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L'equazione. Storia di un primo amore, per non parlar di una formula...
L'equazione. Storia di un primo amore, per non parlar di una formula...
L'equazione. Storia di un primo amore, per non parlar di una formula...
Ebook957 pages13 hours

L'equazione. Storia di un primo amore, per non parlar di una formula...

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About this ebook

“L'equazione” non è solo la storia di un primo amore, ma soprattutto un complicato rompicapo che intreccia passato e presente, memoria e sogno per riflettere sull'equazione della propria vita alla ricerca dell'errore che non ha fatto quadrare il risultato finale. E' un tentativo di giocare con il tempo, per provare a capire cosa sarebbe successo se quell'errore fosse stato evitato.

Una formula che darà luogo ad un finale a sorpresa.

Il romanzo è ambientato nella metà degli anni '80 ed è anche una storia di musica, di amicizia, di una crescita che passa attraverso l'esame di Maturità, di appassionate discussioni sull'arte, la cultura, le tecnologie, la scienza, la storia.

Con un salto di 30 anni, il finale riproporrà i protagonisti cinquantenni, con le loro vittorie e le loro sconfitte. E' quello il momento in cui scatta il gioco della memoria: la ricerca dell'errore che, più di tutti gli altri, ha condizionato l'equazione della propria vita.

Vi stupirete di scoprire stati d'animo in grado di far vibrare l'anima e provocare emozioni anche a distanza di quarant'anni.

Questo romanzo è dedicato a tutti coloro che vogliono tornare agli anni della propria giovinezza per evitare che sprofondino oltre l'oblio dei ricordi.

Ma anche a chi ha ancora voglia di risolvere la propria equazione, di giocare con la propria memoria e nessuna intenzione di smettere di sognare.

Si aggiustò i capelli dietro le orecchie e le raccontò del parallelo che Almerico le fece su quella che lui definì “elettronica amorosa”.

«Lui è convinto che nel cuore di ciascuno di noi, ci sia un piccolo angolo un po' fuori mano, difficile da trovare» Camila portò le mani innanzi agli occhi di Annalia, il pugno della sinistra stringeva l'indice della destra. «Questo posticino contiene il sensore che innesca una riserva di emozioni speciali, quelle vibrazioni che avvertiamo solo quando una persona è in grado di far giungere il suo calore fin lì»

Aprì la mano sinistra e liberò il dito-sensore.

«Almerico ha parlato di calore umano?» chiese Annalia meravigliata.

«Non proprio...» commentò Camila divertita «lui l'ha definita una piccola corrente, pochi milliAmpere. Ho fatto una specie di traduzione simultanea»

Le due sorrisero. Pur avendo utilizzato termini diversi, il concetto restava di egual dolcezza.

[…]

«Io credo che quelle emozioni si attivino raramente, perché sono molto pericolose. Possono farti stare male se non le provi al momento giusto e con la persona giusta. Forse fu per questo che io feci finta di non sentirle, qualche anno fa. A cinquant'anni, sarò curiosa di sapere quante volte si sarà acceso e per chi...»
LanguageItaliano
PublisherMax J. Parker
Release dateJun 22, 2016
ISBN9786050462500
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    L'equazione. Storia di un primo amore, per non parlar di una formula... - Max J. Parker

    Chaplin

    METTETEVI COMODI

    Si potesse fare, questa storia andrebbe letta ad occhi chiusi. Purtroppo, al momento questo non è possibile. Chissà in futuro...

    A dire il vero una soluzione ci sarebbe: sdraiarsi sul letto, rilassarsi, chiudere le palpebre e affidarsi ad un paziente narratore. Come quando, infilati sotto le coperte e abbracciati al nostro orsacchiotto, mamma e papà ci leggevano, con dolcezza e pathos, le favole prima di addormentarci.

    Questa, però, non è una favola. E' la storia di un primo amore e di come è andata a finire. Di come sia possibile che a distanza di quarant'anni, le immagini siano ancora così nitide e i ricordi adolescenziali si trasformino in uno stato d'animo persistente, custodito nei templi di un passato che cerca di ribellarsi al rischio di oblio. Di come sia possibile che il primo amore possa far vibrare le emozioni (o provocare dolore) anche a distanza di così tanti anni.

    Questa storia potrebbe parlare della tua vita, delle tue aspettative, del tuo bilancio personale e sentimentale. Ma anche di molto altro.

    Stai per compiere un lungo viaggio nel tempo.

    Tornerai ad immergerti nei tuoi diciotto anni e leggerai di una storia felice tra due ragazzi responsabili, simili e diversi allo stesso tempo. Il cui segreto è volersi bene, capirsi e rispettarsi. Ti torneranno in mente i ricordi di quei tuoi anni spensierati, il tuo gruppo di amici, il rapido scorrere dei giorni, l'illusione che le cose avvengano senza dover intervenire, come se tutto fosse dovuto, come se ti sarà concesso tutto.

    Farai un salto di trent'anni, per tornare al presente e scoprire le storie di quattro protagonisti, ormai cinquantenni, che riflettono su cosa erano e cosa si aspettavano sarebbero diventati. E sarà anche il momento per meditare sul tuo bilancio: in amore, sul lavoro e nelle amicizie.

    Nella vita, così come quando si sviluppa un'equazione, sono tanti gli errori che incidono sul risultato finale. Dopo trent'anni, forse riuscirai ad individuarli, ma non sarai più in grado di correggerli.

    Al termine della storia ti sentirai il regista della tua vita: rivedrai il film che hai scritto, ma non potrai cambiarne le scene.

    Se oltrepasserai il sottile confine che separa la memoria dal sogno senza porti alcun freno, ritroverai emozioni che erano chiuse in te e che ti permetteranno di riscrivere, con le parole, tutta la tua vita.

    Che tu abbia quaranta, cinquanta o sessant'anni non è importante. Quello che conta, se vuoi leggere questa storia, è avere ancora voglia di sognare.

    Nonostante la realtà possa non essere quella che ti prospettavano i tuoi diciotto anni, i sogni rappresentano un risarcimento danni da investire nel tuo futuro.

    Buio in sala.

    PRIMO TEMPO

    Prologo di un'attesa

    "Ma il tempo. Il tempo chi me lo rende?

    Chi mi dà indietro quelle stagioni

    di vetro e sabbia chi mi riprende

    la rabbia e il gesto, donne e canzoni."

    (Francesco Guccini, Lettera - 1996)

    Lo aveva atteso per quattro anni.

    Sapeva che avrebbe potuto cambiare la sua vita. Un'interminabile sequenza di giorni, trascorsi trascinandosi addosso gli impegni.

    Nella consapevolezza che mancava sempre qualcosa.

    Qualcosa?

    Lo sapeva benissimo di cosa si trattava. Ma non ne aveva mai parlato con nessuno.

    Si può dire che vivesse in una silenziosa attesa. Non un'attesa reclusa, sofferente ed irraggiungibile oltre il filo spinato della memoria. Un'attesa che è sempre lì. Tu sai che c'è. Ci convivi, non diventa un problema.

    Continui a pensare alle tue cose e, quasi distrattamente, ogni tanto, butti lo sguardo oltre quel confine, senza dare nell'occhio.

    Ma tu sai che il problema c'è. Pensi anche che potresti portartelo addosso per tutta la vita, quel peso.

    Ne sei consapevole.

    Forse sottovaluti.

    Ma intanto aspetti.

    1. L'incontro

    "Fingo di stare calmo, ma sono già le sei.

    Se avessi più buon senso magari me ne andrei.

    Cerco di stare fermo in mezzo al via vai

    t'aspetto per fermarti, fra poco scenderai."

    (Pierangelo Bertoli, I miei pensieri sono tutti lì - 1983)

    Stazione ferroviaria. Esterno giorno. Un pomeriggio di mezza primavera del 1983. Il cielo nuvoloso, incerto. Una pioggerellina che non meritava nemmeno l'apertura dell'ombrello. Un clima da mezza stagione, quando le mezze stagioni erano una cosa seria.

    Oltre l'ampio piazzale, l'inizio di uno dei tre corsi principali della città posti a forma di Y, con alla base il maestoso corso Garibaldi che giungeva sino al porto.

    Un percorso, questo, che da maggio a settembre subiva la transumanza di un milione di turisti che, seguendo la corrente come pesci in un fiume, raggiungevano il mare. Scivolavano giù dai treni provenienti dall'intera Europa e approdavano agli ormeggi del porto dove li aspettavano, grassi e imponenti, i traghetti per la Grecia.

    Quel giorno di aprile, il poco traffico scorreva lento e regolare: brutto tempo per lo shopping, troppo presto per lo struscio.

    Ad una fermata dell'autobus, un ragazzo diciassettenne, zaino scolastico al seguito, attendeva l'arrivo del mezzo che lo avrebbe riportato a casa. Appassionato di elettronica, si era trattenuto a scuola oltre la fine delle lezioni per seguire l'impegnativo corso pomeridiano di Elettronica digitale, fondamentale per ampliare le conoscenze oltre i programmi ministeriali.

