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Nessun paradiso
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Nessun paradiso

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Venezia come non è mai stata raccontata. Nessun paradiso è un tentativo di analisi del Potere, non dei potenti ma proprio di quella strana Macchina che governa i mondi, gli Stati e le persone, che ha gangli spesso non evidenti, connessioni anche improbabili, ma che agisce condizionando completamente l'esistenza di ogni uomo e donna. Il protagonista di questo libro viene portato al cospetto del Potere, del Meccanismo che ci porta in giro, ogni giorno, senza che nessuno di noi abbia scelto di salirci, e capisce che il Potere è inevitabile e l'unica soluzione è arrendersi.
Nessun paradiso è questo: la storia di una resa, inevitabile e consapevole.
LanguageItaliano
Release dateJun 23, 2016
ISBN9786050463644
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    Nessun paradiso - Enrico Piscitelli

    SECONDA EDIZIONE

    Enrico Piscitelli

    NESSUN PARADISO

    Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 3.0 Italia (CC BY-NC-ND 3.0 IT)

    Tu sei libero di:

    Condividere — riprodurre, distribuire, comunicare al pubblico, esporre in pubblico, rappresentare, eseguire e recitare questo materiale con qualsiasi mezzo e formato

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    NonCommerciale — Non puoi utilizzare il materiale per scopi commerciali.

    Non opere derivate — Se remixi, trasformi il materiale o ti basi su di esso, non puoi distribuire il materiale così modificato.

    Divieto di restrizioni aggiuntive — Non puoi applicare termini legali o misure tecnologiche che impongano ad altri soggetti dei vincoli giuridici su quanto la licenza consente loro di fare.

    A tutti gli eroi sfortunati

    Per mezzo della televisione, il Centro ha assimilato

    a sé l’intero Paese che era così storicamente

    differenziato e ricco di culture originali.

    Ha cominciato un’opera di omologazione distruttrice

    di ogni autenticità e concretezza.

    Ha imposto cioè – come dicevo – i suoi modelli: che sono i modelli voluti

    dalla nuova industrializzazione, la quale

    non si accontenta più di un uomo che consuma,

    ma pretende che non siano concepibili

    altre ideologie che quella del consumo.

    Pier Paolo Pasolini, Sfida ai dirigenti della televisione

    in Corriere della Sera, 9 dicembre 1973

    Ogni Società che voi costruirete avrà i suoi margini e sui margini di ogni Società si aggireranno i vagabondi eroici e scapigliati,

    dai pensieri vergini e selvaggi che solo sanno vivere preparando sempre nuove e formidabili esplosioni ribelli! Io sarò fra quelli!

    Ogni uomo che frugando la sua intimità estrae ciò che vi è di misteriosamente nascosto è un’ombra che oscura ogni forma

    di Società vivente sotto i raggi del Sole! Ogni Società trema quando l’aristocrazia sprezzante dei Vagabondi,

    degli Unici, degli Inaccessibili, dei dominatori dell’ideale, e dei Conquistatori del Nulla, spregiudicatamente si avanza.

    Renzo Novatore, Il mio individualismo iconoclasta

    in Iconoclasta!, n. 2, gennaio 1920

    UNO

    0.

    Avrei voluto fare boxe. Poi non ho fatto boxe. Non ho fatto niente. Un po’ di tennis, da bambino, ho fatto: ma non l’ho scelto io. Io avrei voluto fare qualcosa di rude, di vigoroso. Di un po’ più vigoroso del picchiarsi cogli altri bambini. O con le bambine. La prima volta che ho sentito una cosa strana nello stomaco, avrò avuto otto anni, era finita la scuola, e c’era questa testa riccia che usciva dal portone principale, e scendeva lo scalone fascista. Io ero già giù, alla fine delle scale. Lo raccontai a mia madre, che rise. Ecco: quando ti succede e sei piccolo, poi passi al contatto fisico, ch’è sempre violento, perché già lo sai che è una sfortuna, e lo sai senza bisogno d’impararlo. Poi cresci e i capelli non li tiri più, li accarezzi. Ma – forse – avevi ragione quand’eri piccolo. Forse da piccolo lo sai che l’amore è una cosa brutta. Che fa male. Anche se va bene, anche se funziona, anche se la baci, anche se ci vivi insieme e lei ti guarda e ti ascolta. Ecco: la cosa giusta da fare, prima che tutto cominci, è tirarle i capelli, credo. Uomini e déi temevano – sopra ogni altra cosa – Eros sparafrecce. Non c’è motivo al Mondo per non continuare a farlo.

