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Il bilancio a prova di scimmia
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Il bilancio a prova di scimmia

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About this ebook

Fate il test del “Se”:
1. se avete una “visione tolemaica” del fatturato;
2. se il bilancio per voi è poco più di un elenco di numeri in ordine sparso;
3. se “lavorofatturomanonhouneuro”;
4. se almeno una volta siete andati dal consulente e siete usciti dallo studio più confusi di prima;
5. se averne uno lo ritenete un male necessario o la malattia del secolo;
6. se pensate che uno valga l’altro;
7. se l’avete scelto perché “mifapagarepoco” (e magari lo dite pure con orgoglio);
8. se subite il fascino della sua vuota magniloquenza e intanto “nonhocapitounamazzamasuonabene”;
9. se vi siete scoperti a pensare “misembraseriovestebene” (o viceversa);
10. se, sopra ogni cosa, avete finalmente voglia di capire che piega ha preso la vostra carriera di imprenditori e continuate a non capire nulla di (o poco più) quando vi parlano di contabilità e vi sentite come nel cestello della lavatrice in modalità centrifuga, vi invito a rilassarvi, distendere la cervicale, le gambe e farmi compagnia in questo viaggio semiserio sulla gestione aziendale.
LanguageItaliano
Release dateMay 13, 2016
ISBN9786050437102
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    Il bilancio a prova di scimmia - Lorenzo Cardinale Ciccotti

    2016

    IL LIBRO

    Se avete una visione tolemaica del fatturato.

    Se il bilancio per voi è poco più che un elenco di numeri in ordine sparso.

    Se lavorofatturomanonhouneuro.

    Se almeno una volta siete andati dal commercialista e siete usciti dallo studio più confusi di prima.

    Se averne uno lo ritenete un male necessario o la malattia del secolo.

    Se pensate che uno valga l’altro.

    Se l’avete scelto perché mifapagarepoco.

    Se subite il fascino della sua vuota magniloquenza e intanto nonhocapitounamazzamasuonabene.

    Se vi siete scoperti a pensare misembraseriovestebene (o viceversa).

    Se, sopra ogni cosa, avete finalmente voglia di capire che piega ha preso la vostra carriera di imprenditori e continuate a non capire nulla di nulla (o poco più) quando vi parlano di contabilità e vi sentite come nel cestello della lavatrice in modalità centrifuga, vi invito a rilassarvi, distendere le gambe e farmi compagnia in questo viaggio semiserio sulla gestione aziendale.

    L’AUTORE

    Lorenzo Cardinale Ciccotti, romano di nascita, esercita la professione di Dottore Commercialista a Roma da oltre vent’anni. Ha insegnato, negli anni novanta, Management dello sport alla European School of Economics. Fra le sue specializzazioni si è occupato di produzioni cinematografiche e del controllo di gestione delle società di calcio professionistiche. Tennista mancato, ciclista e viaggiatore appassionato, ha scritto articoli e resoconti di viaggio in bici tra deserto tunisino e Nuova Zelanda. Con il pallino della comunicazione aziendale, si definisce fautore del pensiero divergente e degli approcci di studio alternativi. Ama gli ambienti informali e creativi proponendo una visione olistica dell’azienda.

    Il Codice

    Non avevo terminato la maturità quando mio padre mi convocò in salotto (quello buono dove non si poteva entrare se non in occasioni speciali). Il libretto nelle sue mani, che tanto assomigliavano alle mie, recitava in copertina Guida alle facoltà universitarie. In uno degli attimi più brevi della mia vita realizzai di non avere scampo. Uno strano senso di solidarietà con i ratti, alla cui fine avevo assistito più volte per mano di mia nonna armata di scopa, abilissima a chiuderli in un angolo, mi attraversò la schiena come un’onda di calore intenso. Era maggio, faceva già molto caldo ma quel pomeriggio ne fece di più. Concentrato sulla maturità, in cuor mio sentivo di aver già fatto abbastanza nel liberarmi del Liceo Scientifico al Collegio Nazareno dei padri Scolopi di Roma. Avevo sbagliato i calcoli, non avevo di certo l’istinto del commercialista. A stroncare ogni velleità di fuga verso destini alternativi, mi si parava dinanzi un radioso futuro di studente dell’affollatissima Università La Sapienza di Roma.

