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Via da Mogadiscio
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Via da Mogadiscio

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About this ebook

Oliver Zeytt è sulle tracce dell’urna di Bagamoyo, un raro idolo Bantù, per conto dell'ONU; ma qualcosa sembra rendere inafferrabile quel manufatto. Sono i guerriglieri Al-Shabaab i suoi unici nemici, o c’è qualcun altro che dall’ombra muove le fila di un sistema più complesso, i cui i pezzi si muovono sopra una scacchiera impazzita?
Il deserto è un nemico suadente che può inebriare o uccidere. Nella sabbia Oliver scoprirà quanto è dura la lotta per conquistare il premio più ambito: la verità.
LanguageItaliano
Release dateJan 1, 2021
ISBN9786050424881
Via da Mogadiscio

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    Via da Mogadiscio - Paolo Carlo Borgonovo

    139.

    PROLOGO

    Agosto 1995

    La prua dello zodiac rimbalzava furiosa tra le onde sollevando spruzzi illuminati dal sole mattutino.

    Aveva percorso quasi tre miglia spingendo i motori al massimo, ma una volta raggiunta la giusta distanza dal bersaglio, rallentò fino ad una velocità di quattro nodi.

    La poppa del Prince K distava meno di due miglia nautiche e Yegor stimò che il seabob l’avrebbe condotto a destinazione in una decina di minuti. Sulla costa lontana individuò il complesso portuale Al-Taweelah con gli enormi tank per la desalinizzazione dell’acqua. Più a destra il trafficato terminal per container di Kizad divideva la zona turistica di Dubai dall’area industriale.

    Yegor indossò la muta di neoprene e sistemò il boccaglio del respiratore. Era un modello rebreather a circuito chiuso, che aveva preso in prestito dalla base di Little Creek in Virginia. I Navy Seal apprezzavano molto quel particolare modello perché consentiva di raggiungere profondità elevate, grazie alla possibilità di variare la percentuale di ossigeno presente nella miscela. Ma non era questa la caratteristica che aveva spinto Yegor Polakov a sottrarre il rebreather dalla base di Little Creek. Il motivo era che quel particolare modello non produceva bolle d’aria come i respiratori tradizionali.

    Dopo aver gettato l’ancora e issato due canne da pesca, a beneficio di un eventuale osservatore, si immerse nelle calde acque del Golfo Persico.

    Il seabob si stava comportando bene.

    L’unico sforzo che doveva fare per muoversi sott’acqua era tenere le mani ben salde sul manubrio del traino. Al resto avrebbe pensato il piccolo scooter subacqueo da quattro cavalli.

    Quando giunse sotto la chiglia del Prince K rimase immobile per un lungo minuto.

    Dopo essersi accertato che non vi fosse alcun movimento in superficie, si avvicinò all’attracco di poppa.

    Lo yacht dell’emiro era imponente e come Yegor aveva previsto, la chiglia offriva numerosi appigli dove poter ancorare il seabob. Dopo averlo assicurato ad un’estremità ricurva tra l’opera viva dello scafo e la deriva, regolò la spinta di emersione dello scooter subacqueo in modo che rimanesse lontano dalla chiglia ben al di sotto della linea di galleggiamento.

    Con pochi colpi di pinna si portò a poppa dove una scaletta di acciaio cromato si immergeva luccicante nell’acqua pulita.

    Yegor emerse lentamente, appena in tempo per vedere il proprietario dello yacht affacciato alla paratia del secondo ponte. Come sempre indossava l’impeccabile dishdasha e accanto a lui c’erano un uomo con polo sportiva e occhiali da sole e una donna sulla cinquantina, senza trucco e con un velo discreto che le copriva la testa.

    Non c’era ombra dei membri dell’equipaggio e Yegor immaginò che fossero occupati a servire il pranzo.

    Lentamente si issò a bordo.

    Aveva lasciato le pinne e il rebreather in un vano del seabob, così da potersi muovere agilmente, tuttavia dovette concentrarsi per non scivolare sul teak.

    Quello che cercava erano prove.

    Sapeva che a bordo si stava svolgendo un incontro clandestino che lo riguardava direttamente, ma lui era da solo contro tutti e non avrebbe potuto impedirlo in nessun modo. L’unica possibilità che aveva era mostrare al mondo la verità di quanto era successo. Soltanto così i veri responsabili avrebbero pagato per le loro colpe.

    Con il cuore che martellava nel petto attraversò un ambiente elegante arredato con un solo divano che sorgeva come un’isola verde al centro della moquette azzurra. Soltanto le finestre panoramiche, dalle quali intravvedeva la costa lontana, gli ricordarono che si trovava in mezzo al mare e non in un lussuoso appartamento.

    Yegor ebbe appena il tempo di voltarsi verso una scala a chiocciola che si avvitava verso il ponte superiore, quando una voce giunse dalla cambusa.

    Con l’agilità di un acrobata si infilò in una porta che collegava il ponte ad un vano adibito a studio, pochi istanti prima che un cameriere percorresse la scala per raggiungere il cuoco.

    Forse la fortuna era dalla sua parte.

    La scrivania era piena di carteggi e documenti che Yegor si mise a spulciare rapidamente. Con le mani tremanti li faceva scorrere uno ad uno tentando di capirci qualcosa.

    La tuta di neoprene era una vera sauna e più volte dovette detergersi il sudore che colava sugli occhi.

    Sì, pensò. Ho decisamente indovinato l’argomento del giorno.

    Da una tasca della muta sfilò un contenitore cilindrico non più grande di una scatola per mentine. Ne svitò il tappo e con un gesto rapido allungò l’altra estremità fino ad ottenerne un tubo nero di venti centimetri.

    Si prese ancora qualche minuto per esaminare i documenti, sbarazzandosi di quelli che non lo interessavano, poi ne arrotolò quasi una dozzina e li infilò nel tubo a tenuta stagna.

    Attese per altri due quattro minuti con l’orecchio incollato alla porta. Il cameriere e lo chef continuavano a parlare. Uno era inglese, l’altro indiano, sembrava ci fosse un problema su una porzione. L’ospite non voleva il pesce, ma una bistecca.

    Risolta la questione il cameriere tornò al ponte superiore.

    Era il momento di filarsela.

    Yegor camminò a passo sicuro sulla moquette, poi si fermò quando raggiunse la poppa. Si assicurò che non vi fosse nessuno affacciato alla paratia dal ponte superiore, poi si calò in acqua dalla scaletta.

    Trattenendo il fiato nuotò fino al seabob dove si affrettò a togliere dal vano il rebreather. Per lui era una nuotata elementare, ma dal suo addestramento sapeva che la tensione poteva provocare un consumo anomalo di ossigeno riducendo la resistenza in apnea.

    Sistemato il boccaglio infilò il contenitore stagno nel vano e sciolse la cima.

    Avviando la propulsione dello scooter subacqueo ebbe appena il tempo di pensare che dopotutto era stato molto più facile del previsto.

    Accadde tutto rapidamente.

    Una mano guantata gli afferrò il polso destro allontanandolo dal manubrio del seabob che reagì fermandosi all’istante.

    Yegor si voltò di scatto e quello che vide non gli piacque per nulla.

    Due sub indossavano una muta nera con tanto di balaclava, guanti e pinne. Anche loro avevano un rebreather collegato al boccaglio e la maschera nascondeva il volto, ma lo sguardo determinato oltre lo schermo di plexiglass era tutt’altro che rassicurante.

    Da dove diavolo erano sbucati?

    Uno dei due strappò il boccaglio di Yegor mentre il compagno lo assaliva alle spalle.

    In quel momento gli fu chiaro da dove fossero arrivati gli assalitori e l’errore che aveva commesso.

    Sotto la linea di galleggiamento dello yacht Yegor notò un piccolo oblò. Probabilmente avevano visto il seabob ed erano usciti ad investigare. Un vano aperto nella chiglia indicava la presenza di una camera di compressione che consentiva l’ingresso e l’uscita dal Prince K di un piccolo mezzo sottomarino per esplorare i fondali.

