accasciato a terra, le ginocchia scoperte strette tra le piccole braccia.

    «Per ogni diavolo del mare! Che succede qui? Chi è questo calamaro?»

    Un vecchio che sembrava uscito da una nave fantasma si materializzò sul ponte a pochi passi dal tavolo della colazione.

    «Oh, diavoli

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