Amafaranga
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Amafaranga - Marcello Scandola
Anna
Prima parte
1. Nord del Burundi. Agosto 2008
— Buongiorno, sono Loris Zanchi.
Non lo guarda neppure. Preme il grilletto e lo ammazza.
Loris della Fortel, come lo chiamano tutti da quando è in Africa, soprattutto i colleghi delle ong.
Qui si vive e si muore così, anche per sbaglio, gli ripete sempre uno di loro.
2. Foresta della Kibira, nord del Burundi. 22 giugno 2008
Il gallo mi sveglia che sono da poco passate le cinque. La luce entra presto dalle finestre qui all’equatore. Uno sguardo sulle sei o sette colline che riesco a intravvedere, tra i rami di eucalipto. Il Burundi offre questo paesaggio per chilometri e chilometri. I ribelli non sono ancora tornati dalla foresta. Temono che l’esercito approfitti del buio per far saltare la postazione. Sono i guerriglieri dell’Fnl, Forze nazionali di liberazione, l’ultima formazione armata rimasta nel paese dopo il 2005, quando si sono svolte le prime vere elezioni democratiche dal 1962, anno di indipendenza dal Belgio. In mezzo una scia di sangue senza fine. Sempre loro, hutu e tutsi, i corti e i lunghi. Tanti i primi, pochi ma potenti i secondi.
Una nebbiolina leggera taglia il cielo in questa zona strana, a quasi 2000 metri sul livello del mare. Il mare, ogni tanto ci penso. Libertà, acqua che ti avvolge. Qui l’acqua si vede di rado, siamo nella stagione secca e per mesi non pioverà. Eccoli, stanno tornando dalla ricognizione. Non mi trattano male, sono merce pregiata. A volte mi fanno sorridere nella loro ingenuità. Forse non sanno neppure per cosa combattono. Forse è l’unico lavoro che possono fare. Oppure compiono con rassegnazione il loro destino.
Trasportano un lanciarazzi con i volti coperti dai foulard. Ma almeno è giorno, e mi illudo di avere il controllo su quello che succede.
3. Nord Italia. 11 luglio 2008
Andrea è seduto in mezzo al campo giallo e guarda la sua Vespa. Non deve per forza guidarla per rilassarsi. Quando si alza presto, cioè tutti i giorni, fa due passi tra gli ulivi, la sistema e aspetta che la collina porti un po’ d’aria.
— Sarà qui tra pochi minuti, — dice Lara.
Il caldo è quasi insopportabile e l’erba secca avrebbe bisogno di una sfoltita. L’estate si sta facendo sentire, le vacanze sono lontane.
Bram, e la Vespa si accende improvvisamente. Andrea ha la fronte sudata e la lingua fuori.
— C’è Sean, — grida Lara con un sorriso sereno e rassegnato.
Vorrebbe sposarsi, lei. Anche lui, ma non si è ancora trovata la formula per compiere la volontà di entrambi. Chiesa, comune, parenti, amici, lavoro, qualche imbarazzo. Mica è facile sposarsi al giorno d’oggi.
Andrea in realtà un anello l’avrebbe ordinato. Diamanti neri e bianchi. Il problema è che non arriva. E adesso si sente un po’ sotto ultimatum, anche se è questione di settimane. Lo fa sorridere ripensare a tutti gli anni in cui è riuscito a glissare sull’argomento.
— Eccomi, — dice trafelato. — Qual buon vento?
E poi, con lo sguardo dritto negli occhi dell’amico: — Non si muove un filo d’erba, altroché vento.
— Niente, una missione impossibile, — fa Sean. — Quasi seria, stavolta.
— Se non hai problemi metto su qualcosa da mangiare dopo, ti offro un paio di birre fresche e parliamo con calma, — alza una mano e sembra che stappi una bottiglia. — Adesso devo andare a cavare qualche dente.
Fa il dentista, guadagna bene, ha una casa in collina tra gli ulivi. Un gatto, un pesce e una promessa sposa.
— Nessun problema. — Sean Albiero è già accanto alla sua 124 Sport Spider del ‘77. La moglie l’ha lasciato dopo sei anni di matrimonio. Non provava più niente, ha detto. Impossibile, ha pensato lui. E invece è andata proprio così.
Per consolarsi ha preso un’auto sportiva e qualche chilo di troppo. In cambio ha lasciato un po’ di capelli e diverse ore di sonno per notte.
— Sono di riposo oggi, faccio due cose e torno qui.
Sean pensa che medici e simili debbano avere qualche energia in più da spendere. Pensa a quelli che scrivono libri, ormai sono quasi tutti medici, o al massimo magistrati. Sarà per i tanti anni di studi e sacrifici, sarà per la disciplina acquisita. Ma Andrea non è uomo di scrittura, si annoierebbe. È uomo d’azione. Per questo Sean ha pensato subito a lui.