    Da lì erano usciti gli uomini dell’emiro, ora determinati a non lasciarsi scappare l’intruso.

    Yegor cercò di riafferrare il boccaglio, ma gli risultò impossibile perché l’uomo alle sue spalle aveva infilato le braccia sotto le sue ascelle ricongiungendo le mani dietro la nuca di Yegor; contemporaneamente aveva incrociato le gambe attorno al suo petto in una presa letale.

    Lottò come una furia e soltanto grazie alla sua stazza fisica riuscì a liberarsi del sub al quale rifilò un pugno che tuttavia non sortì l’effetto sperato per via della resistenza dell’acqua.

    Yegor cercò di afferrare il manubrio del seabob.

    Lo avrebbe pilotato verso la superficie per riprendere fiato, poi si sarebbe nuovamente immerso sperando di non essere individuato dagli uomini a bordo del Prince K.

    Il piano poteva anche funzionare, ma poco prima di aprire la manopola il sub che gli aveva strappato il boccaglio gli si parò innanzi; tra le mani aveva uno strumento che fece rabbrividire Yegor Polakov.

    Si trattava di un arbalete invert. Un fucile subacqueo simile ad una balestra che Yegor aveva avuto modo di utilizzare a Little Creek. Sapeva che la fiocina sparata da quel fucile era in grado di penetrare fino a venti centimetri la carne di un tonno di quaranta chili. La sua muta non lo avrebbe minimamente protetto.

    Senza indugiare accese il motore dello scooter subacqueo, ma l’uomo dell’emiro era un tiratore eccellente.

    L’elastico dell’arbalete scattò in un turbine di bollicine mentre la fiocina veniva scagliata verso Yegor che la osservò conficcarsi tra le costole.

    Istintivamente strappò l’arpione e una scia scarlatta lo avviluppò come uno spettro viscoso, mentre annaspava verso la superficie.

    Prima che il panico gli imprigionasse la mente, fece un lungo respiro, ma invece di incamerare ossigeno, i polmoni si riempirono d’acqua. Dimenandosi come un pesce all’amo realizzò che ad ogni respiro non faceva altro che inondare i polmoni; scalciò fino a raggiungere la superficie.

    Mentre lottava contro l’asfissia, osservò i due sub che galleggiavano a pochi metri da lui. Si limitavano ad osservarlo, calmi ed efficienti.

    La sua mano destra premeva contro il foro della muta, ma non c’era molto che potesse fare; aveva un polmone perforato e l’acqua intorno a lui era pregna del suo sangue.

    Era finita.

    L’ultima immagine che registrò era quella di un arabo vestito di bianco che lo osservava impassibile dal tramezzo del suo yacht.

    UNDICI ANNI DOPO

    1.

    Mogadiscio.

    Eppure sì, C’era stato un tempo in cui a questo nome corrispondeva una città. Un tempo in cui i pescatori si radunavano sulle sue spiagge bianche, e gli aerei di linea vi riversavano turisti da ogni angolo del mondo. Andavano laggiù per visitare uno dei maggiori centri abitati a sud dell’equatore, la perla del Corno d’Africa.

    Ora tutto questo era poco più che un ricordo. Un ricordo che tendeva a svanire nella mente delle migliaia di cittadini che preferivano lasciarsi morire lì dove erano nati, piuttosto che affrontare un viaggio durissimo, con la sola prospettiva di spegnersi lentamente in un campo profughi.

    Talib li osservava ogni giorno. Li vedeva ciondolare per le strade, sembravano fantasmi. Si trascinavano sulle strade piene di buche e polvere, alla ricerca di qualcosa da mangiare, che il più delle volte non si trovava.

    Ma per Talib, Mogadiscio non era mai stata diversa da come gli si presentava agli occhi ogni mattina: un ammasso di edifici parzialmente distrutti, muri sforacchiati dai colpi dei miliziani e dell’esercito federale e cumuli di macerie. Quelli erano ovunque.

    Mentre usciva dal faro sulla spiaggia, non dedicò nemmeno uno sguardo all’oceano che si estendeva a perdita d’occhio verso oriente. Rivolse invece qualche insulto a due ragazzini che fecero finta di non sentirlo, continuando a nuotare nudi in mezzo ai detriti fluttuanti.

    Scatole di plastica, contenitori di detersivi, vecchie scarpe logore di ogni forma e colore, qualche straccio, e persino pezzi di pneumatici. Ogni giorno il mare vomitava sulla costa un’infinità di rifiuti che si accumulava coprendo quasi interamente la spiaggia del faro.

    Talib sputò per terra, disinteressandosi dei mocciosi che giocavano tra le onde basse in mezzo a residui informi di polistirolo galleggiante.

    Con passo rapido si inoltrò nel distretto di Shangaani, deciso a raggiungere Hamarweyne, dove sperava di rimediare qualche foglia di qat.

    Trascinava rumorosamente le ciabatte, un paio di infradito di gomma gialla che aveva sfilato da un cadavere soltanto qualche settimana prima.

    Dopotutto, a lui non servivano più.

    Non gli piaceva l’idea, ma i cadaveri erano un’ottima fonte di beni primari, al punto che non era raro assistere a gruppi di persone che, più o meno civilmente, spogliavano i morti per poi abbandonarli nudi ai bordi delle strade.

    Aveva sempre disprezzato quel genere di sciacallaggio, ma di quelle ciabatte ne aveva proprio bisogno. Poi c’era stata la volta della camicia, la stessa che ora indossava. Una blusa di un verde, sbiadito, ma ben conservata. In fondo, perché avrebbe dovuto lasciare che fosse un morto ad indossarla? E poi, se non l’avesse presa lui, lo avrebbe fatto qualcun altro e allora ecco che si era inginocchiato e l’aveva sfilata dal cadavere.

    Mogadiscio era anche questo. Pura sopravvivenza.

    Talib non aveva ben chiaro il concetto di guerra, per il semplice fatto che non aveva mai conosciuto la pace. Era nato venticinque anni prima da un padre pescatore e una madre lavandaia. Era il terzo di quattro fratelli che, per quanto ne sapeva, potevano essere tutti quanti morti. I due maggiori avevano lasciato la Somalia per Nairobi quando Talib aveva solo nove anni. Si diceva che in Kenya ci fosse lavoro per i profughi somali, ma si diceva anche che venissero facilmente ridotti al rango di schiavi, costretti ai lavori più umilianti.

    Talib non aveva più avuto notizie dei suoi fratelli maggiori e suo padre non aveva mai fatto nulla per incoraggiarne il ricordo. Di fatto però, non trascorreva un singolo giorno in cui il giovane Talib non si domandasse dove fossero finiti Nadif e Labaan.

    Un giorno, un abitante del faro gli aveva rivelato che entrambi si erano arruolati tra gli Shabaab.

    All’inizio non voleva crederci. O meglio, non voleva credere che lo avessero abbandonato per una cosa tanto stupida. Ma poi si era convinto che in ogni caso non avrebbe fatto una grande differenza.

    Conosceva invece fin troppo bene la sorte toccata al suo unico fratello minore, Douye, che aveva avuto la pessima idea di mettersi a giocare con una Claymore abbandonata dall’esercito, non lontano dal vecchio edificio dell’ambasciata americana. Talib aveva quindici anni quando Douye, soltanto undicenne, si era presentato al faro agitando festosamente la mina antiuomo, senza avere la minima idea di quello che avesse tra le mani.

    La guerriglia tra i soldati del Governo Federale di Transizione e le milizie armate delle Corti Islamiche era da poco iniziata allora, e il governo non aveva avuto tempo di istruire la popolazione sulla pericolosità delle mine.

    Douye non aveva avuto nemmeno il tempo di capire quanto era accaduto e forse non aveva nemmeno sentito la voce di Moses, suo padre, mentre gli urlava di posare a terra quell’affare fatto di ferro, bulloni e plastica.