    1.

    — Tu. Vuoi solo sbattere in faccia agli altri il tuo dolore. Vuoi essere compatito, perché hai sofferto, poverino – tu, che non t’hanno mai amato, che tuo padre se n’è fottuto, che tua madre è anaffettiva, che ti lasciavano da solo e ancora non avevi imparato a parlare. Sei ridicolo: non te ne rendi conto, ma fai ri-de-re.

    E io mi gelai bloccai divenni statua. E smisi di raccontare di quando mia madre m’accompagnava al circolo del tennis e mi mollava lì, all’ingresso; e io entravo e non conoscevo nessuno, mentre gli altri si conoscevan tutti, facevano gruppo. E io da solo, sperimentavo, a sette anni, l’ostilità del Mondo, l’insofferenza per quelli che stan da soli. E poi – così, senza preavviso – lei cominciò con — Tu. Vuoi solo sbattere in faccia agli altri...

    E se divenni statua, non fu (solo) perché mi sorprese tremendamente, no: divenni di ghiaccio perché era vero.

    Quelle cose vere che non sai mai se chi te le dice c’ha provato, l’ha buttata lì a caso, oppure t’ha letto dentro. E se t’ha letto dentro, non puoi che chiedertelo: sono così semplice? Era così facile? Cosa sono, trasparente?

    Sì. È così. Cazzo. Cazzo. E cazzo.

    E poi stemmo zitti.

    La Verità rende l’acqua troppo densa. La verità impedisce di deglutire. Quella verità esatta – tu vuoi solo sbattere in faccia agli altri... – non l’ho mai mandata giù.

    Ho trentanove anni. Da cinque anni, da quando è morto mio nonno, sono miei gli ulivi, i ciliegi, i mandorli e le vigne. Faccio parte di quella strana borghesia rurale che sopravvive a se stessa, che non può morire, ché i ciliegi devon pur essere di qualcuno. Io vivo di rendita. In campagna non ci vado mai, ho altri orari: c’è chi lo fa per me. Un paio di volte a settimana, firmo delle carte, parlo con Antonio del tempo e dell’acqua e dei raccolti, e beviamo il caffè. Antonio dice: dobbiamo arare qui e lì; e dobbiamo passare questo e quest’altro sulle piante, ché ci sta l’afide nero. Oppure: ha piovuto troppo; c’è la Monilia alle ciliegie; c’è da irrigare. Io dico sempre sì, che va bene e firmo da qualche parte. Quand’ero piccolo, qualche mattino non andavo a scuola – a fine febbraio o a marzo – perché mio nonno mi portava a vedere la fioritura dei mandorli. Oppure d’estate: andavamo in campagna all’alba, col pane caldo preso al fornaio, e coglievamo i fioroni e li mettevamo nel pane. Antonio c’era quasi sempre e mio nonno mi diceva che Antonio ne capiva. Che con lui non avrei mai avuto problemi. Me lo diceva sempre, ché in campagna si fanno e si dicono sempre le stesse cose. Poi – a dieci anni – smisi di andare in campagna con mio nonno. Mi ero stancato.

    Mia nonna non l’ho mai conosciuta: cancro al fegato. Me la raccontava mio nonno, mentre mangiavamo il pane caldo e i fioroni, mentre l’aria sapeva di terra e la prima luce illuminava le minuscole foglie degli ulivi. — Tua nonna, — diceva, — tua nonna è stata sfortunata. Ha preso medicine tutta la vita e le medicine le hanno fatto male. Male al fegato. — Io non ho mai preso antibiotici, non che mi ricordi. Non prendo neanche l’aspirina. Mio nonno nemmeno, ma poi è morto lo stesso.

    Quando smisi di andare in campagna con lui, mio nonno decise di portarmi a Venezia. Dopo che era morta sua moglie, aveva preso quest’abitudine, di viaggiare. Andava dove era andato con lei – e con lei era andato solo

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