    Braccato dall’obbligo di scegliere, perché qualcosa dovrai pur fare, tra studiare e studiare, mi sentivo come ai piedi della Grande Piramide dopo aver scalato quella di Micerino. Ero seduto con questa stupida, inutile, pleonastica guida tra le mani che valeva la mia vita, e con le spalle neanche tanto metaforicamente al muro. Si faceva sul serio e sarebbe stato per sempre. Cambiare facoltà sarebbe stata un’onta che non avrei lavato facilmente agli occhi dei miei genitori. Per indole sono sempre stato un gran cazzaro, come si dice a Roma, ma con un ingombrante e paradossale senso del dovere pronto a fare capolino quando meno me l’aspettavo.

    Passato poco meno di un quarto d’ora, dinanzi ai miei dubbi su ogni singola facoltà mio padre ruppe gli indugi e sentenziò Farmacia!. Eureka! pensai, senza poter però esclamare quella che sarebbe stata, a titolo, avvertita come un’intollerabile presa per i fondelli. Una strana sensazione di disagio mi rendeva inerme, ma esitai solo un attimo, con la saliva azzerata e la voce flebile di chi non ha bisogno di urlare per affermare l’ovvio ma non abbiamo una farmacia né i soldi per comprarla. Fulmineo ed imprevedibile come un pallottola sparata da una realtà parallela, mio padre rintuzzò sposerai una farmacista. Uscii dal salotto con poche idee ma confuse e con la certezza che per la prima volta in quel luogo non si era consumato un evento speciale ma una scena priva di senso ma che senso alla mia vita doveva dare.

    Pochi mesi più tardi mi ritrovai seduto, sgomento e dubbioso in una subumana bolgia emiciclica chiamata aula di Economia, ripiena come un panzerotto pugliese di aspiranti tuttologi, futuri banchieri e bancari, smaniosi impiegati e commercialisti in nuce, esamisti e perdigiorno. Economia e Commercio dunque, così fai la libera professione perché col carattere che ti ritrovi non puoi fare il dipendente. Tutto bene. Mica tanto.

    Ricordo il primo giorno come fosse ora: quel senso di calore sulla schiena che fino alla convocazione nel salotto buono non avevo mai provato, divenne la norma. Si condensava come sudore freddo sotto la t-shirt rigorosamente Fruit of the Loom o John Player Special, lungo la spina dorsale, insinuandosi come un serpente pronto a sottrarmi tutte le forze.

    Mi atterriva – ma forse neanche tanto, incosciente e convinto come ero di dover fare altro nella vita – non capire la benché minima spiegazione in aula, dalla singola frase all’intero significato delle lezioni. Ero stato paracadutato in un paese straniero, behind the enemy lines, nelle pause vagavo tra i piani dell’orrenda sede di via del Castro Laurenziano cercando un codice che mi rivelasse il linguaggio di quel mondo, tra bacheche dense di appunti confusi e disordinati, piene di dati e terminologie incomprensibili. Mi sarebbe bastata una Stele di Rosetta non ambivo certo ad un dizionario bilingue. Ma era come se tutto quel cemento che componeva la struttura della facoltà mi pietrificasse. Smisi di frequentare le lezioni a dicembre. Io e l’ambiente universitario non c’eravamo piaciuti, affatto. Iniziai a studiare anarchicamente a casa, chiuso nella mia stanza come un monaco benedettino. Lessi e rilessi il libro di Microeconomia fino a saperlo recitare in aramaico a memoria e al contrario,

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