    Gli era esplosa in faccia.

    Il padre aveva osservato inorridito il corpicino dilaniato dalla deflagrazione, prima che gli altri abitanti del faro lo allontanassero, spezzando il malvagio incantesimo che teneva il suo sguardo incollato sul corpo straziato del figlio.

    Quell’episodio aveva segnato un punto di non ritorno per Talib, e ancor più per il padre che, pochi giorni dopo, aveva deciso di abbandonare definitivamente la spiaggia per trasferirsi in un piccolo negozio nel distretto di Hamarweyne.

    Talib non aveva assistito personalmente alla morte di Douye, ma spesso riviveva quel pomeriggio fatale nei suoi incubi, e c’era voluto molto tempo perché riuscisse ad esorcizzarli. Con gli anni poi, era riuscito a costruire una solida corazza intorno a sé, un guscio di indifferenza che lo proteggeva dalla desolazione di cui era spettatore quotidiano.

    La spiaggia era un luogo dove le famiglie venivano accolte con favore e il vecchio faro costruito durante l’occupazione italiana forniva un buon riparo. Da qualche giorno però, Talib non aveva più una famiglia: era diventato un cane sciolto, e i cani sciolti non erano ben visti al faro.

    Per loro c’erano altri quartieri a Mogadiscio.

    Camminava insensibile ai palazzi che minacciavano di crollare da un momento all’altro. Il motivo per cui si stava inoltrando ad Hamarweyne non era soltanto il qat. Voleva vedere il luogo in cui il padre aveva trascorso gli ultimi anni della sua vita, fino alla settimana precedente, quando il destino lo aveva condotto nel posto sbagliato al momento sbagliato.

    La morte del vecchio non lo aveva turbato particolarmente; i due si parlavano poche volte al mese, durante i fine settimana, quando si ritrovavano al mercato del pesce nella zona del porto nuovo.

    Mentre passeggiava davanti alle rovine dell’hotel Al-Uruba, ricordò come il padre era solito magnificare quell’edificio arabescato.

    «É il futuro di Mogadiscio», diceva.

    Il giovane rallentò riflettendo su quell’osservazione: se il futuro di Mogadiscio era un palazzo sventrato dai mortai, significava che la città era avviata verso il fondo di una spirale di distruzione, e presto non sarebbe rimasto nulla della capitale.

    L’arco di trionfo che celebrava Re Vittorio Emanuele III, aveva un aspetto perfettamente sintonizzato con il decadimento che lo circondava. Logorato e annerito dallo smog, pareva persino inclinarsi su un lato, ma era ancora buono per creare un po’ d’ombra, al riparo della quale oziava un drappello di soldati del Governo Federale di Transizione.

    Talib aveva ormai imparato a distinguere i soldati del GFT dalle milizie Al-Shabaab. Queste ultime erano meno attrezzate dei primi e difficilmente giravano per la città a bordo di jeep equipaggiate con vistose torrette mitragliatrici. Anche se ultimamente capitava in modo sempre più frequente di avvistare un pickup pieno di ribelli armati che sfrecciava per le strade di Mogadiscio.

    La tensione in città stava aumentando. Lo si poteva sentire dal puzzo degli scarichi dei camion del GFT, dal fetore di zolfo che rimaneva nell’aria per giorni, dopo che un palazzo veniva fatto saltare perché sospettato di essere una base Shabaab e dall’odore del disinfettante che veniva rovesciato a secchiate sui cadaveri ammassati nelle fosse comuni.

    I soldati lo ignorarono e Talib fece altrettanto. Accelerando il passo, si addentrò nel quartiere che ancora qualcuno definiva la downtown di Mogadiscio, a dispetto dello squallore che lo caratterizzava.

    Con lo sguardo fisso sui piedi impolverati nelle ciabatte gialle, giunse finalmente nei pressi del misero esercizio commerciale che, per quasi dieci anni, era stata la residenza fissa del padre, prima che rimanesse ucciso in uno scontro a fuoco tra i miliziani islamici e l’esercito governativo.

    La strada era deserta, fatta eccezione per un vecchio cane che aveva il colore della sabbia bagnata. La bestiola rizzò la coda come un’antenna quando Talib si materializzò da dietro l’angolo.

    «Che vuoi?», disse il giovane senza badarci troppo, «non ho niente da mangiare».

    E se pure ce l’avessi…

    Si rese conto che il cane se ne stava esattamente davanti all’ingresso del vecchio negozio del padre, all’inizio della strada che i locali chiamavano Janara-Daud. Fu allora che si ricordò di un pomeriggio, quando giù al porto nuovo, il vecchio aveva acquistato oltre al solito pesce, alcuni tagli di carne provenienti dagli scarti di una macelleria.

    «Non sono per me», aveva detto il padre, quasi per giustificarsi davanti allo sguardo inquisitore del figlio.

    Quella poteva essere l’ultima conversazione che i due avevano avuto, anche se Talib non ne era sicuro.

    Allungando la mano verso la maniglia, il ricordo di Douye tentò di fare breccia nella sua corazza. Per un istante, rivide sé stesso mentre giocava a calcio col fratellino nei pressi del faro. Si voltò sentendo la voce del padre che li richiamava perché non si allontanassero troppo, poi tornò a fissare la porta stringendo forte i denti fino a sentire male.

    Inevitabilmente, l’immagine del piccolo Douye gli riportò alla mente Nadif e Labaan, i suoi fratelli maggiori, dei quali conservava un ricordo il cui contorno si faceva sempre più confuso.

    Perché ve ne siete andati? Dovevamo lottare insieme…

    Così saremmo stati più forti! Saremmo stati una squadra.

    Una famiglia.

    Spinse la maniglia in avanti, scacciando quei pensieri oppressivi, ma la porta si aprì soltanto di una spanna.

    C’era qualcosa che la bloccava dall’interno.

    «Ehi, che cazzo… Dove vai?».

    Prima che riuscisse a richiuderla, con straordinaria agilità, il cane si era infilato tra il battente e lo stipite, scomparendo all’interno della bottega.

    «Che fai, shakeef?».

    Non era esattamente un nomignolo affettuoso quello con cui si era rivolto alla bestiola in somali.

    Talib si guardò alle spalle, la strada era deserta. Il cane abbaiò e dall’interno giunse un rumore di unghie che graffiavano contro il pavimento.

    Dopo pochi secondi fu in grado di spalancare la porta. Il cane aveva trascinato a morsi un pesante drappo chiazzato di macchie d’olio nel quale doveva esserci avvolto chissà che.

    «Sei stato bravo!», disse rivolto al bastardino pelle e ossa, che ora agitava la coda compiaciuto.

    Se l’edificio che lo ospitava era fatiscente, l’interno del negozio lo era ancora di più. Stando a quanto suo padre gli aveva raccontato durante le rare occasioni in cui si incontravano, doveva trattarsi di una libreria. Ma come il vecchio Moses riuscisse a vendere libri in una città fantasma come Mogadiscio, rimaneva un mistero insondabile per Talib.

    Un banco di legno separava l’ingresso da un bugigattolo posteriore, nel quale il suo nuovo amico a quattro zampe si infilò abbaiando.

    «Sembra che tu sia di casa quaggiù, è così, shakeef?». Talib scostò un tendaggio di plastica trasparente ritrovandosi oltre il bancone.

    Non era mai stato all’interno del negozio. Le poche volte che aveva accompagnato il padre dal mercato, si era limitato a salutarlo dalla strada, prima che il vecchio svanisse risucchiato oltre l’ingresso.

    Lame di luce pallida filtravano dall’esterno dando vita a particelle di polvere che turbinavano in ogni angolo, risvegliate da un silenzioso letargo.

    Il cane si materializzò di nuovo nei pressi del bancone. Ora stringeva tra i denti un piatto di ceramica sporco e sbeccato.

    «Non mi dire…».

