Discover millions of ebooks, audiobooks, and so much more with a free trial

Only $11.99/month after trial. Cancel anytime.

Le scintille dell'inferno
Le scintille dell'inferno
Le scintille dell'inferno
Ebook407 pages6 hours

Le scintille dell'inferno

Rating: 0 out of 5 stars

()

Read preview

About this ebook

Quando un meraviglioso palazzo è costruito sul lungomare di Gedda, in prossimità del suo quartiere miserabile, l’ambizioso Tareq vede una via d’uscita dalla sua vita di microcriminalità. Fissa con desiderio gli enormi cancelli, sognando il lusso. Ma il sogno si trasforma rapidamente in un incubo. Il palazzo è governato da un padrone enigmatico, la cui influenza in città è tanto grande quanto malvagia. Quando Tareq riesce a diventare uno degli suoi uomini più fedeli, diventa chiaro che è stato scelto per un singolo terribile compito, torturare e stuprare i nemici del padrone. Trent’anni dopo, Tareq si sente intrappolato. Tra punire i nemici del padrone attraverso atti indicibili, innamorarsi di Maràm, la bella amante del padrone, e respingere le suppliche di suo fratello di tornare a casa, si rende conto che è diventato non più che uno schiavo – e che c’è solo una via d’uscita.
LanguageItaliano
Release dateMay 25, 2016
ISBN9788865642061
Le scintille dell'inferno

Related to Le scintille dell'inferno

Related ebooks

Literary Fiction For You

View More

Related articles

Reviews for Le scintille dell'inferno

Rating: 0 out of 5 stars
0 ratings

0 ratings0 reviews

What did you think?

Tap to rate

Review must be at least 10 words

    Book preview

    Le scintille dell'inferno - Abdo Khal

    Fadel

    PRIMA SOGLIA

    Vile è il mio animo che, poco a poco, si è lasciato trascinare verso il delitto.

    In piedi nella camera di tortura, osservo il mio corpo nudo, imbrattato dalle tracce delle sue colpe. Un corpo che si è lanciato in decine di missioni di tortura, concluse con una vittoria o con una sconfitta, pienamente fallite o perfettamente eseguite. Ho fatto soffrire le mie vittime con entusiasmo e meticolosità, senza mai lasciarmi commuovere dalle grida e dalle suppliche che sfuggivano loro. Ho compiuto le mie missioni senza trascurare nessuna delle esigenze del Padrone, perché non fosse mai privato del piacere della vendetta di cui si dilettava, della beatitudine estatica che si impossessava di lui quando mi vedeva aprire squarci nei corpi dei suoi nemici. Mi sollevavo dalle mie vittime dopo aver spezzato loro le ossa, quando di loro non restavano che i gemiti e le ultime invocazioni di pietà.

    Delle mie vittime non conosco che le fotografie. Il Padrone faceva sempre in modo, all’inizio della seduta di tortura, di lasciarmi una foto o un video.

    Ho creato un archivio di tutti quelli che ho torturato. Non avevo, all’inizio, alcuna consapevolezza del valore di quei documenti. Avrei potuto venderli, guadagnare una fortuna a spese delle vittime, mercanteggiare e accordarmi con loro sulla somma che avrei potuto esigere per non pubblicarli. Questa idea mi è stata suggerita da Osama, che voleva convincermi a trarre un beneficio pecuniario da ogni foto conservata nell’armadio della mia stanza.

    Ho rinunciato al progetto di questo commercio segreto per il terrore che il Padrone venisse ad annientarmi, prima ancora di poter pronunciare una parola in mia difesa. Ma l’idea continuava a stuzzicarmi: sarebbe stato sempre possibile attuarla al momento opportuno.

    Ho trascorso lunghi anni nel mio ruolo di torturatore, incaricato di punire i suoi nemici. Non avevo alcun valore, se non nei momenti in cui il Padrone veniva a vedermi sottoporre una delle sue vittime a quelle atroci torture. Per il resto del tempo, non ero che un oggetto inutile ma, quando mi portavano qualcuno, diventavo la chiave smarrita che tutti si affannavano a cercare in ogni ala del Palazzo…

    Dopo reiterate richieste, ho ottenuto la mia indipendenza: sono libero di abitare fuori dal Palazzo, con il pretesto ineludibile di dovermi occupare di mia zia. Anche così, non mi allontano mai dallo sguardo del Padrone. Conosce ogni mio minimo movimento, ogni luogo in cui mi fermi. Come un aquilone, volteggio nel cielo, legato a un filo sottile. Quando lo tira, precipito, mi abbatto nella polvere, aspettando che mi lanci di nuovo nella direzione del vento per ricominciare a volare.