    I pensieri, come al solito, volti al nulla o, peggio, all'insignificante. Di quelli che appena vedevi da lontano la sagoma del bus che si avvicinava, svanivano senza lasciare traccia.

    Ad un tratto, qualcosa colpì la sua attenzione. Sul marciapiede di fronte, proveniente da dietro l'angolo dell'incrocio, una ragazza aveva appena svoltato. Frettolosa, il viso apparentemente triste di chi è focalizzato su mille pensieri.

    Era bionda, pur senza averne l'aria. Minuta, ma non piccola, dalle forme compatte e sinuose: portava a tracolla una borsa scolastica a tasca laterale in tessuto di jeans consumato, un classico per quei tempi.

    L'avvolgeva un giubbino leggero: quelle nuvole avevano fatto abbassare la temperatura sotto la sua soglia di guardia.

    E' lei!, pensò fra sé e sé il ragazzo tornando con la mente all'ultimo anno delle scuole medie, quando con la compagna di banco aveva consumato un amore silenzioso ma invasivo.

    La distanza era sufficiente per osservarla con tutta l'attenzione che quattro anni di attesa imponevano, nell'impossibile tentativo di recuperare il tempo perduto. Ma non troppo breve per chiamarla senza attirare una buona dose di spettatori.

    La fermo? E se non si ricorda neanche della mia esistenza? pensò il ragazzo, riflettendo su quell'imbarazzante ipotesi.

    Ma il tempo stringeva. Se voleva bloccarla prima di perderla di vista, aveva ancora una finestra spazio-temporale di pochi metri e tre-quattro secondi. Poi, sarebbe finita oltre l'orizzonte degli eventi, fuori dalla sua gravitazione e sapeva già che non avrebbe avuto il necessario coraggio di inseguirla e fermarla.

    Entrò in diagonale nella carreggiata, cercando di percorrere una linea di intersezione con la sua traiettoria, e la chiamò.

    «Càmila!»

    La ragazza rallentò per un attimo ed alzò la testa: con sorpresa, non notò nessuno che la stesse incrociando. Forse era talmente assorta che ebbe solo l'impressione di essere stata chiamata. O forse la voce proveniva dall'interno di una casa con la finestra aperta. Con un movimento impercettibile del volto, ritornò sui suoi pensieri.

    Accidenti, forse non era il caso. Lo sapevo che sarei finito con il fare il cretino in mezzo alla strada!. A quel puntò realizzò che aveva deciso di fermarla e oltrepassato il punto di non ritorno. Doveva riprovarci.

    Accelerò il passo e, mentre l'auto che aveva rallentato per farlo attraversare fu superata da quella successiva, la richiamò, con tono di voce più deciso.

    «Càmila!»

    Stavolta lei capì da dove proveniva la voce e si voltò verso la strada.

    «Attento!» urlò sgranando gli occhi azzurri e fermando l'immagine del volto, rendendosi conto del pericolo cui il ragazzo andava incontro.

    Lui si fermò istintivamente e, con la coda dell'occhio, vide la sagoma di un'auto scura che fu costretta ad un rapida gincane.

    «Le strisceeeee, Cristo!!!!» inveì il conducente nello schivarlo.

    Sentì una frustata lungo le gambe che gli fece cedere per un attimo le ginocchia: la gioia per l'essere riuscito a fermarla fu medicina miracolosa, al pari delle bottigliette che i medici sportivi porgevano ai calciatori quando si accasciavano in terra per perdere tempo.

    Completò l'attraversamento della carreggiata e se la ritrovò di fronte. Lei lo guardava con gli occhi curiosi di chi non aveva ancora realizzato.

    «Beh, grazie. Hai appena salvato da un incidente il tuo ex compagno di banco»

    «Almerico!» esclamò Càmila con un sorriso di compiacimento. «Ma sei davvero tu? Mi ricordavi qualcuno, ma scusami... ero sovrappensiero»

    «Sei rimasta uguale, ti ho riconosciuta subito»

    «Ad osservarti bene, anche tu sei molto simile. Quella frangetta in disordine, come al solito»

    «Ad aver voglia di guardarsi allo specchio, magari si riuscirebbe a domare»

    «Che fai da queste parti?» domandò sorridente lei.

    «Stavo aspettando il bus per rientrare a casa. Il pomeriggio frequento un corso di Elettronica Digitale e ci tratteniamo a scuola»

    «Accidenti. Ma quante ore fate all'ITIS?»

    «Sono corsi pomeridiani facoltativi, un'opportunità di imparare cose nuove. E tu,» proseguì il ragazzo «che fai, rientravi a casa?»

    «Sì. Ci siamo ritrovati da un compagno di classe per un lavoro di gruppo. Come al solito abbiamo concluso poco e ora mi tocca ricominciare da capo. Ecco perché ero un po' distratta»

    «Allora se sei impegnata, ti lascio andare. Non vorrei essere un secondo ostacolo... tanto ci si rivede in un'altra occasione»

    «Sì, capirai!» commentò la ragazza con una smorfia ironica accompagnata da un dolce sorriso. «Sono quattro anni che faccio su e giù per il corso mattina e pomeriggio e... quante volte ci siamo incrociati?»

    «Zero»

    «Dai, muoviti» Càmila fece un cenno con la testa e aggiustò i capelli dietro l'orecchio. «Facciamo un po' di strada assieme. Magari l'autobus lo prendi alla prossima fermata»

    "Cose del passato come fragili poesie,

    innocenti ammassi di bugie.

    Ho trovato i resti di un eterno che non è,

    detto e consumato in tanti giorni con te."

    (Pierangelo Bertoli, Cose del passato - 1984)

    «Ti trovo splendida»

    Càmila era una ragazza che non passava inosservata, anche se odiava essere appariscente e il suo abbigliamento era sempre molto pacato, mai esibizionista. I suoi lunghi capelli biondo cenere splendevano di luce propria anche quando non erano esposti ai raggi del sole. Una frangetta naturale, sulla fronte alta, esaltava il luccichio azzurro mare che riflettevano suoi occhi. Profondi, di quell'azzurro che si accendeva a distanza, che ti colpiva come un diretto e ti stendeva senza farti neanche rendere conto della batosta. Te ne accorgevi dopo, quando era troppo tardi. Le ciglia, lunghe e delicate, danzavano armoniosamente sulle guance tondeggianti che accarezzavano due labbra sottili e sensuali.

    Il fisico era asciutto, privo di forme mozzafiato ma dotato di lievi curve armoniose. Nessun eccesso. Forse qualche chilo in più le avrebbe giovato, fisicamente parlando, ma non era un problema che Càmila si poneva.

    Quello che la caratterizzava, sin da piccola, erano due aspetti difficilmente riscontrabili in una ragazzina della sua età: decisione e maturità. Caparbia, tenace e costante nelle cose che faceva, detestava la superficialità, il non trovarsi preparata di fronte ad un impegno. Non per gli altri, per se stessa. Non voleva sentirsi inadeguata in ciò che faceva. Aveva un senso di maturità sopra la norma, una responsabilità che non ti aspettavi da uno studente. Perché lei non era semplicemente uno studente.

    Lo studente normale si reca a scuola per una sorta di principio d'inerzia: ha ricevuto una spinta in qualche momento del proprio passato e procede lungo la stessa direzione come una massa inerziale nello spazio. Ogni tanto, una piccola correzione di rotta di natura gravitazionale (l'entusiasmo per una materia) o da impatto contro altri corpi celesti (un quattro in matematica). Uno studente normale arriva senza troppi danni alla maturità.

    Ma lei no. Era come se stesse pensando, giorno dopo giorno, a quel suo progetto di vita in cui il fare un qualcosa (l'avvocato, il manager, il medico) non era semplicemente svolgere un lavoro, ma essere quel qualcosa, interpretare gli insegnamenti coerentemente alla propria natura. Qualche anno prima aveva letto una frase che l'aveva colpita "Lo stile è l'impronta di quello che sei in quello che fai": lì per lì non aveva fatto caso a quanto fotografasse a pieno diaframma l'orizzonte della sua vita. Le piaceva ricordarla, quando c'era da portare a termine un compito.

    Era molto riservata ma non introversa. Parlava volentieri ma la sua voce era bassa e non le piaceva essere al centro della scena, anche se la sua presenza la sentivi eccome. Come quelle zone di materia oscura che, pur non vedendole, facevano ruotare tutto attorno a sé, Càmila era una che contava nel gruppo.

    Forse era questo suo atteggiamento maturo e riservato a farla apparire, a chi non la conoscesse, ricoperta di un velo di spocchiosa antipatia, che a volte poteva anche far comodo. Per togliersi dai piedi il solito ragazzetto che ci provava, ad esempio.

    «Dici?» rispose la ragazza non trovando l'argomento troppo interessante da approfondire. «Tu neanche sei cambiato molto. A parte quei... peli sul viso che deve costarti troppa fatica raderti. Brufoli e barbetta, il marchio di voi ragazzi»

    Almerico si portò la punta delle dita sul volto, per controllare lo stato della sua peluria.