    La voce di Talib suonava inaspettatamente baritonale a dispetto della gracilità della sua costituzione.

    «Sei un bastardo sfacciato, lo sai?». Le parole rimbombarono nel locale semivuoto.

    Nel retro del negozio era stipata una quantità sorprendente di libri. Sorprendente almeno per Talib, che non ne aveva mai visti più di cinque insieme.

    Con fare rispettoso, quasi fosse al cospetto di un altare sacrificale, si avvicinò alla piccola libreria costruita con una dozzina di assi di legno inchiodate con cura.

    Il giovane afferrò un volume a caso e con fatica ne lesse il titolo sulla costa.

    «Cerimonie Himba».

    Non trovandovi alcun interesse, si allontanò di qualche passo dalla libreria, dedicandole uno sguardo d’insieme.

    E così è questo che faceva papà.

    Altri tomi più voluminosi erano posati su un tavolo che aveva l’aria di essere scampato al relitto di un peschereccio. Doveva essere così, perché aveva notato che le gambe di legno erano per metà ammuffite, per via dell’acqua salmastra.

    Oltre ai libri vi erano diversi carteggi e documenti, alcuni rilegati, altri sparpagliati alla rinfusa. Peccato che Talib provasse un’avversione viscerale nei confronti della lettura. Fin da bambino aveva sempre trovato faticoso persino leggere un cartello stradale, e il fatto che fosse cresciuto schivando mine, sempre pronto a scappare al grido mortaio, non aveva certo alimentato il suo interesse nella cultura.

    Rinunciando ad identificare la natura dei documenti, delle mappe e dei volumi del padre, scostò nuovamente la cerata di plastica, per ritrovarsi davanti al bancone, come fosse in attesa del prossimo cliente da servire. Per qualche istante rimase inebetito a fissare la porta, finché il cane prese a mordergli l’orlo dei pantaloni e a leccargli i piedi.

    «Falla finita, we’el!», disse allontanando la bestiola senza tante cerimonie. In quel momento il suo sguardo si posò su un ampio registro adagiato in un vano sotto il bancone graffiato e chiazzato di ruggine.

    Era un grosso taccuino malconcio, con una copertina color caffè segnata dal tempo. Talib prese a sfogliarlo distrattamente. Appunti scritti a penna con una calligrafia ordinata riempivano le pagine fino alla data del venerdì precedente, il giorno in cui Moses, suo padre, si era ritrovato dalla parte sbagliata di un fucile automatico.

    Il giovane deglutì a disagio mentre scorreva le pagine bianche, quando il suo sguardo cadde su un appunto segnato nella pagina del mercoledì successivo.

    Talib si concentrò e poi lesse ad alta voce «Ji… Jib… Jibril».

    Una sola parola che non gli diceva nulla, ma c’era qualcosa di grave in quell’appunto, forse perché era scritto con una penna rossa a differenza del resto delle annotazioni.

    Tornò a fissare pensieroso l’ingresso del negozio. Cosa poteva significare quella nota? Poteva essere il titolo di un libro che qualcuno aveva richiesto al padre, oppure il nome di un cliente.

    Come spesso accadeva, il giovane si perse nei suoi pensieri, apparentemente concentrato, ma di fatto vittima di una forma di monomania che poteva immobilizzarlo per decine di minuti intorno ad un unico concetto, finché questo non appariva completamente spogliato di ogni significato logico. Quando accadeva, i muscoli del suo viso si rilassavano, le labbra si imbronciavano e il suo sguardo diventava liquido, privo di qualsiasi intelligenza.

    Non aveva idea di quanto tempo fosse trascorso quando il cane aveva cominciato ad abbaiare, ridestandolo da quella catalessi nella quale il giovane si era lasciato risucchiare ancora una volta.

    «Si può sapere che ti prende?», domandò, intimamente grato che la bestiola lo avesse riportato alla realtà, come se gli avesse lanciato un salvagente nell’ultimo secondo utile prima di affogare.

    Il cane ringhiava e afferrava con le fauci la cerata sporca nei pressi dell’ingresso.

    «Che stai facendo?».

    Talib si avvicinò per rimuovere il drappo lercio.

    «Tu guarda che cazzo…».

    La cerata ricopriva un grosso baule verde. Sul coperchio spiccava una scritta bianca e inconfondibile: Jibril, la stessa della nota nel registro.

    «Lascia fare a me!», disse al cane che inclinò la testa dubbioso, la lingua a penzoloni e le orecchie tese come due pennoni.

    Talib scomparve nel retro della bottega e quando tornò all’ingresso stringeva una grossa chiave inglese.

    Dopo aver forzato la serratura e aperto il baule, avvertì un tuffo al cuore.

    Era perfettamente in grado di distinguere un M16, da un M60, o una flashbang da una granata a frammentazione soltanto dal rumore che producevano. Erano questi i suoni della sua infanzia, la musica della sua vita quotidiana.

    Automat Kalašnikova Obrazca: il più famoso e temuto fucile d’assalto del mondo, progettato da Michail Kalašnikov nel 1947, tristemente noto come AK47: Talib ne contò una dozzina con gli occhi sgranati che quasi schizzavano dalle orbite.

    Istintivamente si avvicinò alla porta d’ingresso ed ispezionò entrambi i lati della strada.

    Nessuno.

    Il cane lo seguiva ad ogni passo e, come se avesse colto lo stupore e l’agitazione di Talib, aveva smesso di abbaiare, limitandosi a scodinzolare poco convinto.

    « Guss weine…».

    Cazzo…

    Fu tutto quello che riuscì a dire Talib, dopo essersi chiuso la porta alle spalle.

    Il primo pensiero fu di sbarazzarsi delle armi, ma aveva ancora davanti agli occhi la camionetta dell’Esercito Federale parcheggiata presso l’arco del trionfo e conosceva fin troppo bene il trattamento che il GFT riservava ai ribelli.

    Era troppo pericoloso. Avrebbero potuto arrestarlo e Talib non aveva alcuna intenzione di correre un simile rischio.

    Sedette sulla poltrona zoppa oltre il bancone, cercando di riordinare i pensieri.

    Per quale motivo c’è un fottuto arsenale sul pavimento del negozio di mio padre?

    Forse il vecchio non aveva nulla a che fare con quei fucili, ma soltanto guardarli lo metteva tremendamente a disagio. Nel baule c’era anche un lanciagranate a spalla.

    Aveva visto i danni che poteva infliggere un RPG e non era uno spettacolo al qual avrebbe voluto assistere una seconda volta.

    Rialzandosi, asciugò il sudore che gli colava sul collo. Portò le mani alla testa espirando rumorosamente.

    Aveva bisogno di pensare e, paradossalmente, il silenzio che regnava all’interno del negozio gli impediva di concentrarsi. Aprì rapidamente la porta d’ingresso e fu di nuovo in mezzo alla strada. Il cane lo seguì per una decina di metri abbaiando, ma la bestiola sembrava intenzionata a non abbandonare il luogo in cui Talib l’aveva trovata.

    Stupido cane.

    Non sarò io a farmi arrestare.

    Con le mani che ancora tremavano per l’ansia, percorse a grandi falcate Janara-Daud che collegava il distretto di Hamarweyne a quello di Shangaani.

    2.

    Era ormai pomeriggio inoltrato.

    Finalmente la calura soffocante concedeva un po’ di tregua.

    Qualche abitante del quartiere usciva da un edificio pericolante, un gigante di cemento, da tempo privo del vetro alle finestre per non parlare della corrente elettrica, una vera rarità.

    I fantasmi di Mogadiscio sedevano all’ombra, semplicemente aspettando che le ore trascorressero.

    Qualcuno si riuniva intorno ad un tavolino di plastica, dove diverse sedie spaiate accoglievano un gruppo di anziani che si sfidavano a ladu, un vecchio passatempo che si giocava con carte e fagioli colorati.

    «Talib!».

    La voce giunse da un angolo tra la via del faro e la Main Street.