    La sua voce al cellulare mi è giunta bruciante, imperiosa: «Vieni immediatamente».

    Ho creduto che avesse scoperto i miei piccoli giochi, ho pensato di fuggire. Ho chiamato Maràm, aveva per caso sentito in giro qualche chiacchiera ? Mi ha assicurato di non sapere nulla. Non è stata commessa alcuna violazione ai divieti in grado di scatenare la sua furia, non avevo quindi altra possibilità se non quella di ubbidire. Ho tagliato per viale King-Abdul-Aziz verso nord, per arrivare in mezz’ora o poco più nella sua residenza, a Sharm Abhur (1). Mentre mi avvicinavo, ho ricevuto un’altra telefonata che mi invitava, questa volta, a incontrarlo nel vecchio Palazzo.

    Lui cambia idea all’improvviso, nessuno osa esprimere il minimo commento, nessuno trova minimamente da ridire sui suoi ordini.

    Mi sono diretto verso sud, quindi ho percorso il tragitto in senso inverso, perduto nei pensieri neri che pendevano come liane sospese nel mio animo: «Che cosa vuole da me adesso?»

    Un pesciolino appeso all’amo di un pescatore, o trascinato nella rete della sua barca, non ha che due cose in testa: liberarsi dalla trappola in cui è caduto, e agire prima che la barca si fermi perché il tentativo di fuga abbia qualche possibilità di successo. Da quando sono stato preso nella sua rete, non penso che a questo: che rallenti, che si fermi. Per riuscire a trovare un modo di passare attraverso le maglie. C’è bisogno di calma per decidere il cammino da seguire nella fuga, la direzione in cui avanzare.

    Questo serpente non si è mai calmato. Nemmeno per un giorno. Il suo movimento perpetuo disorienta le prede, le annienta quando cercano di trovare una possibile via di scampo, a giudicare dalla rapidità con cui si avventa su di esse. Da quando sono caduto nella rete, cerco il modo di scappare dalla trappola che mi imprigiona ermeticamente. So che rallenterà la sua corsa soltanto quando avrà un piede nella fossa. Una morte che tarda ad arrivare. La sua salute insolente induce a pensare che non sia per nulla prossimo a intraprendere quel viaggio.

    Quando sono entrato nel salone in cui era seduto, la vittima era stesa sul pavimento, in uno stato penoso, circondata dalle guardie che la picchiavano, colpendola al ventre con gli stivali. Idee contraddittorie mi assalivano senza tregua.

    «È la tua ultima missione».

    Ci ha spinti entrambi, me e la vittima, verso la camera di tortura, condotti per mano dai suoi uomini. All’inizio osservavo il luogo della tortura, che conoscevo fin troppo bene, come se lo scoprissi per la prima volta. Il disgusto si allargava come una macchia, sospingendomi verso l’oscurità.

    I supplizi praticati in quella camera si riducevano in sostanza a uno solo. In ogni seduta c’erano due corpi e due anime a scambiarsi sofferenza. Io ero la chiave, la vittima, la serratura arrugginita. Un olio vischioso lubrificava la serratura che io, la chiave, forzavo e spaccavo. La chiave poi rimaneva appesa, in attesa di una nuova missione. In ogni stupro, carnefice e vittima si sentivano attratti dallo stesso abisso insondabile, le loro anime uscivano polverizzate dalla tortura, unite nel tormento. Questa volta, è tutto sbagliato: il luogo, la persona, il momento… Ho appena cominciato la tortura, quando si leva la chiamata alla preghiera della sera, una voce pura che viola il nostro io più intimo, aprendosi un varco attraverso gli strati più profondi dell’epidermide, una voce che si ritrae per ripartire all’attacco, per riversare ancora su di noi le sue salmodie penetranti, facendo trasalire i nostri due corpi e tremare le vene del collo. Invochiamo soccorso, ma nessuno accorre in aiuto. Soffochiamo un singhiozzo spezzato in fondo ai nostri cuori, perché cessi la violenza che ci opprime. Vittima e carnefice nascondono il viso in un lenzuolo, cercando la salvezza che li allontani l’uno dall’altro, tentando di svanire, di dissolversi.

    Terminata la seduta, indosso finalmente i pantaloni per celare le mie parti intime, ancora esposte alla vista di tutti, e trascino via il mio essere, usato, disfatto. Posso coprire il mio corpo, ma sono incapace di purificare la mia anima imbrattata di fango, inetto a liberarla. Si è logorata, lacerata, disseccata.