    «Effettivamente...» commentò con uno sbuffetto di approvazione. «Ma se ci pensi bene, ricorderai che gli specchi sono una cosa della quale in casa potrei benissimo fare a meno»

    «E' vero!» Càmila iniziò ad imitare la prof di italiano ai tempi delle medie. «Caratti, ma sei venuto con la moto stamattina? No, prof con il pullman, come al solito. E allora vedi di stare lontano dai finestrini aperti che ti fa anche male alla salute»

    I due si scambiarono un sorriso.

    «Me lo ricordo,» confermò lui «era un modo simpatico per consigliarmi l'uso di un pettine. Anche se l'ultimo anno sono un po' cambiato...»

    Almerico era un ragazzo dagli occhi vispi, capelli castano scuro ed una frangetta molto ribelle. Era inutile tentare di tirarla giù a colpi di spazzola: non c'era verso, pochi secondi e paf, rieccola comparire proprio in mezzo alla fronte. Alla fine si era rassegnato concludendo che non valesse la pena perdere tempo appresso a spazzole e specchi. Da ragazzino aveva delle guanciotte tira-pizzico che si erano ridimensionate con la crescita. Gli occhi profondi e le labbra carnose erano il suo biglietto da visita, quello per cui restava impresso soprattutto alle ragazze. Castani dal taglio particolare, producevano uno sguardo carismatico verso gli altri. Poco più alto di lei, il fisico robusto contrastava l'esile fragilità della quasi totalità dei coetanei che, come amava dire lui, per la fredda statistica era denominata magrezza. Categoria dalla quale egli era escluso senza rientrare in quella opposta, i grassi. Solo un po' di pancetta in più, che andava e veniva.

    Nonostante le apparenze, era molto agile e dai riflessi molto pronti, grazie ad un precoce avviamento allo sport a soli sei anni: basket, judo e tennis, attività caratterizzate da rapidità e coordinamento nei movimenti

    Sin da ragazzo i giudizi a scuola erano stati unanimi: intelligente, grandi capacità di apprendimento, ma "potrebbe fare di più. Si applicava poco, secondo gli insegnanti, ma era la natura stessa del suo talento: afferrava al volo qualsiasi cosa ed elaborava autonomamente i concetti, finendo con lo scocciarsi fino all'argomento successivo. Nel frattempo, tendeva a fare il minimo sindacale, a pensare ai fatti suoi. Era un sognatore, Almerico. Quando si risvegliava dai suoi progetti, rincorreva i passaggi che si era perso e si rimetteva in linea, E il ciclo si ripeteva. Quel potrebbe fare di più", se lo meritava tutto.

    «Quando ti conobbi, in prima media, mi colpisti. Eri intelligente, sapevi già un sacco di cose che noi non avevamo ancora studiato. Conoscevi già l'analisi grammaticale e l'analisi logica, te lo ricordi?» sottolineò lei, colpita da quel ragazzino.

    «Non ero un genio. Semplicemente avevo avuto una maestra elementare molto capace, che ci aveva fatto lavorare molto in classe. Detestavo i compiti a casa, meccanici e ripetitivi. Tempo perso. Secondo me a casa un bambino deve stimolare la fantasia, la creatività»

    «Sarà, però non perdevi un colpo. E poi avevi quegli occhi...» Càmila rallentò un attimo e si girò per osservarlo da quei pochi centimetri che li separavano. «Pardon. Hai, quegli occhi... io li definivo intelligenti e curiosi. Spesso rimanevo rapita dal tuo sguardo, luccicavano furbetti, quando cercavi una risposta»

    «Non posso credere che tu, proprio tu, la prima della classe, potesse pensare una cosa del genere su di me» la interruppe Almerico alzando leggermente lo sguardo al cielo per l'incredulità.

    «Pensa che,» proseguì la ragazza «quando eri distratto ma riuscivi a riprenderti e rispondere correttamente, mi veniva voglia di prenderti a schiaffi!»

    «Ho risparmiato molte botte, allora» scherzò lui per dribblare il rimprovero.

    «Decisamente! Fin quando non iniziammo la terza media. Non sembravi cambiato, l'atteggiamento verso le lezioni era lo stesso. Ma poi la prof d'inglese...»

    «La mitica Balsaretti» intervenne Almerico.

    «Proprio lei!» sottolineò Càmila rivolgendo verso il ragazzo un colpo secco dell'indice. «Rivoluzionò l'aula e ci divise in gruppi. Me lo ricordo ancora. Posizionò sei banchi proprio accanto all'entrata dell'aula, sulla sinistra della cattedra e sciorinò la formazione: Guaretti, Romagnoli, Elliade, Vestrelli, Alimonda e Caratti»

    «Uno di fronte all'altra... io la presi come una punizione»

    Almerico sapeva di non essere stato particolarmente ironico ma di certo non si aspettava il pugno che Càmila assestò sul suo bicipite sinistro. Non gli aveva fatto male, naturalmente, ma quando si girò ad osservarla per scusarsi, la ragazza aveva ancora la bocca semichiusa e l'espressione contratta, pronta a sferrare un altro colpo.

    «Non sei spiritoso. E sappi che so anche colpire per far male»

    «Avvertimento ricevuto» si scusò riconoscendo l'indelicatezza della battuta.

    «Però quella punizione, come la chiami tu, servì» proseguì lei.

    «Punizione? Ero emozionato. Sapevo di non essere alla tua altezza ma pur di non fare brutta figura nei tuoi confronti ero disposto a studiare anche la notte. Lo vuoi sapere un piccolo segreto?»

    «Wow, siamo già arrivati ai segreti? E di che si tratta?» chiese lei curiosa.

    «Ti ricordi che ogni dieci-quindici giorni la Balsaretti risistemava i gruppi?»

    «Eccome» annuì la ragazza. «E mi ricordo anche i cori di protesta. Ma con quella lì, erano fiato sprecato»

    «Ero talmente terrorizzato che ci separassero, che la sera pregavo come un bambino che il nostro gruppo non fosse rimescolato»

    «Tu? Pregavi?» il movimento lievemente all'indietro della testa, lasciò trasparire tutto lo stupore della ragazza. «Ma se eri talmente ateo che mangiavi carne solo il Venerdì Santo e il mercoledì delle Ceneri!»

    «Fu una delle cose che ho rivisto, in quell'anno. Mi sentivo talmente impotente di fronte alla situazione, che era l'unica cosa che mi sentivo di poter fare»

    I due erano giunti all'incrocio dei due corsi che, come una bocca di fionda, si riunificavano in quello principale. Càmila si fermò pensando che l'amico dovesse girare per raggiungere i capolinea degli autobus. Lo sguardo che Almerico percepì era di delusione, di fronte ad un commiato forzato. Il ragazzo si girò verso il marciapiede dei bus, poi indicò il porto.

    «Abiti sempre in fondo al corso, di fronte al mare, vero?» le chiese con un sorriso complice.

    «Certo» confermò Càmila. Tra i due vi era ancora una vecchia intesa, quella complicità di chi si conosce bene. Anche a distanza di tempo.

    «Ti dà fastidio se ti accompagno fino a casa?»

    «E' un piacere...» la ragazza raccolse l'invito, soddisfatta.

    Attraversarono l'incrocio e si incamminarono sul marciapiede di destra. Ripresero a camminare, stavolta con andatura più lenta come per allontanare il raggiungimento del traguardo. Un tentativo relativistico di dilatare lo spazio-tempo, per rallentare l'orologio al contrario.

    «Allora te lo racconto anche io un piccolo segreto. Hai rischiato di farti prete per nulla»

    «Cioè?» Almerico la osservò con aria interrogativa, non cogliendo il nesso.

    «Poco dopo Natale, ero in corridoio in attesa del cambio di ora. Passò la prof Balsaretti che mi vide sola e mi chiamò. Fu molto rapida, mi disse poche cose. Avevano notato che da quando eri nel mio gruppo ti stavi applicando molto di più. Credevano fosse merito dell'affiatamento che c'era tra di noi e avevano deciso di non spostarti più per il resto dell'anno. Mi chiese se per me andava bene così o avrei preferito ruotare come gli altri»

    «Che le hai risposto?» Almerico, stupito, si fermò per osservarla attentamente.

    «Io... le ho detto che per me andava bene, che anche io avevo notato i tuoi progressi ma che pensavo fosse solo merito tuo, che li avresti fatti anche senza di me. Ma se loro ritenevano giusto non separarci, non c'erano problemi...»

    La ragazza si interruppe ma Almerico ebbe la sensazione che la frase fosse stata lasciata incompleta, volutamente incompleta. Continuava ad osservarla mentre lei volgeva con lo sguardo in avanti, come cercasse un rifugio.

    «Sì, ma che le hai detto di preciso? Dico... giusto per saperlo»

    «Che per me non c'erano problemi, che con te stavo bene. E mi sarebbe piaciuto restare nello stesso gruppo»

    Almerico si fermò, si guardò attorno disorientato, si portò una mano alla tempia come a trattenere un'esplosione cerebrale mista ad un senso di incredulità.