    Il ragazzo si paralizzò come se gli avessero puntato un’arma in mezzo agi occhi.

    «Dove vai, ashiri?». Talib riconobbe la voce familiare di Bikila ed il suo personalissimo slang. Un miscuglio male assortito di somali, inglese e swahili.

    «Faccio un giro, Bikila», rispose Talib, mal celando il suo stato di agitazione.

    «E allora?», indagò il compagno di sventura, allacciandogli le spalle magre con un braccio. «Hai forse visto un fantasma? Non sono un fantasma ashiri, sono io…».

    Talib scostò il braccio dell’amico. Lo conosceva ormai da un paio d’anni, ed era diventato un punto di riferimento per lui, e proprio per questo non sopportava di essere trattato con sufficienza.

    «Lasciami, Bikila! Ho da fare».

    «Ehi! È così che tratti gli amici, Talib?». Bikila lo osservò allontanarsi a metà tra l’offeso e l’incredulo. «Non vuoi nemmeno vedere che cos’ha da offrirti il tuo buon amico?».

    A queste parole, Talib si fermò in mezzo alla strada e, voltatosi, concesse un ampio sorriso al compagno.

    «Ora ti riconosco: sei Talib, il mio ashiri!».

    «Quanto ne hai?», chiese Talib.

    Bikila finse di guardarsi le spalle, ma il gruppo di anziani era tutto concentrato nel gioco e non si curava per nulla dei due giovani in mezzo alla strada polverosa.

    «Ti sembra abbastanza?», tolse da una tasca dei jeans un sacchetto trasparente pieno di foglie di qat.

    « Guss weine! Dove cazzo lo trovi, me lo vuoi dire?».

    «Niente da fare», rispose Bikila. Era visibilmente compiaciuto per aver impressionato ancora una volta Talib.

    «Andiamo», disse posando il braccio sulle spalle dell’amico. Era un gesto che a Talib non piaceva, perché gli sembrava che palesasse una sorta di sottomissione nei confronti di Bikila, che di fatto era più alto, più muscoloso e persino più bello di lui. Ma lo lasciò fare.

    Talib e Bikila avevano un rifugio che chiamavano il buco. Un sotterraneo dismesso con un lato aperto, una rimessa per barche che sorgeva presso il vecchio hotel Al-Uruba, ormai fatiscente. Avevano trascorso più di una notte là sotto, dove talvolta l’umidità era talmente intensa che ti faceva scricchiolare le ossa.

    Da quando si erano conosciuti erano divenuti inseparabili.

    Talib non aveva nessuno e per lui fu naturale attaccarsi all’unica persona che sembrava mostrare un briciolo di interesse per la sua sorte. Spesso litigavano, per lo più per sciocchezze, ma Talib non poteva fare a meno di vedere in Bikila una proiezione dei sui fratelli maggiori.

    Bikila era sbucato dal nulla. Si era presentato al faro una mattina insieme ad altre persone, alcune delle quali armate. Aveva chiesto a Talib quanti uomini, quante donne e bambini vivessero là dentro e li aveva voluti vedere uno ad uno. Talib non si era chiesto il motivo di un tale interesse e non aveva chiesto altro a Bikila.

    Quando giunsero nei pressi del buco, si accertarono che non vi fossero militari nei paraggi.

    Bikila era perfettamente a suo agio tra le rovine dell’hotel.

    Le mura sotto le arcate avevano visto in passato facoltosi turisti sciamare sorridenti verso l’ampia piscina. Ora l’intonaco cadeva a pezzi e la vasca maggiore era corrosa dalla muffa.

    «Davvero, dove lo trovi il qat tanto facilmente?».

    Capitava con frequenza sempre maggiore che Bikila sparisse per intere settimane, e quando riappariva nel quartiere, era sempre sorridente e aveva spesso qualche abito nuovo. Niente di speciale, ma Talib lo aveva notato e sapeva che non era abitudine del compagno spogliare i cadaveri.

    Bikila si fece serio per un istante e osservò l’amico assumendo l’aria composta di un usciere, mentre apriva una porta scardinata per farlo entrare nello stabile.

    «Ho le mie fonti».

    Talib era stanco di questa risposta e lo manifestò sbuffando.

    I due proseguirono attraverso le cucine dell’hotel, finché raggiunsero la vecchia rimessa, che durante gli anni d’oro dell’hotel Al-Uruba, fungeva da bacino di carenaggio per piccoli natanti.

    Senza aggiungere altro, Bikila estrasse dalla tasca quattro grosse foglie di qat.

    «Questa roba arriva dall’Oman», spiegò arrotolando le foglie. «Non è quella merda che vendono giù al porto».

    Tutti masticavano qat a Mogadiscio. Era una droga vegetale che provocava uno stato di confuso benessere, consentendo di sopportare la fatica e i morsi della fame. Le foglie appena colte erano una vera rarità, perché le piante crescevano ad una certa altitudine e quelle che giravano in città arrivavano da lontano, quindi quasi sempre rinsecchite e disidratate.

    «Perché non lo mastichi come fanno tutti?», chiese Talib scrostando un pezzo di intonaco dalla parete umida.

    Bikila emise uno sbuffo di fumo assaporando il gusto delle foglie arrotolate.

    «Vuoi scherzare? Non voglio ridurmi come il vecchio Ashad!».

    Ashad era un pescatore che viveva al faro. A furia di masticare qat si era deformato le guance, perché trascorreva ore schiacciando la pasta vegetale tra la lingua e le gote.

    Talib scoppiò a ridere mentre Bikila gli passava la cicca accesa.

    «Sarebbe capace di masticare per una settimana!», disse Talib espirando.

    «L’ultima volta che ho visto quel shakeef, aveva in bocca una fottuta palla da bowling, lo giuro! L’ho visto coi miei occhi!».

    I due risero di gusto, dopodiché sedettero per terra, le spalle contro il muro.

    «Visto da quaggiù sembra persino pulito».

    Talib si riferiva all’oceano che riuscivano ad intravvedere oltre il soffitto basso della rimessa.

    «Niente è ciò che sembra, in questo buco», sentenziò Bikila.

    «Che vuoi dire?», indagò Talib.

    Bikila parve non aver sentito.

    «Quando hai intenzione di aprire gli occhi, Talib?».

    I due sedevano l’uno accanto all’altro, così simili, ma così diversi. Entrambi avevano la pelle color ebano, ma Talib era secco come un chiodo e aveva le spalle curve, come se qualcuno ci avesse posato sopra un macigno. Bikila, pur condividendo la sua miseria, aveva un aspetto decisamente più dignitoso. Era questo che aveva sempre pensato Talib: era come se il suo amico sapesse che tutto quello schifo sarebbe finito da un giorno all’altro.

    «Sto parlando di quello che succede ogni giorno in questo posto di merda, Talib. Cazzo… La città sta morendo». Bikila si alzò in piedi e osservò il mare voltando le spalle all’amico. «Vuoi morire con la città?».

    «Non ci penso proprio», rispose poco convinto. «Che cosa dovrei fare?».

    Improvvisamente l’immagine del baule con le armi sul pavimento del negozio del padre si materializzò nella sua mente, ma non era sicuro di volerne parlare con Bikila. Non subito, almeno.

    «Guardati, Talib…», disse l’amico, «trascorri le giornate scappando e…».

    «Io non scappo da un cazzo di niente», lo interruppe offeso.

    «Ah, no? Perché non la fai finita una buona volta e te ne vai? Dopotutto l’hanno già fatto i tuoi fratelli. Almeno quelli che hanno fatto in tempo». Bikila sondò il compagno studiandone la reazione.

    Talib cominciò a respirare affannosamente, lo sguardo basso verso le ciabatte gialle che gli davano un aspetto ridicolo.

    «Dove le hai prese quelle?», chiese Bikila accorgendosi soltanto allora dei calzari che stonavano così tanto nella figura dell’amico.

    Talib ritrasse i piedi per la vergogna.