    Sono entrato in questa camera tante volte, sempre più sconfitto, più pesante. Ogni volta che ho tentato di salvarmi da questo naufragio, mi ha sospinto più a fondo, mi ha inghiottito come un blocco di ferro condannato a restare sommerso, nella sua ruggine, avvolto dalle alghe morte, o forse vive. Mi sono abituato a vivere come una corda che si sfilaccia, come un cumulo di fibre che si assottigliano.

    «È la tua ultima missione».

    Sono crollato. Mai mi è passato per la mente che potessimo ritrovarci insieme, lui ed io, proprio in questo luogo. Nei nostri sguardi, la stessa disperazione, la stessa umiliazione. Un fremito nell’anima, un ultimo gemito, prima di arrendersi. I lunghi anni trascorsi insieme si condensano in acqua salata sul ciglio dei nostri occhi, cola una lacrima, a rinverdire antiche memorie, i ricordi delle passioni e delle follie di un tempo. Le mie lacrime riguardano un ricordo dell’adolescenza lontana, quando Issa al-Rudayni aveva alzato le mani per impedire a Mustafa il Cecchino di piegare il mio orgoglio giovanile.

    Chi ci proteggerà, adesso, l’uno dall’altro?

    Una chiamata alla preghiera interminabile, questa sera. Ho l’impressione che il muezzin continuerà a salmodiare fino a mezzanotte, senza che nessuno gli risponda.

    Le parole della formula di rito ondeggiano nei nostri cuori, cercando di rischiarare tenebre antiche, ma vi restano imprigionate. I nostri peccati hanno sbarrato loro le porte. La macchia oscura si allarga, le tenebre dell’anima rendono il supplizio più crudele. La tortura non riesce a giungere al termine. I nostri singhiozzi soffocati si susseguono, inarrestabili, al di là del nostro bisogno di piangere, inghiottendo ogni altra cosa. I giorni e le notti di Gedda navigano nel mare delle nostre lacrime, come barche che corrano verso riva per accostare. Barche che tornano indietro e ripartono verso il mare aperto, dopo aver scoperto una costa cinta di costruzioni e di muraglie.

    Nessuno vedrà uno di noi salvare l’altro. La chiamata alla preghiera continua a echeggiare, mentre la notte fa scivolare su di noi il suo manto nero non per coprirci, ma perché esponiamo le nudità.

    La mia decisione di ucciderlo è matura. Da qualche tempo ormai sogno il suo cadavere e, nel sogno, non so dove nasconderlo. Quando mi corico, non riesco ad addormentarmi se non immaginando l’omicidio. Ogni notte lo uccido in un modo diverso.

    Ma tra il sogno e la realtà, la distanza è incommensurabile.

    *

    Oggi ho eseguito la più difficile missione di tortura che mi sia mai stata affidata nel Palazzo. Da parecchio tempo ho smesso di esercitare, ma il Padrone ha voluto che svolgessi il mio lavoro per lui con quest’ultima missione: è quello che afferma, anche se dubito di tutto quello che dice.

    Chiama quest’ultima missione il gioco del ritiro: ha invitato le persone a lui più vicine, la quintessenza dell’élite, a venire ad assistere a quest’ultima, sordida operazione. Non ho avuto scelta. Rifiutare avrebbe significato diventare una vittima a mia volta, essere gettato in prigione, accusato di tentato omicidio. Il capo di imputazione non ha alcuna importanza, lui è in grado di fabbricare qualsiasi accusa per inchiodarmi in tribunale, la testa già sul ceppo, con tanto di prove inconfutabili, e magari anche una confessione.

    Quando si conclude un patto con il diavolo, si può essere certi che la vita ci tenderà una trappola da cui non si potrà scappare. Se giochi a un gioco sporco, perdi ogni possibilità di conservare i vestiti puliti.

    Ho raccolto i miei abiti, li ho presi fra le mani, lasciando la mia vittima ad assestarsi le ossa e ad asciugarsi le lacrime prima di capire cosa fosse accaduto. Sono certo, ormai, che non potrò mai più commettere queste azioni infami. Ma ho avuto paura, lo confesso, di passare dall’altro lato della barricata, dalla parte delle vittime.

    Si è alzato di fronte a me, congratulandosi per aver portato a termine la missione con successo:

    «Sei ancora capace! Sei sempre in grado di riuscire, come una volta!»

    Sono rimasto in silenzio.

    «Forse cambierò idea a proposito del tuo ritiro…»

    Ho sputato per terra, senza che se ne accorgesse. Gli sputi che lanciavo sulle vittime erano più pesanti, più carichi di disprezzo.

    «Mio Dio, accorri in mio aiuto».

