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Certe Stazioni
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Certe Stazioni

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About this ebook

Questo libro si struttura in 12 racconti che ripercorrono la vita, non solo lavorativa, dell’autrice, tra storie vere e romanzate fatte di partenze dolorose e di ritorni, momenti ricchi di emozioni con risvolti psicologici che permettono al lettore di calarsi e di ritrovarsi in queste vicende della vita.
LanguageItaliano
Release dateJun 30, 2016
ISBN9788898301614
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    Certe Stazioni - Lucia Intartaglia

    Certe Stazioni

    Lucia Intartaglia

    © Tutti i diritti riservati alla Harmakis Edizioni

    Divisione S.E.A. Servizi Editoriali Avanzati,

    Sede Legale in Via Del Mocarini, 11 - 52025 Montevarchi (AR)

    Sede Operativa, la medesima sopra citata.

    www.harmakisedizioni.org

    info@harmakisedizioni.org

    I fatti e le opinioni riportate in questo libro impegnano esclusivamente gli Autori.

    Ogni riferimento a fatti o persone è puramente casuale.

    Possono essere pubblicati nell’Opera varie informazioni, comunque di pubblico dominio, salvo dove diversamente specificato.

    ISBN 978-88-98301-61-4

    Direttore Editoriale Paola Agnolucci

    © Impaginazione ed elaborazione grafica: Sara Barbagli

    The wrong of unshapely things is a wrong too great to be told;

    I hunger to build them anew and sit on a green knoll apart,

    With the earth and the sky and the water, re-made, like a casket of gold

    For my dreams of your image that blossoms a rose in the deeps of my heart.

    di W.B.Yeats

    Le cose mal fatte sono un male così grande da non potersi dire;

    io bramo di costruirle di nuovo e sedere su una collinetta verde in disparte,

    con la terra e il cielo e l’acqua, rifatti, simili a uno scrigno d’oro

    per i miei sogni dell’immagine di te

    che fa fiorire una rosa nelle profondità del mio cuore.

    Trad di Lucia Intartaglia

    A Raffaele , il mio figlio d’oro,

    l’amore grande della mia vita, che

    mi ha insegnato tutto quello che so…

    Certe stazioni

    Torino, autunno 1991

    Fu aprendo la porta che lo sentì.

    Veniva dall’aver camminato tanto; dall’aver confuso con altri il suono dei propri passi. Dall’aver mescolato il proprio odore a quello di altri corpi, di pelli sconosciute.

    Il pullman era pieno di respiri che le alitavano sul viso, sul collo. Lei teneva il viso girato verso il finestrino e respirava la polvere della strada, i gas di scarico della colonna di macchine. E la solitudine…

    Sul finestrino la sua faccia appariva e spariva, richiamata da un gioco di luci o dallo sfondo colorato di un altro bus vicino. Solo che non le sembrava la sua faccia, pallida nella macchia scura e scarmigliata dei capelli. Con occhi grandi, pensosi, e le labbra schiuse. Era l’altra. Quella che irrompeva d’improvviso fra le sue emozioni, e facendosi beffe di lei si sedeva nella sua mente, come per dire eccomi a casa.

    Sarah la conosceva bene, sapeva quasi tutto di lei. Di come amasse rincantucciarsi per poi aspettare che qualcuno andasse a prenderla per mano e la tirasse fuori. Di come la rabbia in lei si facesse tristezza e assenza totale di voglia di vivere. Di come bastasse aprire uno spiraglio di finestra perché lei entrasse come una tempesta di vento, portando con sé in un turbine foglie di emozioni.

    Eppure l’altra fa parte di lei, della sue essenza più vera, com’è vera questa sera col cielo striato di nuvole e l’aria azzurrina attraversata dalle luci al neon delle insegne. Com’è vera la sua mano poggiata al bordo del finestrino, e questa stanchezza intrisa di malinconia.

    Si chiede se anche gli altri nel pullman sentano questa solitudine piena di gente, di visi, di occhi che si incontrano un attimo e poi si ritraggono. Si chiede quali pensieri abitino questi corpi pigiati l’uno contro l’altro. Quali espressioni si celino dietro queste maschere di noia e di stanchezza.

    Non gli ha parlato del silenzio. Eppure era già dentro di lei mentre suonava al citofono e il ronzio del cancello, che veniva aperto dall’interno, lo attraversava come un fischio di un treno che laceri la notte.

    Era entrata e si era seduta compostamente nella poltroncina in pelle davanti alla scrivania. Lui era dall’altra parte di questa e teneva gli occhi bassi e le gambe accavallate. Sarah vedeva sbucare un piede solo di sotto il tavolo, e guardava il calzino bordeaux che emergeva dalla scarpa. Era una cosa reale, quel calzino. E personale. Perfino intima. Non aveva niente a che vedere con l’espressione di lui così composta, con le mani intrecciate in grembo, tranquille, e con la voce educata ma un po’ distante.