    Bikila scosse la testa. «Te lo chiedo di nuovo, Talib: quando hai intenzione di aprire gli occhi?».

    Il fumo uscì in una nuvola azzurra dalla bocca di Talib.

    «Me lo dici di che cazzo parli?».

    «È ora che prendi una decisione, Talib. Io l’ho fatto e credimi, è la cosa giusta».

    Talib aveva una vaga idea di quello a cui si riferiva l’amico, ma voleva sentirglielo dire esplicitamente.

    «Sto parlando di prendere una posizione. Di smetterla di essere una fottuta pedina che si lascia muovere da una parte all’altra».

    «Una pedina?».

    Bikila strinse la sigaretta di qat e ne aspirò una profonda boccata.

    «Hai una vaga idea di quello che succede a Mogadiscio, Talib?»

    «Smettila di girarci intorno», sbottò il giovane, «non sono stupido».

    Bikila lo guardò sorpreso dalla sua reazione.

    «E bravo Talib…», disse sbuffando il fumo nella sua direzione.

    «Sei uno di loro?».

    Bikila sedette in fianco all’amico portando le ginocchia contro il petto.

    «Talib…», si passò una mano sulla testa rasata. «Chi ha ucciso Douye?».

    Talib non si aspettava una simile uscita.

    «È stato un incidente», rispose, il petto aveva ripreso a gonfiarsi e sgonfiarsi nervosamente.

    «Incidente un cazzo». Bikila si alzò di nuovo in piedi e si allontanò di qualche passo. Appoggiò entrambe le mani sullo scafo legnoso di una vecchia barca che giaceva inclinata sul pavimento sporco di terra e sabbia.

    «È stato il GFT, Talib. Il Governo ha ucciso tuo fratello! Che Allah guidi quei cani nelle braccia di Iblis!».

    «Stronzate. Lo sai che il GFT non piazza ordigni. Sono i ribelli a farlo, e tu ora stai con loro».

    «Perché ti fermi solo alle apparenze? Quando imparerai ad andare più a fondo della superficie?».

    Talib non rispose, si limitò a rifiutare la cicca quasi terminata dalla quale Bikila ricavò un'ultima tirata prima di gettarla a terra.

    «Non ha alcuna importanza chi abbia piazzato quella mina, devi chiederti perché lo ha fatto», disse Bikila.

    «Per ammazzare i soldati, per quale altro motivo?».

    «Ammesso che sia così, perché vogliamo uccidere i soldati?».

    «Allora è vero, sei uno di loro».

    «Rispondi, Talib. Perché?».

    Il giovane alzò le spalle.

    «Lo vedi: non vuoi aprire gli occhi. Sei solo un ragazzino, Talib». Bikila scosse la testa deluso.

    «Ho trovato una cosa», disse Talib dopo una lunga pausa.

    I due erano rimasti parecchi minuti in silenzio a godersi l’effetto anestetizzante del qat.

    Bikila sembrava non ascoltarlo, osservava il mare, le braccia conserte sul petto.

    « Guss weine… Cazzo…», farfugliò, «ce ne dobbiamo andare!».

    «Che c’è?».

    «Guardie».

    Talib si alzò in piedi, in tempo per osservare quattro uomini in divisa che scendevano da un pickup bianco privo di insegne. Senza fiatare, i due ripercorsero la strada a ritroso attraverso le cucine. Quando furono di nuovo in strada, Bikila afferrò entrambe le spalle di Talib.

    «Non una parola, intesi?».

    Talib osservò lo sguardo serio dell’amico.

    «Sei il mio ashiri, Bikila».

    «E tu il mio, Talib».

    «Quando ci rivediamo?»

    Bikila sembrò riflettere. «Domani. Che domande…».

    «Ti mostrerò una cosa», disse Talib, ma Bikila gli aveva già voltato le spalle.

    3.

    Quando fece ritorno alla spiaggia, l’ombra del faro si allungava ben oltre la battigia.

    I pochi pescatori che ancora gettavano le nasse nella baia armeggiavano con le reti, lanciando fischi e richiami dalle lance beccheggianti.

    La voce del muezzin, distorta dal megafono, annunciava da lontano l’inizio della Isha, la preghiera della sera, mentre un ragazzino chiassoso era occupato a rincorrere una palla fatta di stracci arrotolati insieme con lo spago.

    Talib aveva la mente narcotizzata dal qat.

    La droga gli aveva indotto uno stato di indolenza che lo rendeva insensibile allo squallore del luogo in cui viveva. Soltanto in quella condizione riusciva ad entrare nel faro senza notare i muri che si sgretolavano e l’odore dell’acqua putrida che filtrava dal pavimento.

    Senza rispondere al saluto di Emad, un venditore ambulante amico del suo defunto padre, Talib salì sulla precaria scala a chiocciola in muratura, che si avvitava per quattro piani fino alla cima.

    Prima di trasferirsi al faro, i genitori di Talib possedevano una casa nel distretto di Shangaani, ma durante la guerra degli anni novanta si erano trasferiti a nord, nel Somaliland da una sorella della madre. Dopo il ritiro delle truppe etiopi erano tornati a Mogadiscio e della loro casa non era rimasta che una catasta di macerie.

    Da allora si erano trasferiti al faro insieme ad altre famiglie del quartiere.

    La vita non era mai stata facile per via della continua instabilità causata dagli scontri tra le fazioni opposte e tra le diverse etnie che abitavano a Mogadiscio. La morte della madre e di Douye e la partenza dei fratelli maggiori avevano poi contribuito ad inasprire un’esistenza già crudele. Tuttavia fino al giorno della morte del padre, le giornate erano trascorse con ciclica indolenza.

    Talib si sentiva come un cane randagio alla costante ricerca di qualcosa da buttare nello stomaco. Evitava il contatto con i suoi simili, tranne con Bikila.

    Dopo la morte del padre però, aveva cominciato ad avvertire una certa tensione nell’aria ogni volta che incrociava lo sguardo con uno degli abitanti del faro. Era come se stessero decidendo quando sarebbe stato il momento di affrontare un argomento spinoso e Talib sapeva che quel momento non avrebbe tardato ad arrivare.

    Quello che però non sospettava, era che sarebbe giunto maledettamente presto.

    Emad raggiunse il terzo piano, dove Talib giaceva sdraiato su un materasso ingiallito e rappezzato con brandelli di stoffa recuperati da chissà dove. L’unica finestra della stanza, se così si poteva definire, era una minuscola fenditura dalla quale filtrava debole la luce della sera.

    «Ti hanno mandato gli altri?», chiese Talib senza dedicare troppa attenzione al nuovo arrivato.

    Emad era spaventosamente magro. Aveva quarantadue anni, ma ne dimostrava almeno una dozzina di più.

    «Conosci come funziona questo posto, Talib».

    Il giovane ripensò al giorno in cui era stato accolto al faro insieme alla sua famiglia. La madre era già morta da qualche mese, vittima di un’infiammazione alla tiroide che l’aveva stroncata al ritorno dal loro soggiorno nel Puntland.

    «Quando sei venuto qui, insieme a tuo padre e il piccolo Douye, altri che si trovavano nella situazione in cui ti trovi ora tu stesso, hanno accettato le regole». Emad sedette su un angolo del materasso e accese la lampada elettrica che illuminò l’ambiente con un sottile ronzio.

    Talib se ne stava immobile ascoltando le parole di Emad. Sapeva che il suo coinquilino era ambasciatore di un messaggio che avrebbe rinunciato volentieri a portare, ma non riuscì a reprimere un moto di risentimento.

    «Dove dovrei andare?», sbottò il giovane, la fronte corrugata per lo sdegno. «Volete che me ne vada, vero?».

    «Talib…».

    «Potevate almeno darmi qualche giorno, vi pare? Per Allah, mio padre è morto la settimana scorsa».

    «Non devi farlo subito», disse Emad, trafficando con una sveglia di plastica che si rifiutava di camminare.