    *

    Da quella notte, sono diventato prigioniero della sua voce. Lui ordina, io ubbidisco. La sua è la collera di un bambino. Così me l’aveva descritta il vecchio Muhammad al-Rikabi ma, a quei tempi, non avevo creduto all’esattezza del suo giudizio. Nessuno lo conosce bene come chi gli sta più vicino. Muta umore così come cambia la camicia, l’espressione del viso appropriata alle circostanze, anche se nessuno si azzarda a dirgli che magari ha indossato l’abito sbagliato.

    La sua foto, con il suo viso dai lineamenti fini e delicati, occupa una superficie notevole del giornale più diffuso nel Regno. Sembra un angelo disceso sulla Terra per cancellare, con le sue bianche ali, le sofferenze umane. Il suo sorriso intenerisce i cuori più duri, smentendo le cattive intenzioni che gli attribuiscono alcuni spiriti sospettosi che, in effetti, non tradiscono che se stessi.

    In tutte le foto pubblicate sui quotidiani e sulle riviste sembra gentile, simpatico. I suoi tratti possiedono la dolcezza della santità. Un titolo in caratteri cubitali sovrasta una sua foto, elogiando il suo contributo, decine di milioni di riyal , in soccorso ai poveri. In un’altra foto, da cui fissa l’obiettivo con un sorriso soave, firma un assegno per l’Associazione nazionale per i disabili. Nel suo discorso, riferito nell’articolo, condanna l’egoismo dei ricchi, la loro tirchieria, la loro scarsa propensione alla carità e alla beneficenza. Invita tutti a raddoppiare gli sforzi, a impegnarsi a fondo nelle opere buone. Esorta i ricchi a prendere coscienza della situazione, a tendere una mano generosa ai bisognosi, a lanciare iniziative di aiuto e di solidarietà.

    Alzando gli occhi dal giornale, scorgo Jamil Badri sollevare penosamente il piede azzoppato, mentre si trascina dall’altro lato del Palazzo per finire di potare gli arbusti che nascondono l’impianto di illuminazione, celato dall’intreccio dei rami.

    Non ha alcun interesse a bighellonare, a perdere tempo, a rischio di ritrovarsi con una nuova cicatrice. Non c’è alcun servitore nel Palazzo che non sia stato storpiato, in qualche modo. Ognuno si porta addosso una mutilazione.

    I visitatori si stupiscono della generosità del Padrone, che ha riunito qui tutti questi handicappati. Ha evitato loro l’umiliazione della condizione di mendicanti, offrendo un lavoro modesto ma onesto.

    Coloro che lavorano nel Palazzo sanno che la mutilazione è il destino ineluttabile che incombe su chiunque vi trovi un impiego. Chi non è ancora stato ferito attende la sua ora, pregando di non perdere anche la vita. Io faccio parte del gruppo di chi è ancora in attesa della mutilazione. Da quando sono entrato in Paradiso, non ha mai smesso di giocare a suo piacimento con la mia vita. Ma il mio corpo è ancora intatto. Una vita intera a farsi rigirare in tutti i sensi dalle sue grinfie. Si compiace dell’ebbrezza del gatto che gioca con il topo. Certo della sottomissione della preda, la guarda come un passatempo spassoso, si rilassa godendosi il suo piacere perverso, offerto spontaneamente o apparentemente inaccessibile.

    La mia sottomissione assoluta, esagerata, lo ha indotto a concedermi una tregua. Mi spiava in lontananza e, se fingevo di abbozzare il minimo movimento, mi piombava sulle spalle per affondarmi le unghie nella carne e ricondurmi a lui. Mi staccava da terra, mi agguantava con violenza per procurarsi l’eccitazione, colmo del desiderio di realizzare tutto ciò che è impossibile agli altri. Poteva accedere a piaceri di ogni genere, non appena aveva trovato quello che cercava più spesso. Sapendo muoversi senza mai cadere anche sul terreno più scivoloso, aggiungeva alla sua prima estasi quella del gioco. Ricercava il piacere ad ogni costo e con ogni mezzo. Aveva acquisito un’abilità notevole nello storpiare, nello sfigurare. Il suo palazzo si riempiva di burattini umani. La sua sete perversa era inestinguibile, non restava nel Palazzo un solo fantoccio intatto: burattini guerci, zoppi, castrati, bruciati, depilati, ammaccati, instupiditi…

    Chiunque non avesse ancora il corpo mutilato diventava l’oggetto ossessivo dei suoi deliri. Tutte le sue marionette erano già state storpiate, ogni giorno occorreva trovare un divertimento nuovo. In un giorno lontano, una giornata senza misericordia, sono diventato il suo nuovo burattino. Uno di quei pupi che esistono soltanto perché si giochi con loro. Chi non vorrebbe approfittare dei suoi giochi? Non ho mai prestato attenzione alle lacerazioni che i suoi artigli hanno aperto nella mia carne. In effetti, sono stato indotto a sottomettermi a lui seguendo un glorioso principio assimilato nella prima infanzia, e mai dimenticato. Lunghi anni sono trascorsi da quella prima lezione, che mi ritorna in mente di continuo, per non sentirmi troppo afflitto per le crepe che il tempo ha scavato nella mia vita, e in quella degli altri.