    «Ma perché non me l'hai detto? Che problema c'era? Riguardava anche me la faccenda o no?»

    «Sì, certo. Ma lo consideravo un piccolo segreto tra me e la prof»

    «Quindi lo ritenevano merito tuo...» pensò lui con un velo di delusione. «Allora quando la prof di italiano ci parlò di un consiglio di classe nel quale i docenti avevano notato i miei progressi, tu sapevi tutto? E dicesti anche una cosa tipo Si è vero prof, l'ho notato anche io. Ho capito: quando si girò verso di noi, in realtà ce l'aveva con te!»

    «Mica sarai deluso, spero?» chiese la ragazza presa dal dubbio di aver dato un dispiacere all'amico.

    «Deluso? Sono meravigliato, non ho parole. Tieni presente che sono svenuto per molto meno»

    "Bella di una sua bellezza acerba, bionda senza averne l'aria

    quasi triste come i fiori e l'erba di scarpata ferroviaria.

    Il silenzio era scalfito solo dalle mie chimere

    che tracciavo con un dito dentro i cerchi del bicchiere"

    (Francesco Guccini, Autogrill - 1983)

    All'inizio di Corso Garibaldi c'era il negozio di un ex tennista veneto che si intratteneva spesso a parlare con i propri clienti, soprattutto i più giovani. Per i ragazzini alle prime armi era quasi un secondo maestro, sempre disponibile nel regalare consigli. Era considerato l'incordatore ufficiale cittadino e il suo marchio EV, iniziali di un fratello tennista, identificava dei piatti corde perfetti, sonoramente equilibrati. Almerico, con il plettro della chitarra, si divertiva spesso a suonarle: quelle orizzontali avevano un suono, quelle verticali un altro, più acuto. Perché è noto che le corde orizzontali debbano essere un po' meno tese di quelle verticali, per evitare di deformare il telaio interrompendo la magica perfezione del toc che scocca ad ogni colpo.

    I due si erano fermati proprio all'altezza della vetrina, allestita con racchette e scarpe da tennis delle migliori marche.

    Almerico si ipnotizzò, come fosse di fronte allo schermo di un televisore che trasmetteva le immagini dei suoi campioni preferiti.

    «Belle le Diadora Bjorn Borg, vero?» commentò la ragazza che, assecondando l'amico, stava sbirciando nella vetrina.

    «Mi piacerebbe poter giocare con quella racchetta nera» rispose Almerico con l'aria ancora rapita dal sogno. Era la Dunlop Max 200G di John McEnroe, l'antipatico superbrat, soprannominato così dagli inglesi due anni prima a Wimbledon.

    «Giochi a tennis?» chiese la ragazza. «Al circolo?»

    «No... cioè sì. Gioco, ma non al Circolo Tennis»

    «E da quanti anni?»

    «La prima racchetta mio padre me la comprò quando avevo sei anni. Ci giocavo sotto casa, ricordi il rione San Pietro? Oltre a calcio, molti ragazzini giocavano a tennis. E io volli provare»

    «Non mi hai mai detto niente, però» sottolineò lei. «Pensavo che, come tutti, seguissi il basket»

    «Solo fino ad un paio di anni fa: Fischetto, Labate, Yonakor, Howard, Malagoli» recitò a memoria il quintetto titolare che nel 1981 portò la squadra di pallacanestro in serie A1, l'Olimpo nazionale del basket. «Dopo di allora, lo seguo molto poco»

    «E ti sei dato al tennis»

    «In primo superiore ho fatto un corso e ho iniziato a fare agonismo. Alle medie giocavo a calcio e andavo a Judo, se ricordi...»

    La ragazza sorrise e attinse ad un altro ricordo che la legava al suo amico.

    «Mi ricordo quando ti facesti male, a Judo...»

    «Già. Una brutta caduta, mi fratturai la scapola destra. Un dolore cane»

    «Non me lo hai mai raccontato»

    «Nel judo è fondamentale cadere sapendo attutire l'impatto, facendosi rotolare lungo un braccio e fermandosi sfruttando tutto il corpo. Facevamo un esercizio divertente: una breve rincorsa, salto e tuffo in avanti con capriola finale»

    «Come Sandokan con la tigre!» intervenne Càmila.

    «Più o meno. Solo che noi il pugnale lo lasciavamo negli spogliatoi...» sorrise Almerico. «Chi cadeva male, si accucciava in terra e allungava la fila»

    «Vinceva chi restava per ultimo?» chiese la ragazza cominciando ad aver chiara la situazione.

    «Esatto. Io ero bravo e restavo sempre tra gli ultimi. Quella volta c'eravamo tutti, ma proprio tutti. Il mio record erano undici ragazzi, circa sei metri. Quello davanti a me sbagliò e i ragazzi diventarono dodici. Un trenino troppo lungo...»

    «Ma perché non ti ritirasti?» domandò lei.

    «Ci provai, ma il Maestro mi fece cenno di provarci lo stesso»

    La ragazza chiuse gli occhi visualizzando la scena di dolore.

    «Presi la rincorsa. Nonostante la paura spiccai un lungo salto ma, durante il volo persi concentrazione e sbagliai la caduta. Sentii solo un crack e poi il buio»

    «Oh mio Dio! Chissà che dolore»

    «Persi i sensi, mi risvegliai negli spogliatoi con il Maestro che mi spalmava delle creme e mio padre che, per prima cosa, mi chiese come stessi»

    «Poverino. Chissà che spavento si sarà preso»

    «Fortunatamente per lui, non vide la caduta. Gli allenamenti erano dalle 7 alle 10 di sera e lui mi aspettava al bar del centro sportivo»

    «Ti facesti molto male?»

    «Frattura a tronco verde. In pratica la clavicola si ruppe a causa del forte urto ma l'osso si riagganciò da solo creando un callo. Ogni volta che lo toccavo, mi faceva saltare dal dolore»

    «Mancasti qualche giorno da scuola e si era sparsa voce che fossi in Ospedale» ricordò Càmila con una smorfia che fece capire quanto si fosse immedesimata nel racconto. «Mi dispiacque e mi preoccupai molto. Ogni sera speravo di rivederti a scuola il mattino dopo. E quando tornasti...»

    Almerico la osservava con curiosità.

    «... ricordo che al primo cambio d'ora mi alzai dal banco e attraversai la classe per venirti a salutare»

    «Me lo ricordo. Non capii subito che stessi venendo da me» continuò lui. «Mi chiedesti Come stai?»

    «Fu la prima cosa che mi venne in mente» sembrò quasi scusarsi lei.

    «Avevi l'espressione terrorizzata...» aggiunse lui.

    «Avevo paura che ti fossi fatto male seriamente»

    «Ero contento ti fossi interessata. Mi fece sentire importante. Conservo ancora una fotografia» disse lui attingendo ai ricordi.

    «Quale fotografia?» Càmila lo osservò con sospetto, stavolta.

    «L'immagine dei tuoi occhi azzurri in quello sguardo interessato. Un'immagine che mi restò scolpita nella memoria»

    Stavolta la ragazza arrossì. Non tanto per il complimento, quanto per lo sbalorditivo effetto che le procurava il ricordo altrui. Silenziosi ricordi che riemergevano dallo sconosciuto oblio di qualcuno che, fino a dieci minuti prima, avevi rimosso dal tuo quotidiano e che, come per incanto, si materializzava regalandoti tutta la sensazione dei momenti passati.

    Può accadere tutto per caso oppure, se ci credi, può esserci un disegno da cogliere per sbrogliare la trama della tua vita.

    "Ma sono fatto così e non ci posso far niente.

    Prendimi pure così, come mi accetta la gente.

    Che mi sorride e mi lascia parlare, però non mi sente"

    (Pierangelo Bertoli, Così - 1983)

    I due ripresero a muoversi verso casa della ragazza.

    «Belle le Diadora, ma preferisco le Nike» Almerico riprese la domanda che Càmila gli aveva posto davanti alla vetrina ormai lasciata alle spalle.

    «Allora mi ascoltavi!»

    «Non mi sono mai perso una tua sillaba da quando ti conosco...»

    «Le Diadora sono più comode» spiegò lei.

    «Sono meno contenitive, quando corri sul campo. Sul cemento mi sembra di giocare in ciabatte»

    «Ma io intendevo per uscire» sottolineò Càmila. «Anche se, ad essere sincera, le ho utilizzate anche quando iniziai a giocare al Circolo Tennis. Ecco perché te l'avevo chiesto»

    «E quando?» le domandò contento.

    «Un paio di anni fa. Mi piaceva l'eleganza di Chris Evert. Sembrava non facesse nessuno sforzo nel colpire la palla. Un amico di mia sorella Marika, che faceva il maestro di tennis, mi propose di iscrivermi al corso per principianti che iniziava subito dopo l'estate»

    «1981» riflettè ad alta voce Almerico. «La Evert vinse a Wimbledon, se non ricordo male»

    «Esatto! Avevo visto la finale in TV, contro una giovane cecoslovacca di grande talento»

    «Hana Mandlikova. Sicché eravamo entrambi davanti al televisore a vedere la stessa cosa»

    «A quanto pare...» annuì la ragazza. «Sta di fatto che a fine settembre mi presentai al Circolo. Non avevo neanche la racchetta perché mio padre, saggiamente, mi suggerì prima di provare per poi farmi consigliare dal maestro»

    «E quale ti consigliò?» chiese curioso lui.

