Nessun paradiso
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Nessun paradiso è questo: la storia di una resa, inevitabile e consapevole.
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Book preview
Nessun paradiso - Enrico Piscitelli
SECONDA EDIZIONE
Enrico Piscitelli
NESSUN PARADISO
Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 3.0 Italia (CC BY-NC-ND 3.0 IT)
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A tutti gli eroi sfortunati
Per mezzo della televisione, il Centro ha assimilato
a sé l’intero Paese che era così storicamente
differenziato e ricco di culture originali.
Ha cominciato un’opera di omologazione distruttrice
di ogni autenticità e concretezza.
Ha imposto cioè – come dicevo – i suoi modelli: che sono i modelli voluti
dalla nuova industrializzazione, la quale
non si accontenta più di un uomo che consuma
,
ma pretende che non siano concepibili
altre ideologie che quella del consumo.
Pier Paolo Pasolini, Sfida ai dirigenti della televisione
in Corriere della Sera
, 9 dicembre 1973
Ogni Società che voi costruirete avrà i suoi margini e sui margini di ogni Società si aggireranno i vagabondi eroici e scapigliati,
dai pensieri vergini e selvaggi che solo sanno vivere preparando sempre nuove e formidabili esplosioni ribelli! Io sarò fra quelli!
Ogni uomo che frugando la sua intimità estrae ciò che vi è di misteriosamente nascosto è un’ombra che oscura ogni forma
di Società vivente sotto i raggi del Sole! Ogni Società trema quando l’aristocrazia sprezzante dei Vagabondi,
degli Unici, degli Inaccessibili, dei dominatori dell’ideale, e dei Conquistatori del Nulla, spregiudicatamente si avanza.
Renzo Novatore, Il mio individualismo iconoclasta
in Iconoclasta!
, n. 2, gennaio 1920
UNO
0.
Avrei voluto fare boxe. Poi non ho fatto boxe. Non ho fatto niente. Un po’ di tennis, da bambino, ho fatto: ma non l’ho scelto io. Io avrei voluto fare qualcosa di rude, di vigoroso. Di un po’ più vigoroso del picchiarsi cogli altri bambini. O con le bambine. La prima volta che ho sentito una cosa strana nello stomaco, avrò avuto otto anni, era finita la scuola, e c’era questa testa riccia che usciva dal portone principale, e scendeva lo scalone fascista. Io ero già giù, alla fine delle scale. Lo raccontai a mia madre, che rise. Ecco: quando ti succede e sei piccolo, poi passi al contatto fisico, ch’è sempre violento, perché già lo sai che è una sfortuna, e lo sai senza bisogno d’impararlo. Poi cresci e i capelli non li tiri più, li accarezzi. Ma – forse – avevi ragione quand’eri piccolo. Forse da piccolo lo sai che l’amore è una cosa brutta. Che fa male. Anche se va bene, anche se funziona, anche se la baci, anche se ci vivi insieme e lei ti guarda e ti ascolta. Ecco: la cosa giusta da fare, prima che tutto cominci, è tirarle i capelli, credo. Uomini e déi temevano – sopra ogni altra cosa – Eros sparafrecce. Non c’è motivo al Mondo per non continuare a farlo.
1.
— Tu. Vuoi solo sbattere in faccia agli altri il tuo dolore. Vuoi essere compatito, perché hai sofferto, poverino – tu, che non t’hanno mai amato, che tuo padre se n’è fottuto, che tua madre è anaffettiva, che ti lasciavano da solo e ancora non avevi imparato a parlare. Sei ridicolo: non te ne rendi conto, ma fai ri-de-re.
E io mi gelai bloccai divenni statua. E smisi di raccontare di quando mia madre m’accompagnava al circolo del tennis e mi mollava lì, all’ingresso; e io entravo e non conoscevo nessuno, mentre gli altri si conoscevan tutti, facevano gruppo. E io da solo, sperimentavo, a sette anni, l’ostilità del Mondo, l’insofferenza per quelli che stan da soli. E poi – così, senza preavviso – lei cominciò con — Tu. Vuoi solo sbattere in faccia agli altri...
E se divenni statua, non fu (solo) perché mi sorprese tremendamente, no: divenni di ghiaccio perché era vero.
Quelle cose vere che non sai mai se chi te le dice c’ha provato, l’ha buttata lì a caso, oppure t’ha letto dentro. E se t’ha letto dentro, non puoi che chiedertelo: sono così semplice? Era così facile? Cosa sono, trasparente?
Sì. È così. Cazzo. Cazzo. E cazzo.
E poi stemmo zitti.
La Verità rende l’acqua troppo densa. La verità impedisce di deglutire. Quella verità esatta – tu vuoi solo sbattere in faccia agli altri... – non l’ho mai mandata giù.
Ho trentanove anni. Da cinque anni, da quando è morto mio nonno, sono miei gli ulivi, i ciliegi, i mandorli e le vigne. Faccio parte di quella strana borghesia rurale che sopravvive a se stessa, che non può morire, ché i ciliegi devon pur essere di qualcuno. Io vivo di rendita. In campagna non ci vado mai, ho altri orari: c’è chi lo fa per me. Un paio di volte a settimana, firmo delle carte, parlo con Antonio del tempo e dell’acqua e dei raccolti, e beviamo il caffè. Antonio dice: dobbiamo arare qui e lì; e dobbiamo passare questo e quest’altro sulle piante, ché ci sta l’afide nero. Oppure: ha piovuto troppo; c’è la Monilia alle ciliegie; c’è da irrigare. Io dico sempre sì, che va bene e firmo da qualche parte. Quand’ero piccolo, qualche mattino non andavo a scuola – a fine febbraio o a marzo – perché mio nonno mi portava a vedere la fioritura dei mandorli. Oppure d’estate: andavamo in campagna all’alba, col pane caldo preso al fornaio, e coglievamo i fioroni e li mettevamo nel pane. Antonio c’era quasi sempre e mio nonno mi diceva che Antonio ne capiva. Che con lui non avrei mai avuto problemi. Me lo diceva sempre, ché in campagna si fanno e si dicono sempre le stesse cose. Poi – a dieci anni – smisi di andare in campagna con mio nonno. Mi ero stancato.
Mia nonna non l’ho mai conosciuta: cancro al fegato. Me la raccontava mio nonno, mentre mangiavamo il pane caldo e i fioroni, mentre l’aria sapeva di terra e la prima luce illuminava le minuscole foglie degli ulivi. — Tua nonna, — diceva, — tua nonna è stata sfortunata. Ha preso medicine tutta la vita e le medicine le hanno fatto male. Male al fegato. — Io non ho mai preso antibiotici, non che mi ricordi. Non prendo neanche l’aspirina. Mio nonno nemmeno, ma poi è morto lo stesso.
Quando smisi di andare in campagna con lui, mio nonno decise di portarmi a Venezia. Dopo che era morta sua moglie, aveva preso quest’abitudine, di viaggiare. Andava dove era andato con lei – e con lei era andato solo