    *

    Diversi decenni or sono, quando il nostro quartiere era ancora tenero e verde, gli Allahu Akbar della chiamata alla preghiera dell’‘Aid riempivano l’aria. Un’atmosfera di devozione si mischiava a una gioia irrefrenabile, sedimentata nei nostri cuori. I fedeli si erano riversati per le strade, abiti bianchi, visi raggianti, scambiandosi i migliori auguri. Ragazzi e ragazze si pavoneggiano nei vestiti nuovi, e facevano a gara per bussare alle porte dei vicini e reclamare il regalo dell’‘Aid, sperando che il dono consistesse in denaro piuttosto che in dolcetti, che già rigurgitavano dalle loro tasche.

    Anch’io ero uscito nei miei abiti nuovi. Il sogno di un bel bottino s’ingrandiva, mentre ascoltavo i consigli di mia madre: se avessi voluto raggranellare una sommetta, sarei dovuto andare ad augurare una felice ‘Aid a tutti i nostri parenti e amici.

    All’alba di quella giornata, ero stato sottoposto a un bagno meticoloso. Una quantità inverosimile di sporcizia, annidata nei minimi recessi del mio corpo, era stata scovata da mia zia, che però mi aveva volutamente strofinato troppo in fretta. Intenzionata a screditare mia madre, utilizzava il sudiciume residuo come un veleno per suscitare l’ira di mio padre – sempre che gli venisse in mente di interessarsi alla mia scarsa pulizia.

    Tutti i miei compagni subivano lo stesso esame periodico. L’‘Aid era anche l’occasione per le famiglie del quartiere di cambiare il mobilio, di ridipingere i muri e le porte per accogliere l’evento in tutto il suo splendore.

    C’eravamo preparati a quel giorno. Perfino le case avevano ritirato gli stracci per rivestirsi di ornamenti. Fuori dal quartiere, non si prestava tanta attenzione all’occasione. Il lerciume restava al suo posto, come per offrire un sontuoso banchetto alle mosche e agli altri insetti scacciati a forza dalle loro dimore…

    Ero pronto ad andare a trovare i parenti, attento a non sporcare i miei abiti con l’immondizia accumulata nei vicoli tortuosi. Durante il cammino, ero stato bloccato da una grande pozzanghera di fango che sembrava estendersi all’infinito, per quanto provassi a scavalcarla. Potevo forse aggirarla? L’acqua lurida debordava verso di me. Avevo cercato il punto esatto in cui la pozza sembrava più stretta, per prendere lo slancio e balzare al di là senza sporcarmi. In caso contrario, la festa sarebbe stata rovinata.

    Saltare significava correre un rischio, le cui conseguenze potevano essere catastrofiche. Avevo impiegato un tempo considerevole nel trasportare pietre e assi di legno per crearmi un percorso che mi consentisse di raggiungere l’altro lato del quartiere in abiti ancora lindi. Mentre avanzavo a passi esitanti sul ponticello che mi ero costruito, una mano sconosciuta aveva deciso di gettare la spazzatura da una terrazza, direttamente sulla mia testa.

    Da allora, non avevo avuto più motivo di schivare l’immondizia della strada, né di evitare di rincasare ancora più lercio, cosa che aveva spinto mia zia a picchiarmi (anche nel giorno di festa), giurando ad alta voce che sarei rimasto così per tutta la giornata. La faccenda della mia sporcizia aveva alimentato i fuochi d’artificio di una nuova lite con mia madre, quella sera. Nessuna delle due donne aveva notato come, nella loro baruffa, avessero trascurato di accogliere i visitatori che venivano ad augurarci buona festa, e, a maggior ragione, di lavarmi e di prepararmi per uscire di nuovo.

    L’‘Aid era passata così come era venuta, mentre piangevo tutte le mie lacrime, non tanto per i vestiti nuovi sporchi, quanto, più che altro, per aver perduto l’occasione di raggranellare una piccola somma. Mi domandavo da quale terrazza mi fosse piombata addosso quella tempesta di spazzatura…

    Una riflessione mi inseguiva, tormentandomi: Diffidare di ciò che si trova sotto i nostri piedi non ci impedisce, per caso, di vedere ciò che ci cade in testa dal cielo?