    «Scoprii presto che la racchetta ideale per il mio gioco non era stata ancora inventata» ironizzò Càmila, accompagnandosi con una smorfia di rassegnazione. «Non ero portata e, oltretutto, mi faceva male il polso. Mi passò l'entusiasmo e prima di Natale smisi definitivamente»

    «Peccato» si rammaricò lui. «Adesso le racchette sono più leggere. Potresti riprovare, ti insegno io...»

    «Ti ringrazio per l'invito ma non se ne fa nulla. Mi piace guardarlo ogni tanto in TV, ma non è per me» la ragazza alzò le mani in segno di resa. «Piuttosto, non mi hai detto chi è il tuo preferito»

    «John McEnroe» Almerico rispose volgendo lo sguardo altrove, quasi distrattamente.

    «Davvero? Quel... cafone?» Càmila sembrò quasi incredula che un ragazzo tranquillo come lui potesse provare ammirazione per un soggetto del genere. «Mio padre dice che è un pazzo da ricoverare, io sostengo che sia un maleducato viziato»

    «Anche il padre di McEnroe dice spesso di vergognarsi quando il figlio esagera in campo» la tranquillizzò prendendo le distanze da certi atteggiamenti. «Ma il problema non è questo»

    «Ah no?» ironizzò lei. «E quale sarebbe?»

    «E' un ribelle. Il fuoco della perfezione arde continuamente in lui. Gioca per il pubblico. Darebbe la vita per un colpo magico che mostra a tutti come sia possibile violare le leggi della fisica. Dalle corde regala al pubblico i ricami di un grande artista» Almerico si interruppe giusto un attimo a riflettere sul concetto. «Ecco. Un artista che comprendono in pochi»

    «Non verrai a raccontarmi la storia del genio incompreso?» rispose Càmila con tono di sopportazione.

    «Prova a chiedere a chiunque giochi a tennis cosa ne pensi dei suoi colpi, se ha mai visto un altro fare le stesse cose in campo...»

    «Tolstoj diceva che "Il carattere delle persone non si rivela mai così chiaramente come nel gioco"» precisò Càmila.

    «Guarda che non ne sto giustificando i comportamenti» Almerico prese le distanze. «Sto solo dicendo che è un genio. Sarà mica per niente che lo chiamano The Genius, no?»

    «Me lo auguro per te, perché se un giorno dovessi vederti giocare e scoprire che ti comporti come lui, ti toglierei il saluto»

    La minaccia era molto credibile e Almerico la prese sul serio, un piccolo ma significativo assaggio del caratterino della ragazza. E ritenne più utile cambiare discorso.

    «Se vuoi posso dirti il tuo film preferito dell'epoca»

    Càmila capì di aver segnato sul tabellone un quindici a suo favore e tornò volentieri al gioco dei ricordi.

    «A quando alludi?» chiese per sincronizzarsi con l'amico.

    «'78-'79. Terza media»

    «Ok. Ci sono» la ragazza fece partire un immaginario cronometro. «Vai!»

    «"La febbre del sabato sera". Protagonista, John Travolta colonna sonora, Bee Gees. Avevi un'espressione estasiata quando parlavi di Tony Manero»

    «E quale ragazzina non era innamorata di quell'uomo?» Càmila alzò gli occhi al cielo, perdendosi in un profondo sospiro. «Bello. Si muoveva divinamente. Ballava con quella leggerezza...»

    Il sogno durò poco, tornò subito alla realtà.

    «Voglio vedere chi non si innamora di uno così, a tredici anni»

    «Guarda che non commentavo» cercò di scusarsi lui. «Ricordo solo che ti vedevo felice»

    «Comprai la cassetta dei Bee Gees da quel venditore ambulante napoletano con la bancarella di fronte all'UPIM, ricordi? L'avevo consumata a furia di ascoltarla. Ballavo con un cuscino e sognavo» Càmila mimò quel ricordo ma si fermò subito, presa da un senso di imbarazzo.

    «Un paio di anni fa, ebbi una seconda illuminazione» proseguì sull'onda di quelle emozioni. «Mi prestarono una cassetta degli Straits. Li conosci?»

    «Solo i pezzi più famosi: "Tunnel of love, Romeo and Juliet"...»

    «Le mie preferite» sospirò nuovamente. «"Tunnel of love" non è una canzone, è un capolavoro della letteratura in musica! Ti consiglio di ascoltarla e impararne il testo...»

    «Ci proverò,» sorrise lui «anche se io e i testi stranieri non siamo fatti l'uno per l'altro...»

    «"Sultans of swing", la conosci?»

    Almerico scosse la testa.

    «Fu il loro primo successo,» aggiunse Càmila iniziando a mimare una chitarra elettrica «parla di un gruppo jazz composto da impiegati londinesi che si disinteressano della popolarità e sono concentrati solo sulla loro musica»

    «"We are the Sultans, we’re the Sultans of Swing"» canticchiò con voce esile.

    «Comunque hai ragione!» sottolineò con un gesto di approvazione, tornando ai ricordi. «Ero felice, e sono contenta che qualcuno si ricordi dei miei sentimenti e non solo della mia...» lasciò la frase sospesa, non riuscì a completarla.

    «Bellezza?» ironizzò Almerico. «Puoi dirlo, non essere modesta. Sei affascinante e intelligente, non penso di essere il primo a dirtelo...»

    Nell'esprimere il complimento, Almerico iniziò a guardarsi attorno alla ricerca di qualcosa. Il gesto non sfuggì alla ragazza che, però, fece finta di nulla.

    «Saranno le sei, sei e un quarto, vero?» chiese lui al termine della ricognizione.

    Càmila sollevò leggermente la manica del giubbino e controllò l'orologio.

    «Sei e ventidue, per la precisione»

    «C'è una cabina telefonica da queste parti?» le chiese.

    «Subito dopo il prossimo isolato, nella rientranza della strada» la ragazza indicò con le dita verso destra. «Non dirmi che non porti l'orologio?»

    «Non l'ho mai sopportato, a dire il vero. Qualche volta lo mettevo a scuola per evitare di perdere l'autobus, ma mi sembrava una catena. E poi da circa un anno al polso sinistro ho voluto mettere questo»

    Almerico tirò su la manica del k-way e le mostrò un bracciale.

    Càmila sentì una fitta sul fianco sinistro, come una coltellata. Un regalo d'amore?

    «Me lo regalò mia nonna quando fui battezzato. Si usava, ai tempi. Vedi la targhetta?» allungò il polso.

    «Almerico» Càmila lesse ad alta voce l'incisione. «Ci hai scritto il tuo nome?»

    «Michele, Antonio o Giovanni non hanno certo bisogno di ripetere tre o quattro volte il proprio nome quando si presentano. Nel mio caso, la maggior parte capiscono Enrico, altri rispondono Amechè?. Per non parlare di quelli che attaccano il solito ritornello "Ah, Amerigo Vespucci, come la nave...»

    Càmila rise di gusto, a pieno volto.

    «Lo so che fa ridere, ma ti garantisco che non è piacevole. Non parti col piede giusto con le persone. Diventi quasi un gioco»

    «Scusami, non volevo sfotterti» la ragazza si ricompose e accarezzò con dolcezza il viso del ragazzo. «E' che non mi era mai venuto in mente. Io ho capito subito come ti chiamavi, non mi è servito il traduttore. E' un bel nome, sonoro». E per sottolineare il concetto, lo ripetette un paio di volte a voce alta, scandendolo perfettamente.

    «Almerico. Almerico. Vedi?» si girò verso di lui allargando le braccia. «Ha una sua musicalità perché ti costringe a pronunciarlo bene»

    «Sì, sì. Ho afferrato il concetto» rispose lui invitandola a fermarsi.

    Erano giunti di fronte alla cabina telefonica e Almerico mise una mano in tasca per estrarre un gettone. Càmila restò alla distanza giusta per non recare imbarazzo all'amico. Era riservata non solo nelle sue cose, ma anche nei confronti degli altri.

    «Ci metto trenta secondi» disse aprendo la porta saloon.

    Lei si sedette su una panchina di fronte, senza togliere lo sguardo dalla cabina. Provava un certo interesse, come se la questione la riguardasse personalmente. Sollevò nuovamente la manica, aveva avuto l'impressione che mancasse qualcosa. Ed infatti non aveva più indosso il suo braccialetto. L'aveva perso? Lasciato da qualche parte? Ci avrebbe pensato dopo.

