Piccoli stralci
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About this ebook
"Avrei voluto fermare il tempo. Restare chiusa con lei in bagno a passarle la spugna profumata di saponetta su tutto il corpo e darle tanto sollievo. Volevo rubarle il più possibile, dal più piccolo suo atteggiamento a tutto quello che era. Ma non ci sono riuscita. La sua unicità rimarrà sempre solo un bel ricordo. Il momento più bello era ......"
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Book preview
Piccoli stralci - Paola Viscione
Farm
Il grande tiglio
Un nuovo giorno con fatica si stava svegliando, l’aria era pungente e l’opacità del cielo faceva presagire l’arrivo della neve. Era l’inizio di Gennaio. Il paese sembrava immerso in una strana immobilità. Il silenzio era tale da indurre a pensare che niente potesse invaderlo , se pur certo che da lì a qualche ora i vicoletti sarebbero stati invasi dal vocìo dei bimbi pronti per la scuola e profumati dagli odori provenienti dalle varie casupole, tutto sembrava cosi lontano. Erano le cinque del mattino. Il giorno della partenza era arrivato. Nella piazzetta del paese, le ombre scure del grande tiglio non riuscivano a nascondere la tristezza di quei volti a me così cari. Il grande albero scenario di tante storie, era lì presente con la sua imponenza. Quella mattina sul palco c’eravamo noi. Mia mamma era lì immobile, i suoi occhi nocciola erano cerchiati da un ombra scura . Vedevo in essi un velo triste di malinconia e smarrimento. Quel velo così lontano e così familiare, oggi lo rivedo riflesso nello specchio quando sono io ad avere qualcosa che non va. Al suo fianco come sempre c’era mio padre in tutta la sua magrezza, i suoi vestiti quella mattina sembravano una taglia in più. Si era rimpicciolito, la sua prediletta stava partendo. Da ogni suo gesto traspariva la sua natura un po’ stravagante, di chi ha qualcosa di diverso rispetto agli altri. Non ho mai capito cosa fosse. Una bontà infinita e infantile che solo chi la conosce non la confonde con la follia. A partire ero io. I miei cugini che mi aspettavano accostati al marciapiede con la macchina stracolma di bagagli, cercavano di rassicurare i miei genitori dicendo loro che a Milano non sarei stata sola. Oltre ai miei cugini, Giulia e Carlo, c’era mio fratello Gaetano che da qualche anno lavorava nelle ferrovie dello Stato. E cosi dopo Gaetano toccava a me lasciare la famiglia. Partivo per Milano dove il mio primo lavoro mi stava aspettando. Dopo mille raccomandazioni di mia mamma e il silenzio assoluto di mio padre , la macchina partì. Non ebbi il coraggio di voltarmi, ero felice di lasciare Rocca, di tirarmi fuori da quel posto che non dava niente a chi restava. Sentii una morsa al cuore, per un attimo non riuscii a respirare. Dovevo essere forte, staccarmi da quel cordone che mi aveva sempre protetta, quel cordone che per crescere quattro figli, aveva rinunciato alla propria vita. Io volevo la mia e sicuramente lontano da lì. Sentivo una smania addosso che mi rendeva irrequieta. Non pensavo che da quel momento in poi, li avrei rivisti solo per brevi periodi. Avevo solo fretta di lasciare quel posto, come se fino a quel giorno fossi stata costretta a restare. Mai avrei pensato che quell’allontanamento ,cosi cercato, mi avrebbe fatta poi soffrire. Rocca era dentro di me, nel mio modo di essere più di quanto potessi immaginare in quel momento. Quel tiglio mi aveva vista crescere. Quei vicoli trasudavano giochi infantili, pianti, litigi, amori, sentimenti che si ripetevano nel tempo e tra questi c’erano anche i miei. L’unica cosa che non sentivo assolutamente mia e dalla quale volevo solo allontanarmi era la rassegnazione di chi restava. L’adattarsi a convenzioni modi di fare e preconcetti che non sentivi dentro di te e quando provavi a contrastarli, ti facevano sentire diverso e fuori da quel gruppo così ristretto e cosi omogeneo .
Ero già stata a Milano. Subito dopo il diploma, mio padre mi aveva detto, che le Poste italiane assumevano a tempo determinato. Bisognava fare domanda e nei periodi in cui c’era mancanza di personale assumevano per tre mesi. Un mese dopo la presentazione della domanda, fui assunta dal Centro Smistamento di Linate. Quell’esperienza mi permise di assaporare una realtà diversa da Rocca. Lavorare, avere qualche soldo in tasca e, vivere in una grande metropoli come Milano, che trent’anni fa era ancora una giovane puttana che ti ammaliava e ti faceva innamorare senza pudore, radicarono in me la consapevolezza che avrei fatto di tutto per non tornare a Rocca. Lavorare nel reparto smistamento di Linate fu una sorpresa incredibile. I tre mesi volarono, furono giorni spensierati e liberatori. Mi ero tolta di dosso quel cappotto pesante che subito dopo il diploma mi aveva avvolta senza darmi respiro, la disoccupazione. Addirittura in alcuni momenti mi sembrava di vivere una favola, mi ritrovai tra persone molto semplici, ma soprattutto allegre. Era come se si fossero messi d’accordo per ritrovarsi tutti li e passare insieme quei tre mesi. Il capo reparto era un napoletano, si chiamava Cesare, magro con pochi capelli, aveva occhiali spessi ed era balbuziente, le prime volte che ci parlavo mi sentivo a disagio . Quando mi parlava non sapevo dove guardare, mi sembrava un affronto guardarlo mentre il suo viso tremolava Il suo braccio destro Domenico era il