    Quella era stata la grande lezione imparata quel giorno. E così, da quel momento, non avrei più fatto minimamente caso alla sozzura che mi si sarebbe cascata sulla testa.

    Ho percorso le strade più ripugnanti, rotolandomi nel fango. È stata proprio la sporcizia a permettermi di entrare nel Palazzo. Una volta là dentro, mi è convenuto restare discretamente sepolto nella mia sozzura per apprendere un’altra lezione: Tutti si nascondono nel proprio lerciume, uscendone soltanto per indicare a dito il sudiciume degli altri. Una lezione davvero modesta, una massima con cui mi scontro tutti i giorni. Ma nessuno, fra coloro che si compiacciono di citarla, vuole convincersi della propria insipienza. Me compreso che, ripetendola continuamente a me stesso, vi trovo un’occasione in più per dimostrare la mia imbecillità.

    *

    Nelle fastose serate a Palazzo, le auto di lusso prendevano posto nel parcheggio interno. Valletti in livrea ricamata si muovevano come creature invisibili, scivolando fra gli invitati con vassoi di bibite, frutta e pasticcini di tutte le forme. Si spostavano senza che mai cadesse su di loro lo sguardo degli ospiti.

    Analogamente, i loro occhi non si posavano mai sulle case del nostro quartiere che sorgeva di fronte al Palazzo. Viste dall’alto delle sue terrazze, le case si sarebbero dette figure chinate in perenne prostrazione, cui fosse stato proibito di sollevare la testa.

    Quando la festa giungeva al culmine, le donne illuminavano la notte, ancheggiando sensuali e maliziose. Le teste degli invitati diventavano pesanti, le loro parole impastate si colmavano di un desiderio sempre rimandato a più tardi.

    Il desiderio è un fuoco divampato con la prima goccia di sangue versata sulla terra. Si nutre di solo sangue per consumarsi… La bramosia, il sangue, la vittima… L’antitesi della Santissima Trinità, l’opposto dei principi sacri. Questa trinità parallela è il campo di battaglia in cui le azioni prendono forma, dove nasce la Storia.

    Joseph Issam è stato battezzato nella cattedrale della Vergine Maria, a Beirut, ma è venuto a vivere qui, in Arabia, distogliendo lo sguardo da verginità di ogni tipo. Il suo sacerdozio consiste nel vendere anelli e pietre preziose a chi viene qui per ragioni diverse dal pellegrinaggio alla Mecca.

    «Se vuoi purificarti, confessa i tuoi peccati, perdona quelli che ti hanno offeso, affinché nostro Padre che è nei cieli gusti la tua sofferenza per l’eternità. Egli non smette mai di soffrire per te…»

    «Nostro padre? Quale padre?»

    Era così comica, quella preghiera dell’alba, diretta dal Padrone, signore del Palazzo. Pensavo che il libanese fosse travolto da episodi di misticismo intermittente, ogni volta che ricordava inopinatamente di non aver più messo piede in una chiesa da quando era arrivato qui.

    Dopo ciascun catastrofico misfatto in cui era implicato, il suo passaporto si arricchiva di un nuovo bollo che lo esortava a raggiungere qualunque chiesa dove compiva un tardivo pellegrinaggio – usava proprio la parola hajj, senza dubbio allo scopo di attirarsi qualche benedizione del grande Hajj della Mecca, cui aveva assistito decine di volte. Quando aveva bisogno di un’autentica salvezza, di una purificazione estrema, allora si dirigeva verso Roma.

    La religione è un tunnel che tutti imboccano per giustificare i propri obiettivi, dai più nobili ai più spregevoli. Lo attraversiamo per raggiungere il retrobottega, dove sono confezionati e ricamati quei costumi che dobbiamo indossare nelle grandi occasioni, quelle che esigono un viso liscio e severo. Ogni abito si porta in modo diverso, ogni tenuta richiede un’andatura particolare.

    Pensare è una trappola a causa della quale si devia dalla fede. Nelle zone sotterranee, sotto la superficie della vita, si aprono e si ampliano nuove carreggiate. Una volta riempite di fango, diventa impossibile risalire all’aria aperta. Continuano a ingrandirsi, come una falda colma di acqua fetida e stagnante.

    Da circa cinquant’anni, forse poco più, mi sono immerso fino al collo in una susseguirsi di giorni e di notti. Ogni volta che cerco di allontanarmi dalla scena, scopro che la vita pullula di dementi, di corrotti, di ladri, di arrivisti, di ruffiani, di omosessuali, di gente assetata di potere e di complotti. Sono quelli che hanno l’incarico di mandare avanti il mondo. Come i riformisti. A Palazzo coesistono tutti gli ingredienti di questa pasta umana corrotta e priva di coscienza. Tutti costoro costituiscono i tre elementi della trinità, notte dopo notte. La vittima è divorata, il sangue cola, ma il desiderio, insoddisfatto, rimane incandescente, assetato di sangue.