    Almerico infilò il gettone e compose il numero sul disco rotante. Poche cifre, segno di una chiamata urbana. Iniziò a parlare dondolando leggermente su se stesso. Ad un certo punto gli sguardi si incrociarono e lui le lanciò un grosso sorriso. In qualche modo Càmila si sentì come sollevata da un peso. Ma non del tutto.

    Dopo meno di un minuto, il ragazzo riattaccò e dribblò le ante a molla.

    «Scusami, ero in ritardo. Ma sono stato veloce, vero?» le disse raggiungendola sulla panchina.

    «Sei tu che devi scusarmi, Almerico» lo precedette Càmila quasi temendo di essere stata d'impiccio. «Ti ho fatto perdere tempo e magari avevi un appuntamento con la fidanzata»

    «Fidanzata?» rispose con una risatina di meraviglia, sgranando gli occhi.

    «Ti fa ridere l'amore?» chiese lei infastidita.

    «No, no, anzi. E' una cosa molto seria. Ridevo perché il motivo della telefonata è tutt'altro. A quest'ora avrei dovuto essere a casa e, conoscendo mia madre, stavo per superare la soglia di allarme generale. Fra dieci minuti avrebbe allertato Carabineri e Polizia...»

    Càmila si sentì liberata dal peso che l'aveva presa allo stomaco poco prima e iniziò a fissarlo ammutolita.

    «Non è apprensiva, se è questo che stai pensando» si giustificò Almerico. «E' fatta così. E a me non costa nulla fare una telefonata se c'è un imprevisto. Anche se si tratta del più piacevole imprevisto che mi sia mai capitato» aggiunse con un tono di voce giocoso.

    «Mi stavo solo chiedendo se ti stessi inventando una scusa al volo...» Càmila scosse la testa e issò le ciglia. «Neanche tanto originale, se vogliamo»

    Con molta delicatezza, Almerico le sfiorò il mento e si sedette al suo fianco.

    «Non ho nessun motivo per mentirti. Se amassi una ragazza, l'amerei e basta. Avrei lo stesso tante amiche e potrei anche far loro dei complimenti. Ma questo non mi porterebbe a nascondermi. Pensi che il fatto di essere fidanzato con qualcuno potrebbe impedirmi di dirti che sei sempre molto affascinante e che hai due occhi che non si dimenticano più?»

    «Forse all'altra persona potrebbe non far piacere» aggiunse la ragazza.

    «Se non glielo dicessi, se il tutto fosse finalizzato alla solita cosa...»

    Almerico avvicinò il capo e la fissò attentamente, leggendo nei suoi occhi la solita domanda stereotipo: Perché, non è così?.

    «Non penso di essere come gli altri. Sono un cretino? Sicuramente. Ma sono fatto così»

    Càmila restò silenziosa. Non credeva le stesse mentendo, ma era spiazzata.

    «Guarda,» proseguì lui per essere sicuro di farsi comprendere «fai finta che tu sia la mia fidanzata e che oggi abbia incontrato un'altra persona. Sai cosa ti direi? Lo sai che mi è capitato oggi? Ho rivisto una mia vecchia compagna delle medie. Molto bella ed intelligente. Abbiamo ricordato un po' di aneddoti della scuola e ci siamo scambiati il numero. Mi farebbe piacere rivederla, magari qualche volta si potrebbe uscire insieme, così te la faccio conoscere»

    E nel finire la frase, sollevò le mani. Che c'era di male?

    «Solo che io il mio numero non te l'ho ancora dato!» sorrise lei, con tono di sfida.

    «Non ce n'è bisogno. 26 64 64, lo ricordo a memoria. Un punteggio tennistico»

    Càmila non poteva crederci. Qualcosa non le tornava. Forse si era sbagliata su quel forzato distacco?

    Non avendo nessuna intenzione di tornare sul passato, riprese il discorso.

    «Il tuo ragionamento non fa una grinza, ma non so... ci si dovrebbe fidare ciecamente» sospirò la ragazza.

    «Forse è per questo che non sono fidanzato. Ma ragiono in modo semplice. Se una persona ti piace, allora può essere che scattino mille dubbi, una naturale debolezza che ti fa alzare la guardia. Ma quando si passa al livello successivo, all'innamoramento, ci si ama davvero e non può reggere senza rispetto e fiducia. Entra in gioco quella razionalità che ti fa analizzare le situazioni nel loro complesso»

    «Ovviamente vale anche il contrario?» sottolineò Càmila, con senso di sfida. «Cioè, se io ti dicessi che ho rivisto un amico, magari un vecchio fidanzato eccetera eccetera, tu non ti arrabbieresti?»

    «Io ho fiducia delle persone, se scatta il livello successivo» replicò. «Anche perché sono dell'idea che se tu mi volessi prendere in giro, essere geloso o ossessivo non servirebbe a molto. Non credi?»

    «Certamente» sorrise Càmila, soddisfatta della risposta.

    «Dai!» con un dolce sorriso, Almerico la invitò ad alzarsi. «Avviamoci verso casa tua, altrimenti tra un po' sarà tua madre a chiamare i Carabinieri»

    «Magari mio padre...» lo corresse Càmila recuperando la borsa coi libri che aveva appoggiato sulla panchina e dandosi una scrollata alla frangetta. Un gesto che era solita ripetere nei momenti di liberazione.

    "Mi salta in mente vorrei vederti adesso,

    sapere dove sei e poi cos'è successo.

    Vorrei vederti ma in fondo fa lo stesso.

    Ma poi chissà che tu, magari non ricordi più"

    (Pierangelo Bertoli, Cose del passato - 1984)

    I due stavano percorrendo gli ultimi metri del corso, prima di svoltare.

    «Ciao!» una sonora voce li salutò, pochi centimetri alle loro spalle. A Càmila, parve di riconoscerla.

    «Ciao!» un sorridente e giovane ragazzo indiano con delle rose in mano, ne porse una ad Almerico. «Tu regalare una rosa a tua fidanzata?»

    Lui lo guardò, ricambiò il sorriso e fece un cenno negativo con la mano. Non ebbe nemmeno il coraggio di guardarla, per scoprire la reazione, l'effetto che le aveva fatto ascoltare quel termine.

    «Non è tua fidanzata?» chiese il ragazzo per nulla frenato nel suo tentativo. «Tu regalare una rosa e conquistarla, allora» piazzò subito la risposta di riserva.

    Almerico allargò il sorriso e si girò verso di lei, che pareva divertita dalla scenetta.

    «Qualcosa mi dice che seguirò il tuo consiglio, amico» scherzò, stando al gioco e raccogliendo il fiore.

    «Solo mille lire... grazie»

    «Si taglia da questo vicolo, se non ricordo male...» i due ripresero a camminare e Almerico, con la rosa in mano, indicò alla ragazza via degli Albizi, la traversa precedente di Via Belvedere che, curvando su se stessa, incrociava proprio l'isolato del 33, dove Càmila abitava al quarto piano.

    «Non sei mai venuto a casa mia,» replicò lei «come fai a saperlo?»

    «Diciamo che ho studiato»

    I due risalirono la piccola via, anonima e poco frequentata. Càmila aveva incrociato altre volte il ragazzo dei fiori, come lo chiamava, ma quella era stata sicuramente la più originale.

    «Comunque, ti ha fregato» lo sfotté lei, indicando la rosa.

    «Perché?»

    «Lo incrociamo spesso con i miei. A papà sta simpatico e compra quasi sempre una rosa per la mamma» spiegò la ragazza, continuando a camminare qualche passo avanti a lui. «Ma le paga cinquecento lire...»

    «Magari gli fa lo sconto perché è un cliente fisso...» rispose prontamente il ragazzo, mostrandole il fiore. «E in ogni caso, pensavo fosse un piccolo simbolo per ricordare questa bella passeggiata. Lo custodirò con cura, come gli altri ricordi...»

    Càmila si fermò. L'amico aveva avuto un pensiero molto delicato. Pensava le avrebbe regalato il fiore, magari con le solite frasi tipo questo fiore rappresenta... e balle di questo genere. E invece aveva avuto un'idea originale che faceva diventare universale il valore di quella rosa: eterna come un ricordo.

    Almerico l'aveva raggiunta e lei, nel girarsi, si ritrovò quell'abbraccio di petali rossi proprio innanzi alla bocca. Istintivamente raccolse il fiore, senza commentare. Come se quei ricordi iniziassero ad interessarle profondamente.

    Non disse nulla, la voce fu soffocata da un'improvvisa sensazione di vuoto.

    Al termine della stradina spuntava maestoso il fianco di un moderno stabile, nel quale ogni appartamento godeva di un balcone con vista sul mare.

    Da ciascuna abitazione si potevano ammirare le meraviglie di un porto millenario, dalla particolare forma a testa di cervo. Al di là del porto, il mare aperto, la mulattiera d'oriente. Commercianti di ogni sorta si erano avventurati su quelle rotte per millenni e solo l'incuria e il miraggio di un'economia diversa, basata sull'industria, stavano portando quella meraviglia naturale alla decadenza più assoluta.

    Giunti davanti al portone, Càmila fece un saltello e diresse il dito verso il citofono, come avesse fretta di rincasare.