    «Me ne andrò domattina, ma ogni volta che sentirete un’esplosione, vi domanderete se sarò saltato in aria anch’io». Talib sapeva che al piano di sotto, così pure come a quello sopra, tutte le orecchie erano in ascolto.

    «Non dire così, Talib».

    «Lo dico eccome, invece».

    «Hai visto quante famiglie ci sono qui fuori?», Emad parlava lentamente, sapeva che Talib non era un cattivo ragazzo. Il suo era solo uno sfogo dovuto alla frustrazione.

    «Non è necessario che tu vada via dal quartiere. Rimani qui alla spiaggia, è il posto più sicuro a Mogadiscio».

    «Non me ne importa nulla». La voce di Talib si era incrinata nel momento stesso in cui gli occhi avevano preso ad inumidirsi contro la sua volontà. Non voleva che Emad lo vedesse piangere e si voltò premendo la faccia nel materasso che emanava un olezzo stantio. Un odore che, suo malgrado, aveva persino apprezzato in passato, perché quando lo sentiva, significava che si trovava con la sua famiglia, al sicuro, a casa.

    «Pregheremo perché Allah misericordioso vegli su di te».

    Sul volto dell’ambulante le rughe parvero accentuarsi quando lasciò da solo il giovane Talib, immobile nella sua desolazione.

    Non fu una notte piacevole.

    Quando riaprì gli occhi, constatò di trovarsi nella medesima posizione assunta nel momento in cui li aveva chiusi. Le braccia erano due puntaspilli, e il sangue sembrava rifiutarsi di defluire verso le estremità, come melassa nelle vene.

    Sbadigliando si avvicinò alla feritoia, dove massaggiò gli occhi dolenti per la luce intensa che filtrava dall’esterno.

    Aveva un solo pensiero in testa: voleva tornare al negozio del padre per risolvere il mistero del baule con le armi. Pensava che la soluzione si trovasse nascosta all’interno della bottega e ora, con la luce del giorno, l’idea di essere sfrattato appariva meno opprimente della sera precedente.

    Gli bastarono pochi secondi per raccogliere le sue cose. In un sacchetto di plastica infilò un berretto scolorito dei Boston Red Sox, una pipa di ceramica con la quale era solito fumare il qat e il vecchio quaderno da disegno di Douye, sulle cui pagine erano incollate alcune fotografie scattate anni prima a Berbera con la Polaroid di zia Naiwa.

    Sperava di potersene andare senza vedere nessuno. Voleva che i suoi vicini si sentissero in colpa almeno un pochino e, dato che nessuno di loro sapeva che in realtà aveva un posto dove dormire, sarebbe certamente andata così.

    Aveva quasi abbandonato la spiaggia, quando dietro il muretto di mattoni che separava la strada dal litorale, si materializzò Nabiya, una vecchia signora che Talib aveva sempre visto con almeno due bambini in braccio. Indossava una lunga abaya scura e portava un velo sul capo, secondo l’usanza mussulmana, ma aveva il volto scoperto. Alla vista di Talib, posò a terra i bambini che rimasero inebetiti ad osservare la madre che abbracciava piangendo il ragazzo.

    Talib ne avrebbe fatto volentieri a meno, ma Nabiya era una vecchia amica di sua madre e non poteva sottrarsi al suo abbraccio. La donna aveva però cominciato ad inveire contro il GFT e a percuotersi il petto invocando la clemenza di Allah perché tornasse a posare il suo sguardo benevolo su di loro. In pochi minuti, si era formato un capannello di curiosi che dalla spiaggia si erano avvicinati al faro.

    «Ora calmati, Nabiya. Se fai così ti sentiranno i soldati…» diceva Talib per ammansire la donna che piangeva e gridava. Di fatto il giovane era preoccupato per lo spettacolo che stavano offrendo, piuttosto che dei soldati. Tuttavia non poté evitare che tutti gli abitanti del faro si riunissero in quello che si era trasformato in un saluto formale al giovane Talib, che rinunciava alla sua casa per consentire ad una famiglia di profughi di occupare il suo giaciglio.

    Emad giunse correndo e quando Talib lo vide reggere una grossa cesta di vivande non voleva credere ai suoi occhi.

    Intorno alla piccola folla si erano aggiunti diversi ragazzini che ridevano divertiti alle spalle di Talib, soffocato dagli abbracci, dalle pacche, dai volti in lacrime e dalle benedizioni delle donne. Il padre della famiglia di profughi, nuovo inquilino del faro, si avvicinò al ragazzo e gli riempì le tasche di foglie di qat, dono che Talib apprezzò particolarmente.

    Mentre cercava di divincolarsi dal gruppo avvistò Bikila, che svettava come un totem in mezzo a ragazzini che stringevano fucili giocattolo. Era come sempre sorridente e indossava un paio di occhiali da sole a goccia con la montatura di metallo dorato.

    Una volta terminati i salamelecchi dei vicini, Talib si avvicinò scuro in volto.

    «Non è andata così male», disse Bikila accennando alla cesta che Talib reggeva.

    «Non fare lo stronzo».

    «E perché no?». Bikila afferrò un dattero dalla cesta e prese a sbucciarlo, «sei l’eroe della giornata».

    «Falla finita».

    Bikila soffocò una risata.

    «Allora, dove te ne andrai, ashiri?».

    Talib rimase in silenzio, lo sguardo serio mentre stringeva il sacchetto che conteneva i suoi averi.

    «C’è una cosa che voglio mostrarti».

    «Accidenti, Talib. Se non ti conoscessi, direi che è una cosa seria».

    «Lo è, cazzo. È una cosa maledettamente seria!».

    «E va bene, ashiri. Di che si tratta?».

    «Non qui», rispose Talib guardandosi intorno.

    «Non qui?», ripeté Bikila scimmiottando l’amico che studiava la strada come se un nemico invisibile fosse pronto a sorprenderli dietro l’angolo.

    «Hai ragione, Talib. Quella capra spelacchiata potrebbe essere un agente governativo travestito che…».

    «Va all’inferno».

    «E va bene, hai vinto! Hai vinto…», disse Bikila ridendo. «Posso almeno sapere dove siamo diretti?».

    «Il negozio di mio padre».

    «Oh, quello è un buon posto dove stare. E com’è? Ci sei già stato?».

    «Ci sono stato. Ma non so ancora se è un posto sicuro».

    «È la strada ad essere pericolosa. Perché non è sicuro?».

    «Quante domande, ti ho detto che c’è una cosa che voglio mostrarti, porta pazienza fino a quando saremo arrivati».

    Bikila non parlò più finché i due oltrepassarono l’ingresso del buco presso l’hotel Al-Uruba e si inoltrarono nel distretto di Hamarweyne.

    Lo scenario di devastazione in cui erano immersi avrebbe sconvolto chiunque, ma non Bikila e Talib, abituati a convivere con la tensione e la paura che ogni mattina, potesse essere l’ultima volta in cui vedevano sorgere il sole.

    Sulla Main Street un lustrascarpe attendeva che qualcuno si materializzasse, magari un gaalo che sganciasse un paio di dollari. Ma dopo il ritiro delle truppe etiopi e del personale ONU, anche i giornalisti stavano diventando merce rara. Gli unici gaalo, i bianchi, che per qualche motivo ancora si recavano in città, stavano nella zona nord, vicino all’aeroporto.

    «Dammi quella cesta», disse Bikila offrendosi di portarla.

    «Non è pesante», mentì Talib, rifiutando l’aiuto dell’amico.

    «Come vuoi». Bikila afferrò un frutto di platano, e prese a giocarci facendolo volteggiare in aria.

    «Dove se ne vanno quelli?» Talib indicò col capo una processione di persone che avanzava tagliando trasversalmente la Main. Uomini e donne che esibivano veli di ogni colore e ragazzini seminudi. C’erano anche diversi soldati in divisa mimetica che imbracciavano fucili d’assalto. Sembravano scortare i civili guidandoli per le strade.