    Il desiderio è un male che si autofeconda e non muore mai. È un’attrazione magnetica, ci attira verso la fine e, al tempo stesso, spinge la vita a rinnovarsi.

    Nessuno sfugge a una forma o a un’altra di corruzione. Siamo tutti insozzati da un vizio che nascondiamo accuratamente, ad eccezione dei più vili fra noi, quelli che camminano esibendo la propria infamia, senza copertura, senza veli. Io sono uno di questi.

    Lascio vagare lo sguardo fra le donne del Palazzo, alla ricerca di Tahani. La troverò? Sarà lei l’unica creatura immacolata, quella che annullerà tutte le prove che ho accumulato e che dimostrano come l’uomo sia, nella sua essenza, un essere ignobile?

    Una sera di tanto tempo fa, mi avvicinai alla stanza di Tahani, la baciai sul collo, mentre lei mi sussurrava all’orecchio: «Non mi sfuggirai. Ovunque andrai, ti ritroverò».

    Credo che sia stata fedele alla sua promessa. Mi raggiunge fino al cuore del Palazzo. Penso che mi sorvegli da un luogo nascosto. Mi segue con lo sguardo, cercando di identificare la donna che ho scelto al suo posto. Le donne sono simili ai frutti della Terra, ognuna ha il proprio territorio di appartenenza, ognuna un sapore particolare da assaggiare. Alcune di loro spariscono per qualche stagione, ricomparendo in quelle successive, mentre aspettiamo il loro ritorno. D’estate come d’inverno, la Terra ruota intorno al proprio asse, e così lo spirito e il desiderio.

    Non sono riuscito a liberarmi del ricordo di Tahani. Torna da me nella sua stagione, come un frutto che ritrovo anno dopo anno sulla tavola, per rammentarmi la prima volta in cui il suo sapore delizioso si è insinuato in fondo al mio animo.

    L’ira perpetua di Osama mi obbliga a deglutire. Il gusto del ricordo è divenuto all’improvviso amaro. Cerco l’immagine di Tahani per correggere la memoria. Ogni volta che una nuova donna arriva a Palazzo, temo che possa essere lei. Il Palazzo trabocca di donne, ognuna con la sua piccola tragedia personale, tant’è vero che sono convinto che lei sia qui, da qualche parte. Sarei addirittura pronto a giurare che lei sia venuta, per poi andarsene. Che abbia potuto vedermi, a distanza, reietto, proprio come ero reietto un tempo, nel quartiere. Ma questa volta, contrariamente a quanto avvenuto in passato, non mi ha scelto.

    Ogni volta che Tahani mi torna in mente, mi metto a fantasticare: mi sembra di intravederla nel vasto atrio del Palazzo. Si toglie la ʿ abaya nera, m’invita – in presenza del Padrone – ad andare a baciarla, si stringe al mio petto. Piange, quindi sbuffa, sfugge al mio abbraccio e va a offrire il suo corpo a tutti quelli che vogliano godere di lei. Concede loro l’estremo elisir della sua femminilità, sputandomi in faccia. Infine, raccoglie le briciole sparse della sua tristezza, come si conviene a un’amante tradita da un uomo indegno dei palpiti del suo cuore.

    Dov’è adesso? In quale profondo recesso del Palazzo è precipitata?

    Tahani è una delle mie vittime, una vittima da cui sono fuggito trentacinque anni fa. La nostra relazione è stata troncata brutalmente nel sangue, in modo da rendere il nostro addio definitivo, senza ritorno. A quell’epoca, non mi sono reso conto di aver spezzato la sua vita. Continuavo a rivangare la nostra storia, quando avevo voglia di ritrovare un briciolo d’innocenza.

    Osama ed io siamo pervenuti a un accordo: non parlare più di lei, per evitare di coltivare l’odio e di favorire l’esplodere di continue liti e dispute tra di noi. Ognuno dorme tranquillamente nel suo angolo, un angolo accogliente come un utero dilatato da una gravidanza gemellare. Lasciamo pulsare il nostro odio dolcemente, evitando di misurarne troppo spesso la tensione.