    Almerico la guardò dal metro che aveva perso in quest'ultimo scatto felino, pensando già a cosa le avrebbe detto per salutarla. E' stato un piacere, Sono contento di averti rivisto, Ci si sente telefonicamente. Non riuscì a trovare, in quei pochi istanti, una formula che lo convincesse. Ma capì che non era necessario.

    Càmila suonò il campanello e una voce femminile rispose con tono squillante.

    «Chi è?»

    «Dani sono Càmila. Sono rientrata. Dì alla mamma che sono qua giù, sto parlando con un amico. Appena ho finito, salgo»

    «Si vabbe', ma che le devo dire di preciso»

    «Te l'ho appena detto, Dani. Te lo devo ripetere?»

    «No,» ribatté la sorella «ho capito. Ma che le devo dire, tra quanto sali?»

    «Non lo so, sennò te l'avrei detto!» Càmila tentò di liquidarla. «Dille che sto quaggiù. Se ha bisogno di qualcosa mi chiama dal balcone»

    «Ok...» Daniela si rassegnò e chiuse il citofono.

    Càmila si girò verso Almerico che, nel frattempo, si era gustato il siparietto ed aveva l'espressione tipica di chi sta per dire coi più piccoli ci vuole pazienza.

    «Mia sorella Daniela, non so se te la ricordi. Ha undici anni, siamo molto legate. Ma è di una precisione...» Càmila scese il gradino del portone e si avviò verso il bordo del marciapiede. «Si ricorda i particolari a distanza di settimane. Discutere con lei è spesso causa persa»

    «Vuol dire che da grande farà l'avvocato» ironizzo Almerico.

    «E' possibile. La dialettica ce l'ha e qualcuno da difendere lo trova sempre...»

    «Andiamoci a sedere là di fronte, così chiacchieriamo un altro po'» propose lei infilandosi tra due auto in sosta e attraversando la strada.

    Sull'altro marciapiede c'era un muro che, partendo dal livello del mare, risaliva di una decina di metri creando un piccolo belvedere dal quale si poteva ammirare un suggestivo scorcio del porto. Da quel muraglione si poteva godere un po' di brezza marina oppure sbirciare sul lungomare.

    Abitava in un palazzo dalla facciata lucida ed imponente. Vetrate di uffici occupavano tutto il piano sopraelevato. Cinque piani di abitazioni con balconi in ringhiera e finestre, intervallati da strisce di mattonelle azzurro-verde, color mare increspato. Un livello di super attici chiudeva la palazzina, di costruzione relativamente recente.

    Càmila poggiò la borsa sul muretto, a ridosso del primo dislivello. Fece leva sulle mani e si sedette, incastrandosi con le gambe sulle pietre del bordo e appoggiandosi con la schiena sulla bassa ringhiera. Almerico la osservò sospettoso, non trovando comoda la posizione.

    «Siediti anche tu» lo invitò sbattendo il palmo al suo fianco.

    «Preferisco averti di fronte. Non voglio più immaginarti. Voglio ammirarti...»

    Per non arrossire, la ragazza alzò la testa al cielo.

    «Avevo detto se, ha bisogno di qualcosa...» mormorò, sorridendo divertita.

    «Cosa?» le chiese il ragazzo che, essendo di spalle al palazzo, non aveva la sua stessa percezione visiva.

    «La mamma è sul balcone... e c'è anche mia sorella, ovviamente» sorrise lei mentre le salutava per far capire che aveva ricevuto il messaggio. Fece segno che sarebbe risalita a breve.

    La mamma rientrò in casa ma tornò subito indietro per recuperare la figlia piccola che, evidentemente incuriosita, le fece cenno di aspettare. Con un rapido movimento, la tirò per un braccio e Daniela si rassegnò.

    La scena durò pochi istanti e quando Almerico si girò su se stesso per volgere lo sguardo in alto, il balcone era nuovamente vuoto.

    I due ragazzi ripresero a parlare spensierati: musica, conoscenze comuni, i compagni di classe, i professori.

    Quando lei spiegò che il problema che la preoccupava era il riuscire a mettere insieme un'accozzaglia di concetti per farne un quadro organico da presentare alla prof di storia, lui le parlò di uno strumento che spesso utilizzava per la creazione di modelli di sistemi complessi. Càmila si mostrò molto interessata e Almerico le fece un piccolo esempio per farle capire la praticità del suo metodo.

    Il tempo trascorreva piacevole e l'imbrunire si stava impossessando di quel cielo primaverile che, nel frattempo, si era liberato definitivamente delle timide nuvole che non erano riuscite a rovinare la serata.

    Almerico la osservava costantemente. La conosceva bene. Càmila appariva rilassata e parlava con tranquillità. Alternava momenti di allegria ad altri più seri, ma era distesa e spesso divertita dalle sue battute.

    La discussione stava volgendo al termine. Almerico assunse una postura meno rilassata. Chiuse per un attimo gli occhi e le chiese quello che avrebbe voluto domandarle almeno un'ora prima.

    «Posso farti una domanda?» mettendo le mani avanti, aggiunse «Però, se vuoi, puoi anche non rispondermi»

    «Dimmi pure» lo incoraggiò Càmila che aveva notato l'espressione più tesa.

    «Non mi hai detto se hai un fidanzato...» Almerico si era tolto il suo peso dallo stomaco e, per come era, non doveva essergli costato poco. Aveva messo le mani in tasca, forse perché stava scongiurando una risposta che sarebbe stata molto dolorosa da accettare. Oppure voleva solo nascondere il nervosismo che lo stava facendo ardere come un tronco colpito da un fulmine.

    Càmila non rispose subito. I suoi occhi andavano e venivano verso destra, con movimenti rapidi, per controllare qualcosa proveniente dal fondo della strada, verso il corso.

    «E tu mi fai questa domanda proprio adesso?» rispose lei con un sorriso quasi liberatorio.

    «Perché?»

    «Perché sta arrivando mio padre» Càmila tornò con lo sguardo verso l'amico e balzò giù dal muretto. Raccolse la sua borsa e affiancò Almerico parlandogli con voce più bassa.

    «Non vorrai mettermi nei guai, vero?» gli strizzò l'occhio in segno di complicità. «Adesso devo proprio scappare. Ma non sparire. Il mio numero tanto lo sai già. Altrimenti vengo a cercarti io, stavolta...»

    Stette ancora per un attimo sul filo dei saluti. Gli lanciò un ultimo sorriso e gli restituì la rosa.

    «Mi piacerebbe conservarla, ma forse è meglio che lo faccia tu. Non mi sembra il caso che la porti sopra, non trovi?»

    Almerico rimase imbambolato ad osservarla: in quei pochi secondi ebbe la sgradevole sensazione di averla persa per sempre. La vide attraversare di corsa la strada, dribblare un paio di auto e raggiungere il padre che la stava aspettando davanti al portone. L'uomo si chinò e lei gli diede un grosso bacio sulla guancia, prendendolo sotto braccio. Il padre le stava chiedendo qualcosa mentre, con lo sguardo, stava identificando l'amico da lontano, come un radar. Càmila si issò sulla punta dei piedi per sussurrargli qualcosa nell'orecchio. Dopo un attimo, che ad Almerico sembrò durare un tempo infinito, l'uomo fece un cenno di approvazione con il capo.

    Dopo di che infilò la chiave nella serratura e aprì il portone. I due scomparvero dietro al vetro e, quando accesero la luce dell'androne, Almerico riuscì a scorgerli mentre salivano i pochi gradini che li separavano dall'ascensore, scomparendo dalla sua vista.

    Raccolse lo zaino e riattraversò la strada, senza entusiasmo. Si avviò verso il corso per risalirlo nella direzione contraria e prendere il suo autobus.

    L'incantesimo era finito. Era questo il pensiero che lo accompagnò per il resto della serata.

    2. Riparliamone

    "Mamma mia, here I go again

    My, my, how can I resist you

    Mamma mia, does it show again

    My, my, just how much I've missed you"

    (Abba, Mamma mia - 1975)

    Mamma Ornella era una donna ancora nel pieno della sua bellezza. Lunghi capelli di un biondo non vistoso ma lucente, occhi chiari e viso molto dolce. Il fisico era ancora asciutto, nonostante i tre parti ed un duro lavoro a casa per far crescere in modo impeccabile tre figlie. Era sempre sorridente e, al mattino, era la prima ad alzarsi, come tutte le mamme.

    Marika era la primogenita, molto magra, viso allungato ricoperto da una nuvola di capelli castani con riflessi chiari. Le aveva sempre dato una mano a seguire le due sorelle minori: dai compiti di scuola alle classiche problematiche adolescenziali, che lei aveva attraversato qualche anno prima di loro.

    Adesso Marika era all'Università e dal novembre precedente si era trasferita a Firenze, facoltà di Medicina. La sua assenza pesava e in famiglia era la prima volta che si avvertiva una sensazione di privazione. Telefonava quasi ogni sera e, nei pochi frettolosi dialoghi, raccontava le novità della sua nuova vita: le lezioni, il tempo, la gestione dell'appartamento che condivideva con altre studentesse.

