Oltre l'abisso
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Book preview
Oltre l'abisso - Laura Petrarca
633/1941.
DEPRESSIONE
Mi chiamo Angelica, ho ventun anni e sono di Roma. Convivo da un anno con una tremenda malattia chiamata comunemente depressione. Crediamo che il male del secolo si definisca con il termine cancro; forse è vero, ma credetemi se vi dico che vivere con milioni di tarli che mi divorano la mente non è poi così facile.
La mia famiglia è una famiglia come le altre: papà è architetto e spesso si sposta in Australia, mamma è banchiera in una famosa filiale svizzera, mio fratello
Giovanni ha ventisette anni ed è un ingegnere informatico.
Fin qui va tutto bene.
Sono io il problema.
Lo sono per me stessa, lo sono per loro, lo sono per gli altri.
Al mattino la mia giornata non inizia mai; mi alzo, e anche se il cielo appare di un ceruleo intenso, anche se splende tra i tetti, anche se fuori ci sono venticinque gradi, io vedo solo gelo, grigio, nebbia, foschia.
E mentre Giovanni assapora un cornetto al cioccolato, io vorrei tornare a letto e stare con gli occhi chiusi tutto il giorno.
L’università ormai mi è diventata un enorme, stratosferico macigno, un masso che non riesco più a sollevare, una circostanza di angoscia perenne che non riesco più a gestire.
Molte volte fingo di stare male, così posso addentrarmi tra i miei pensieri e dialogare in pace con i miei mostri. Quei mostri così cattivi, malvagi, senza scrupoli, sono i miei pensieri, sono quei piccoli esseri irrefrenabili che mi logorano l’anima.
Sono come lame affilate che mi tagliano la mente; più cerco di spezzarle, più scavano la ferita, e questo, ad un certo punto, inizia a piacermi.
La cena è un’occasione di confronto per la mia famiglia; mio fratello ha così tante cose da raccontare, è così entusiasta del suo lavoro, della sua carriera e persino della sua vita.
Mi fa schifo vedere la faccia compiaciuta di mio padre, che con un sorriso smaliziato, gli batte una spalla e gli sussurra Bravo Giovanni, bravo
.
E io vorrei sprofondare nel bicchiere che ho davanti, bicchiere che anche se mezzo pieno, io vedo sempre mezzo vuoto, anzi proprio non lo vedo perché i miei occhi non sono vigili.
Il mio corpo è tra loro, ma la mia mente dista un migliaio di chilometri rispetto a quel perfetto quadretto familiare.
Mamma ha sempre così molto da dare; lei si dà da fare per tutti. Nonostante lavi i piatti, faccia del giardinaggio, raccolga le erbacce, lei ha sempre le mani impeccabili.
Per lei conta avere una casa all’apparenza ordinata e pulita, il parquet lucido e soprattutto, che Giovanni indossi le camice profumate e ben stirate.
Il martedì è l’unico giorno della settimana nel quale non vado a lezione, e per questo i miei jeans restano segregati in lavanderia, tanto non devo uscire e poi chiusa in casa chi mai mi potrà vedere in tutta la mia bruttura.
Sono un essere infame, deforme, turpe; sono lo scarafaggio di Kafka, sono il gobbo di Notre Dame, sono una cicatrice marchiata dentro un corpo perfetto.
Ho pochi amici. Quelli che ho, li amo esattamente allo stesso modo: c’è Luigi, espansivo e brillante, c’è Andrea timido ma geniale, c’è Lucia bella ma svampita e c’è Valium, amaro, acido, senza consistenza.
Tra tutti, è quello che mi fa star meglio. A qualsiasi ora del giorno, della notte, in ogni momento, se sono colta da una crisi improvvisa, lui c’è.
Lui si concede a me goccia dopo goccia, mi penetra dentro e sa dove lenire le mie scottature.
Non mi annoia, mi infonde coraggio e molta adrenalina, anche se la sera può diventare pesante, oserei dire, quasi insostenibile, tanto che mi fa subito addormentare.
Se non lo porto sempre con me, inizia a mancarmi, come se ne fossi indipendente, quasi legata da un vincolo indissolubile.
E’ un po’ ingiusto nei miei confronti; lui vuole, pretende che io sia di sua proprietà.
Più cerco di staccarmi, più il cielo mi sembra grigio e rimpiango Valium, rimpiango il suo calore, il suo modo di farmi divertire anche se di divertimento in giro ce ne è gran poco, il suo modo di far diventare la margherita una rosa, il mare un oceano, un film la realtà.
Molto spesso piango.
A lezione, tra una spiegazione e l’altra, io piango.
L’altro giorno, il prof di pedagogia non era quello di sempre. Mi continuava a guardare sottecchi, mi lanciava dolorose occhiatacce, e poi aveva promesso che avrebbe spiegato l’età evolutiva ed invece ha spiegato Freud.
Lara è la mia compagna di corso. Lei nelle pause va a fumare vicino al chiosco, poi mi porta un thè troppo zuccherato.
Lei è consapevole di quanto io preferisca un caffè corto in tazza grande, ma ugualmente continua a portarmi del thè.
I depressi sono destinati a non bere il caffè.
Ma Lara è ingenua, ignora il fatto che nel thè c’è tanta caffeina quanta ne contiene una tazzina di caffè.
Se volesse veramente il mio bene, mi porterebbe la camomilla, quella della Bonomelli, quella solubile e con la confezione decorata da stelline luccicanti.
La sera non esco più; i locali mi sembrano dei bunker senza scampo, dei solchi profondi nei quali si rifugiano bizzarri topi senza valori, per scampare alla monotonia della vita quotidiana.
Io invece voglio guardare in faccia la mia tristezza, voglio sfidarla, ma non so se avrò la forza di lottare contro essa e sconfiggerla.
La domenica è il giorno che più detesto; l’intera famiglia si riunisce attorno al tavolo che la mamma prontamente ricopre