    Questo patto è rotto da Osama ogni volta che riceve una notizia su Tahani. Le nostre vite si trasformano allora in un poligono di tiro, ma si tratta di tiri alla cieca. La furia trattenuta ci entra nel sangue attraverso la giugulare, i nostri cuori si fanno troppo stretti per sopportare l’uno l’esistenza dell’altro. Ciascuno si sente come se avesse estratto l’altro dalle proprie viscere per metterselo davanti, pronto a spingerlo nel fango per vendicarsi. Per vendicare una coscienza usata per la sopraffazione.

    Restare a vivere nello stesso posto, per Osama e me, è un bisogno esistenziale, il bisogno di guardarsi allo specchio. Vogliamo osservare l’evoluzione delle rughe sui nostri due visi, queste rughe di odio che si estendono sfigurandoci. Ognuno ha bisogno dell’altro per misurare il progredire del male.

    Non sono più in grado di determinare la direzione da prendere per ritrovare me stesso.

    Tutti i miei sentimenti riflettono la schiavitù imposta dal Padrone del Palazzo. Ci vuole davanti a lui, che sia sveglio o dorma.

    Nelle notti di festa, Osama ed io sfuggiamo ai suoi occhi, troppo occupati a seguire le donne che ondeggiano, danzando al ritmo dell’orchestra. Spia i loro corpi, cerca il più morbido, per piantare la sua bandiera fra quelle onde spezzate. Siede in prima fila, mentre gli ospiti, intorno a lui, seguono la sua indagine, approvando ogni sillaba che esca dalle sue labbra. Quando vede il bicchiere vuotarsi, alza un dito e i valletti si precipitano a ricondurlo all’estasi, prima che crolli il fin troppo fragile muro che contiene la sua collera.

    Nel tumulto della festa, in cui tutto è aleatorio, Osama mi si accosta e mormora, febbricitante:

    «Quanto tempo ci resta da vivere prima di uscire da qui?»

    La febbre ci attanagliava anche quando vivevamo ancora fuori dal Palazzo, quando la vita ci scorreva infuocata nelle vene.

    A quei tempi, il Palazzo era ai confini del quartiere. Gli abitanti si assiepavano davanti alle sue luci sfavillanti. E ognuno accarezzava il sogno di penetrare all’interno, di là delle mura.

    Sono certo che la gente del quartiere non abbia ancora rinunciato a quel vecchio sogno, e che continui a ripetersi: come fare per entrare a Palazzo?

    Noi, all’interno, contiamo i giorni che ci mancano per uscirne.

    LANCIA ALTE SCINTILLE COME TORRI, SCINTILLE COME CAMMELLI GIALLI (2)

    Il Palazzo

    Da qualunque lato si entri in città, si vede il Palazzo. Tutti possono intravedere il Padrone da lontano, ma incontrarlo è un grande onore riservato a pochi eletti, che sono fieri di un simile privilegio.

    Se non fosse stato versato il sangue di Jamal il Matto, gli abitanti del nostro quartiere non avrebbero mai avuto occasione di conoscere i lineamenti del Padrone.

    Crescevamo e ci moltiplicavamo, provenienti da tutti i recessi, da tutti gli anfratti del quartiere situato lungo l’autostrada. Controllavamo il suo arrivo, in un chiasso uguale a quello che saliva dalla nostra bidonville. Eravamo immersi nel nostro stesso caos, tutte le nostre voci si levavano contemporaneamente, ognuno avrebbe voluto zittire il proprio vicino, perché il frastuono non coprisse la nostra voce.

    Ogni giorno, una folla si radunava laddove il quartiere fiancheggiava la strada che il Padrone percorreva per recarsi a Palazzo, nell’eterna speranza di gettare su di lui un’occhiata. Ogni giorno, la sua auto attraversava il nostro assembramento, senza che mai riuscissimo a scorgere uno solo dei suoi tratti, per la qual cosa eravamo tutti riuniti in quel luogo.

    Ma quando Jamal il Matto si schiantò contro il paraurti della sua auto, quando fu scaraventato al suolo, allora, infine, quel giorno, quel veicolo eternamente in fuga si fermò.

    Riuscimmo a intravedere la sua figura, la sua eleganza stravagante, i suoi lineamenti di cristallo privi di qualsiasi imperfezione, se non fosse stato per il solco che si increspava tra le sopracciglia scendendo fino alla labbra, in una smorfia scandalizzata. La sua serenità era turbata da un senso di disgusto di fronte al nostro assieparsi intorno alla sua auto. I nostri sguardi erano lance affondate nelle sue guance arrossate, nel suo collo rigido per la curiosità.

    Quella visione fu un evento che ognuno si ingegnò di raccontare a modo proprio. Gli ascoltatori accoglievano tutte le versioni, corredate di dettagli minuziosi, con una meraviglia crescente, per poi riportare il racconto a

    Enjoying the preview?
    Page 1 of 1