    Daniela aveva undici anni ed era considerata la piccola di casa. Come tutte le ultime figlie, giocare il ruolo della bambina la faceva sentire un po' più coccolata da mamma e papà. Le dava molto fastidio, però, quando la mettevano da parte nelle discussioni familiari. Delle tre era sicuramente la più carina. Più bionda delle altre due, gli occhi chiari, di un azzurro lucente tendente al verde. Il viso molto delicato ed un'espressione davvero dolce, accentuata dalle guance ampie e morbide e una bocca scolpita come un'opera d'arte.

    In casa Alimonda uscivano di casa più o meno tutti allo stesso orario, verso le otto del mattino, e la colazione era il momento per iniziare la giornata assieme.

    «Mila,» esordì la mamma con aria preoccupata, sistemando una teiera al centro della tavola «ho visto che hai studiato fino a tardi ieri sera»

    «Si mamma, come al solito i lavori di gruppo sono una perdita di tempo. Non c'è affiatamento, si divaga. Non è la prima volta e non sarà l'ultima, se la prof di storia si ostina con questi metodi»

    «Non vorrei avessi perso troppo tempo con quel tuo amico sotto casa...» chiese con delicatezza Ornella.

    «Al contrario mamma,» sottolineò spalmando della marmellata su una fetta biscottata «ero molto arrabbiata e quel momento di distrazione mi è servito per rivedere le cose con maggiore tranquillità»

    «Chiamalo momento! Siete stati sul muretto più di un'ora...»

    Càmila guardò la mamma con aria interrogativa, tenendo sospesa per aria la fetta biscottata e tirando gli occhiali su per il naso, per osservarla meglio.

    «Non che voglia controllarti,» riprese la madre con voce premurosa «è che mi preoccupa il fatto che poi tu sia costretta a fare le ore piccole»

    Càmila allungò la tazza per chiedere del tè. Intinse la fetta biscottata e iniziò a mangiare.

    «Forse hai ragione,» commentò consumando rapidamente un boccone «ma credimi: mi è servito davvero chiacchierare un po'. Mi ha rilassata tanto e sono tornata a casa più concentrata»

    «Ha un bel potere quel ragazzo, allora!» commentò mamma Ornella accompagnando il complimento con un gesto di approvazione della testa.

    «A proposito,» aggiunse «non l'ho riconosciuto. Chi era?»

    «Non l'hai riconosciuto perché non lo conosci» precisò la ragazza prima di bere un lungo sorso di tè durante il quale, la madre, restò sospesa lungo il filo della curiosità.

    «Almerico. Te lo ricordi?» le sorrise dopo aver appoggiato la tazza.

    «Almerico, il tuo amico delle medie, Almerico?» domandò con aria stupita.

    «Mamma!» intervenne Daniela, che al mattino parlava solo dopo essersi svegliata completamente. Cosa che in genere coincideva con la fine della colazione. «Ma come fai a finire una frase con la stessa parola con cui l'hai cominciata?»

    Le due sorrisero.

    «E dove l'hai trovato?» chiese la sorella.

    «Guarda che non è un portachiavi!» protestò Càmila «L'ho incontrato per caso, mentre tornavo dal gruppo di studio. Anzi, ad essere precisi, è lui che ha incontrata me. Mi ha fermata, ci siamo salutati, abbiamo iniziato a parlare e ci siamo divertiti a ricordare alcuni momenti simpatici delle medie»

    «Sono contenta. Ricordo che mi parlavi bene di quel ragazzo» aggiunse la madre.

    «Bene? Secondo me le piaceva...» si intromise Daniela sottolineando quel le piaceva.

    «No, non mi piaceva» replicò Càmila facendole il verso. «Almeno, non mi piaceva nel senso che intendi tu»

    «Vedi Daniela,» continuò la mamma «non è che un ragazzo debba per forza piacerti perché è bello, alto e muscoloso. Ci sono molti modi per essere interessanti»

    La mamma si rivolse di nuovo a Càmila.

    «Sbaglio o Almerico era quello molto sveglio e dagli occhi intelligenti? E fu lui che non ti fece dormire un paio di notti quando temevi si fosse fatto male seriamente?»

    «Addirittura...» ironizzò la piccola.

    «Ricordi bene, mamma» proseguì Càmila. «Ed è rimasto tale e quale. Mi ha fatto divertire e ho scoperto che era molto attento a qualsiasi cosa facessi. Questo mi ha colpita molto e dato una grande carica. Spero mi richiami»

    «Altrimenti chiamalo tu. Non vedo il problema»

    «Penso proprio che lo farò. E' una persona allegra, che si comporta con me in maniera diversa rispetto a come fanno gli altri che sono interessati solo da una cosa. Una noia...»

    «E che ci vuoi fare,» sospirò Daniela passandosi una mano tra i lunghi e morbidi capelli «è il crudele destino di noi belle bionde. Ah!»

    «E perché credi che lui sia diverso?» domandò la mamma.

    «Perché lo conosco bene, mamma. Sapevo di piacergli molto alle medie. Ma non c'è mai stata una sola occasione in cui mi abbia fatto sentire in imbarazzo o detto qualcosa di inappropriato» Càmila parlava fissando avanti a sé, come se stesse visualizzando un film. «A poco a poco, vedendolo e parlandoci ogni giorno, mi accorgevo che stavo sempre meglio con lui. Era diventato un amico che desideravo vedere. Poi però è sparito da un giorno all'altro...»

    «Ah ah! Vedo che si sta parlando di principi azzurri... Scusate il ritardo ma qualcuno mi ha fregato il posto in bagno stamattina»

    «Scusa papà. Ma vorrei arrivare un po' prima a scuola. Sai... quel compito di storia, ci sta facendo impazzire» si giustificò Càmila richiudendo la confezione di fette biscottate.

    Papà Tiziano era un uomo di 44 anni in piena forma. Occhi e capelli castani, barba ben tenuta, fisico in perfetta forma che contribuiva alla sua immagine di Comandante di Nave. Lo stile era sempre impeccabile ed i particolari curati, anche se si trattava di scendere al supermercato dietro l'angolo a comprare il latte. Non lasciava niente al caso: sentirsi a posto con se stessi voleva dire esserlo anche nei confronti degli altri.

    «Le mie donne! Cosa farei senza di voi?»

    «Daresti una festa?» provò ad indovinare la piccola.

    «Scusate ma io scappo» disse Càmila alzandosi da tavola e avviandosi verso il bagno per lavarsi i denti. «Papà, non riesco ad accompagnarti stamattina, vorrei arrivare prima a scuola»

    «Ehi!» protestò Daniela. «Togli almeno dalla tavola la tua tazza!»

    Càmila non la sentì nemmeno.

    «Tranquilla Mila. Ci penso io, stamattina» intervenne al mamma. In realtà le parole erano dirette a Daniela che, infatti, la osservò contrariata. «Dani, può capitare a tutti di andare di fretta no?»

    Quando Càmila fu fuori portata, papà Tiziano si rivolse alla moglie, abbassando il tono di voce.

    «Sta bene? Tutto a posto ieri sera?» le chiese.

    «E' innamorata...» ironizzò la piccola sentendosi coinvolta in una discussione interessante.

    «Non è innamorata, Daniela» precisò la mamma. «E comunque, anche se lo fosse, non sarebbe un motivo valido per prenderla in giro. Quel suo amico era una cosa importante per lei. Sta cercando una risposta ai suoi interrogativi: vuole scoprire se là fuori ci sia il mondo che lei desidera. E' una bella ragazza, come lo sei tu, e per questo si trova più facilmente ad essere osservata che ad osservare. Ma sa quello che vuole. Dobbiamo starle vicino senza far sentire la nostra presenza. Vedrai, se ha trovato qualcosa, sarà lei a dircelo»

    «Scusate se sono sempre l'ultimo a sapere le cose tra tante donne...» sorrise il padre. «Di che stiamo parlando?»

    «Di chi, vorrai dire» sottolineò Daniela.

    «Daniela voleva dire,» intervenne la mamma «che Càmila ieri ha incrociato per caso un vecchio amico...»

    Fece una pausa.

    «Ah, sì...» continuò l'uomo «Mi ha detto che il ragazzo con cui stava sotto casa era un suo amico. Ma non mi ha detto chi fosse»

    «Almerico» aggiunse la moglie.

    «Almerico...» ripetette il padre, pensieroso «Intendi... Almerico?»

    «Papà, anche tu?» esclamò sconsolata Daniela.

    «Cosa?»

    «Lascia stare, Tiziano» si affrettò a concludere la moglie accorgendosi che Càmila stava per uscire dal bagno. «Sì, quell'Almerico. Poi ti racconto»

    Càmila entrò frettolosamente nella sua camera, raccolse quello che le serviva dalla scrivania, prese zaino e giubbotto.

    «Vi voglio bene» disse con un sorriso rivolta ai tre nella sala da pranzo, imbambolati di fronte alla tavola ancora apparecchiata. Si fermò

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