La 124 Sport Spider parte sempre al primo colpo, e questo lo rende felice, così come l’aria che gli passa tra i capelli rossicci.
Lungo le curve che lo riportano in centro città la luce comincia a calare per far spazio alla sera, e Sean si sente più vicino al suo mondo. Buio, o quasi, meno sguardi puntati contro, niente obiettivi che si accendono. Ecco la notte, dove è più facile confondersi.
4. Redazione di Tele51. 10 luglio 2008
— Ok. Lui è di qui, ma non lo conosceva nessuno in città. Il giornale non l’ha ancora scritto, sta in Africa da anni. Non so, oggi abbiamo solo una telecamera a disposizione, c’è da fare per forza un servizio alla concessionaria d’auto del lago. Magari vediamo domani se salta fuori qualcosa in più.
Sean non riesce a capire se il direttore sia un coglione o semplicemente un coniglio. Forse si adegua all’adagio del giornalismo. Cose facili, conferenze, poche inchieste, dai meno fastidio che puoi, gli inserzionisti pisolano, gli editori sono tranquilli.
Chissenefrega di uno rapito in Africa, ne parleremo dopo che ne hanno scritto i giornali, magari nazionali, così danno autorevolezza al nostro servizio di due minuti con una foto della vittima e magari una telefonata a qualche parente in cerca di gloria. Immagini di quel posto dell’Africa non ce ne sono. Di questo Loris Zanchi si sa poco, chi sa qualcosa lo dà quasi per perso.
Ne parleremo quando troveranno il cadavere. Così, pensa Sean, ragiona il direttore, che nel frattempo si è già buttato in una riunione senza via d’uscita, dopo aver registrato il lancio di una nuova trasmissione e risposto alla telefonata non filtrata di un’ex prostituta che rivendica dignità per la categoria.
— C’è una notizia, stiamone alla larga, mi raccomando! — fa Sean a Schifano, di cui non ascolta più il corollario di imprecazioni. Con qualcuno si deve pur parlare: il telegiornale, nonostante tutto, è seguito dalla gente e non si fa da solo.
— Prima le marchette, poi le notizie. — Schifano ha smesso di lottare, se per qualcosa c’era da lottare, da anni. Con la colpa di non aver mai manifestato con decisione la propria volontà. Non ti va bene così? Candidati per fare meglio, per soffiare il posto al direttore.
Nel frattempo l’attenzione si è spostata. Chi si ciuccia la marchetta al lago? C’è da fare un servizio a pagamento a una concessionaria d’auto. Alza la voce Milva tra un jack di picche e una regina di cuori. Il solitario al pc è la sua passione.
— Potrei andarci io, — ci pensa bene. — Così poi passo ad aprire casa. Ne ha una anche al lago, oltre che una a Parigi e una forse a New York. Il marito era il principale azionista di un gruppo industriale. Lei sta lì per far passare il tempo e perché la annoia la compagnia della donna di servizio.
— Sì dai, ci vado io.
Nessuno fa obiezioni, tanto poi i soldi delle marchette si spartiscono.
Vola un cestino, il capo dello sport è rimasto senza ospiti per la trasmissione e ha calciato con forza l’oggetto, che sfiora la collega che si occupa di costume.
— Non so come non sia saltato ancora tutto per aria, — dice Sean a bassa voce a Lorenzo, che lavora sulla scrivania accanto. — Oh, io provo a tenerla monitorata ‘sta cosa del rapito in Africa. Magari chiamo l’organizzazione con cui era giù, sento a casa sua se qualcuno mi risponde
— Se hai tempo fai bene, — dice Lorenzo, la borsa già in spalla e l’incarico del servizio più noioso come ogni giorno: sondaggio tra la gente sulla nuova linea ferroviaria che attraversa la città.
— Io non ne so niente di treni, — ha detto Milva prima di aggiudicarsi il redazionale (e il passaggio dalla casa al lago).
— Io sì invece, — chiude il discorso Lorenzo con sarcasmo scendendo le scale. — Brutta puttana. — Ma la porta scorrevole alle sue spalle si è già richiusa.
5. Foresta della Kibira. 27 giugno 2008
Il momento più bello è la sera. Deo e Liduine accendono l’imbabura, un piccolo focolare di terracotta. Ci abbrustoliscono quasi ogni giorno delle pannocchie gialle, che sono diventate per me compagnia e caldo familiare. Il fumo si trasforma in profumo. Le braci scoppiettano e la notte è rimandata di qualche istante. Nell’aria è una specie d’inverno costante. Come se ogni sera l’inverno tornasse e ci fosse bisogno di trovare qualcosa con cui scaldarsi.