    «All’aeroporto», rispose Bikila sollevando gli occhiali da sole sulla fronte.

    «Cosa ci vanno a fare all’aeroporto?». Istintivamente Talib si scostò, avvicinandosi al lato della strada nel momento in cui un soldato del GFT si voltò verso di loro. Bikila, era rimasto impassibile, sembrava sfidare il militare con lo sguardo.

    «Vanno a ripulire la strada dalle macerie. Il Governo offre cibo in cambio di lavoro».

    «Come lo sai?», indagò Talib.

    «Ho le mie fonti», disse serio Bikila abbassando nuovamente gli occhiali.

    Talib alzò gli occhi al cielo scuotendo la testa.

    «Per di qua», disse, «si fa prima».

    4.

    Dopo una mezza dozzina di svolte, i due si ritrovarono nella via del negozio appartenuto un tempo a Moses.

    «Non ci posso credere», sbottò Talib.

    «E questo chi è?», chiese Bikila sorridente, «un amico tuo?».

    Davanti al piccolo ingresso dello spaccio, giaceva immobile il cane che Talib aveva conosciuto il giorno precedente.

    «Come si chiama?», domandò Bikila posando una mano sulla bestiola che prese ad abbaiare scodinzolando.

    «Non ne ho idea. Credo che fosse di mio padre, forse gli dava da mangiare».

    «Dobbiamo dargli un nome! Vediamo... Che ne dici di Symbad?».

    «Fa come ti pare», rispose Talib avvicinandosi all’ingresso.

    «Lo vedi, gli piace», disse Bikila mentre Symbad gli faceva le feste.

    «Lascia perdere il cane. Sto per mostrarti una cosa che ti lascerà senza parole!». Talib era improvvisamente eccitato: per una volta sarebbe stato lui a sorprendere.

    «Non vedo l'ora», si limitò a rispondere il compagno varcando la soglia della bottega.

    «Ma che…», Talib si inginocchiò davanti alla cerata macchiata d’olio, ma prima ancora di scostarla, si rese conto che qualcosa era cambiato dall’ultima volta che l’aveva vista.

    Smuovendola rimase come pietrificato: non c’era nulla là sotto. Nessun baule verde, nessun fucile, nessuna granata.

    Tutto sparito.

    «Sono sbalordito», disse Bikila inginocchiandosi a sua volta. «È il più bel drappo plastificato che abbia mai visto».

    « Guss weine! Ma chi… Come…».

    Talib si guardò intorno incredulo.

    «Ti vuoi dare una calmata? Stai innervosendo Symbad».

    «C’erano AK47 là sotto! e Uzi e…»

    «Cosa? Di che cazzo parli?», Bikila osservò Talib portarsi le mani alla testa. Il suo sguardo rimbalzava dal pavimento ai muri scrostati e viceversa. «Calmati, per Allah!»,

    Bikila controllò oltre la vetrina. Due uomini che passavano in quel momento lanciarono uno sguardo all’interno del negozio e proseguirono oltre. Con un rapido gesto afferrò le chiavi ancora inserite nella toppa sul lato esterno della porta d’ingresso e la richiuse dietro le sue spalle.

    Talib sembrava stordito.

    «Andiamo dietro», disse serio Bikila.

    «Sì», concordò Talib.

    «Mi vuoi dire cosa succede?».

    Talib si passò una mano sulla fronte madida di sudore. «C’erano almeno una dozzina di fucili automatici. Roba russa e israeliana. Li conosco quegli affari».

    «Vuoi dire dentro quel telo di plastica? Ehi, guardami, erano là dentro? AK, fucili automatici, è di questo che stai parlando?».

    «Sì», confermò Talib, «anche roba americana, M16… Era tutto dentro un baule verde e… C’erano anche delle granate».

    «Granate?».

    «Sì, per dio, granate! Era tutto avvolto come un bel pacchetto!».

    «Perché non me lo hai detto ieri?».

    Talib sbuffò asciugandosi il sudore dalla fronte. «Ha importanza? Te lo sto dicendo ora, no?».

    Bikila sedette sulla poltrona con la fodera bucata, sbuffando a sua volta.

    «No», disse, «non ha importanza. Ma è comunque un fatto grave. Non è da prendere alla leggera, Talib!».

    «Ti sembra che lo prendo alla leggera? Cazzo, mio padre contrabbandava armi!».

    «Tira il freno a mano, Talib. Non saltare a conclusioni affrettate».

    I due rimasero qualche minuto in silenzio. Symbad li fissava, lo sguardo vivo e curioso.

    «Hai ragione», esordì Talib. «Forse il mio vecchio non ha nulla a che fare con quelle armi del cazzo. Dopotutto è trascorsa almeno una settimana dal giorno in cui l’hanno ammazzato». Talib ragionava in fretta, ma era evidente che stava solo cercando di convincere sé stesso.

    «Sei sicuro di aver visto bene? Non potresti esserti confuso?». Bikila sapeva che non ci si poteva sbagliare su una cosa del genere, ma voleva esserne certo.

    «Confuso?». Talib batté il pugno sul tavolo coperto di libri. «Porca puttana, Bikila!».

    «Va bene, va bene…», tagliò corto. «Ma ammetterai che è strano!».

    «Puoi dirlo forte che è strano, anda waan! È la cosa più dannatamente strana che mi sia mai capitata!».

    «Fammi dare un’occhiata qua intorno», Bikila si alzò dalla poltrona sollevando una nuvola di polvere.

    «Sì, fammi sedere, sono troppo agitato». Talib temeva che il cuore potesse schizzargli fuori dal petto.

    Bikila levò gli occhiali dal capo infilandoli in una tasca della camicia. Gocce di sudore gli rigavano le tempie.

    Il suo dito scorreva sul dorso dei numerosi libri impolverati che giacevano sulle mensole di legno.

    «Caccia al bufalo del Capo…», lesse i titoli ad alta voce a beneficio di Talib che era sprofondato nella vecchia poltrona. «I Chaga del KilimangiaroMaschere MasaiIl funerale Tuareg». Di tanto in tanto, Bikila afferrava un volume e ne sfogliava rapidamente le pagine, quasi sperasse di trovare la spiegazione delle armi misteriosamente scomparse.

    «Non vedo nulla di strano», sentenziò.

    Talib si massaggiava le tempie nel tentativo di giungere ad una soluzione.

    «Qualcuno deve aver scoperto che il negozio era abbandonato. Magari qualcuno che conosceva mio padre e che ha saputo della sua morte, guss weine!», imprecò a bassa voce mentre allo sconcerto cominciava a subentrare la paura che i proprietari delle armi potessero ripresentarsi da un secondo all’altro.

    « Amus, ashiri» Bikila ammonì Talib perché tacesse. «Che cosa sono questi?».

    I due presero a sfogliare i documenti impilati sul tavolo e nei vani inferiori della libreria.

    «Non ne ho idea», disse Talib, «odio leggere. Mi fa incazzare».

    Bikila non lo ascoltò e si immerse nella lettura di quelli che sembravano normali documenti di trasporto e bolle di consegna.

    Improvvisamente Talib vide Bikila vacillare.

    «Che c’è?», domandò.

    Bikila non rispose, si limitò ad alzare un dito affinché Talib non lo disturbasse durante la lettura.

    «Maledizione! Non si vede nulla qui dentro».

    «Aspetta», Talib scomparve verso l’ingresso della bottega e quando ritornò stringeva una torcia elettrica a filo. Dopo aver trovato una presa nel muro, la stanza in penombra si illuminò a giorno.

    «Così va meglio».

    «Allora, cos’hai trovato?».

    Bikila sembrò esitare. Cercò con lo sguardo Symbad che se ne stava in un angolo a leccare una ciotola vuota.

    «Questi documenti…».

    «Che cosa? Parla, guss weine».

    «Leggi questo», disse Bikila porgendo un documento a Talib.

    Notando la difficoltà dell’amico, Bikila prese un altro

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