Rimaniamo solo noi per qualche ora. Sanno che non devono darmi la possibilità di scappare, ma si vede che non è quella la loro indole. Scambiamo poche parole, mangiamo assieme. Chi vive in questi posti deve aprire tutte le porte possibili della propria anima per lasciar entrare un mondo completamente diverso. I giorni di prigionia è come se facessero parte del mio mestiere di cooperante, nonostante la paura. Metto in ordine un po’ di pensieri. A loro non chiedo niente, che cosa potrebbero dirmi?
Deo è un giovane hutu, un corto, come si chiamano tra loro adesso, per evitare di evocare la tragedia della guerra civile, uno spettro che ritorna ad ogni istante. Ha circa 25 anni, qui nessuno conosce con precisione la propria età. Lavora per questo gruppo di ribelli come tuttofare. Lava e stira, per gli uomini qui è normale, così come cucire a macchina. Lo hanno trovato su una strada. È stato un medico italiano a raccoglierlo quasi morto al mercato di Ngozi, la principale città del nord. Me lo racconta in un misto di francese fatto di poche parole, in kirundi che io capisco ancora poco e in swahili. Lo ha imparato da Christine, una keniota finita per qualche oscuro motivo in Burundi. Hanno passato molto tempo assieme lavorando per la fondazione di quel medico italiano. Poi Christine è scomparsa.
La cuoca che utilizzano i ribelli si chiama invece Liduine. La trattano bene. Le sue banane fritte e i suoi rari stufati di carne sono molto gustosi. Da qualsiasi materia prima, e da qualsiasi scarto, ricava piatti prelibati. Ha i capelli corti come tutte le donne, pochi vestiti ma ben tenuti. Lei è una tutsi, una dei lunghi. Credo che questo le interessi poco. Dice di avere 22 anni, a volte 25, a volte 18. Poi ride in modo dolce.
Suo marito è un funzionario corrotto dell’esercito, in cui sono quasi tutti tutsi. Per questo, nonostante la diversa etnia, nessuno dei guerriglieri hutu le fa del male. Conviene tenersi buono qualcuno nell’esercito. Qui le cose cambiano da un momento all’altro, le alleanze si fanno e si disfano. È Deo che mi racconta di nascosto, con timidezza, di Liduine e suo marito. Hanno tre figli, ogni tanto una balia le porta il più piccolo nella foresta. Si chiama Darsi.
Ascoltare di nascosto Liduine e Deo che parlano e ridono riempie i miei pomeriggi. Non posso dire che siamo diventati amici, ma non ci manca molto. La radio è sempre sintonizzata su Muco Fm, la stazione locale. È la colonna sonora della loro vita, credo felice e forse anche fortunata, e della mia, quella di un ostaggio di un gruppo ribelle che il mondo difficilmente conoscerà mai.
6. Nord Italia. 11 luglio 2008
La Vespa rossa è sotto un gazebo, accanto a una piccola fontana con un pesce. Rosso anche quello.
— Buono il filetto. Roba da ricchi. A forza di dentiere e ponti…
La carne alla brace è davvero buona. Si suda, e le cicale cantano tra la gramigna secca e gli ulivi stanchi.
— Allora? — La fronte di Andrea è imperlata di sudore. Fa caldo e sta sistemando altra carne sulla griglia.
— Allora, ti ricordi Zanchi, quell’amico di Raffaelli? Un tipo a posto, non strano come Raffaelli. Lo incontravamo spesso al Blu Bar? — Sean ha trovato il tempo per mettersi comodo, in bermuda e camicia. E ha deciso di godersi la sera in collina.
— Quello in giro per il mondo?
— Sì, quello. Adesso è in Africa, in Burundi.
— Il buco del culo del mondo?
— Ecco, quello. È scomparso. La sua famiglia ha chiamato la tv. Ci ha chiesto di non dire nulla in pubblico. Potrebbe essere stato rapito, potrebbe essere anche morto.
— Cavolo, poveretto. Ho fatto qualche serata al Blu Bar, c’era anche lui. Uno in gamba. Non mi sembra uno di quelli che pensa che il mondo sia un posto dove tutti si vogliono bene. Sognatore, ma con la testa sulle spalle.
— Esatto, esatto. Allora, il problema è questo. Nessuno ne parla, nessuno ne vuole parlare, giustamente la famiglia chiede silenzio, ma allo stesso tempo fa capire che vuole una mano.
— Be’, grazie di avermi messo al corrente, collega giornalista.
Il tono torna scherzoso.
— Eh eh, vecchio mio. Sto pensando a un colpo di testa, uno di quelli che non ho mai fatto e che pensavo non avrei mai fatto.
— Vai in Africa?
— Con te.
Andrea si spaventa di poche cose.
— Bella idea, ma c’ho lo studio, la fidanzata che mi vuole lasciare, il pesce rosso, il gatto...
— Pensaci su. Ci facciamo un giro. Qualche settimana. Le comunicazioni là praticamente non esistono. Bisogna essere sul posto per capirci qualcosa. Io provo a raccontare al lavoro che vado a fare una piccola inchiesta. Alla fine si