    C’era il cono di luce della lampada fra di loro, e tutto il resto della stanza in penombra. La chaise- longue di vimini ricoperta da un gran foulard dai disegni orientali. La vetrina di libri. I quadri. Aveva le mani sudate, e la testa piena di immagini, voci, volti che si rincorrevano come in un carosello. Aveva la testa piena di frammenti. I frammenti della sua vita. E quella sera non riusciva a trovare un filo con il quale ricucirli. Pareva che il silenzio si dilatasse nella sua testa fino a scoppiare, proiettando lontano da lei tutti i frammenti di sé che andava esplorando.

    Era stato allora che si era messa a parlare, non parole a caso ma parole scelte, pronunciate con voce disinvolta. Parole accurate che potessero arrivare fino a lui e scalfire quella cortina di asetticità che lui – in un modo o nell’altro – riusciva sempre a creare. Si era sorpresa a raccontargli cose buffe, episodi divertenti, come se fosse un compagno per una sera. Che ci fosse cascato o no, non avrebbe saputo dirlo. Sapeva soltanto che il suono della sua risata – così schietta e giovane – aveva spento il silenzio nella sua testa e, per contro, acceso luci colorate da qualche parte dentro di sé, allentando il groviglio di sensazioni che le stringeva il petto.

    Amava farlo ridere. Quando faceva ancora analisi sul lettino, e lui le era alle spalle, quella risata dolce e fresca come lo zampillo di una fontana la rassicurava che lui c’era. Che la stava ascoltando.

    Ma certo lui questo lo sapeva, poiché quando lei piangeva, tremante e sudata sul divano, un colpetto di tosse le faceva pervenire non solo la sua presenza, ma anche la sua vicinanza. Avesse voluto, avrebbe potuto toccarle i capelli. Ma l’unico contatto fisico tra di loro, per un accordo tacito di cui Sarah era terribilmente consapevole, era la stretta di mano che si scambiavano nel lasciarsi, e che le lasciava un’impronta nel palmo e l’esatta consapevolezza di essere riproiettata nel mondo reale, semmai fosse quello di fuori il mondo reale.

    Sarah ne dubitava. In quella stanza, in quella penombra solo le sue emozioni erano reali. Contava soltanto ciò che lei provava, ciò che pensava. Proprio tutto quello che nel mondo esterno non aveva importanza. Cioè lei, Sarah, fuori non esisteva. Certo c’era il suo corpo, la sua voce, quel particolare modo di ridere o camminare. Ma quella non era lei. Sarah non esisteva che lì, in quella stanza, che, per quel che la riguardava, poteva essere sospesa sulle nuvole o poggiata sul fondo del mare… Ma poiché in quella stanza era se stessa, e poiché quella stanza e l’uomo che le apriva la porta erano un tutt’uno, Sarah sentiva che solo con lui poteva svelarsi, che solo perché c’era lui di fronte a lei poteva rivelarsi a se stessa.

    Questo somigliava all’amore. All’amore che tira fuori da ciascuno il vero io, quello più celato e indifeso. Più protetto. Uscire da quella stanza, staccarsi da lui, significava perdere tutta la sua realtà.

    Tornava così nel suo mondo, un mondo di piccole cose, di grandi problemi e di qualche gioia, il lavoro, la casa, l’ex marito, i genitori, il suo meraviglioso bambino, e in questo mondo l’unico denominatore comune era l’attesa, il bisogno di ritrovare Sarah in quella stanza. Sarah tre ore alla settimana, Sarah con le gonne lunghe e i capelli scompigliati, con il quaderno di poesie nella grande borsa a tracolla. Sarah che piange, ride e trema. Sarah che vive. Sarah che vorrebbe essere Alice ed entrare nello specchio; che si fa ora piccola piccola e Sarah bambina ha la treccia disfatta e gli occhi perduti lontano nelle foto che il papà le scattava all’uscita da scuola. Sarah che ritorna – faticosamente – a farsi donna, e lo guarda negli occhi e silenziosamente implora un gesto, uno sguardo che possa riempirle il cuore di parole.

    Stasera aveva la poesia con sé, quella che gli ha dedicato ma non ha osato dargli. Avrebbe significato ammettere di amarlo, di volersi spingere oltre quel confine ben definito, oltre le colonne d’Ercole del loro rapporto. Così non gliel’ha letta. Ha solo tenuta stretto al petto la borsa, e nella borsa il quaderno. E ha tirato fuori la vecchia arma dell’allegria, i suoi mots d’esprit, la sua risata argentina.

    Ha parlato d’altro; di tutto un po’. Fuorché di loro due in quella stanza, del silenzio pieno di echi come una conchiglia, e quando come al solito lui le ha chiesto «vogliamo fermarci qui?» – ed era il commiato – lei lo ha guardato stupita, senza capire perché lui la mandasse via, dal momento che era lì che abitavano insieme.

    «Non voglio» aveva detto, tornando Sarah bambina, quella che pestava i piedi per terra. Il dottore aveva sorriso.

    «Ok, ok, vado via!» solo così, poi la stretta di mano e la porta che si richiudeva silenziosamente alle sue spalle e fuori la pioggia. Una pioggia di rabbia e tristezza e la cognizione di essere di nuovo incompleta: Sarah tagliata a metà, che cammina come cieca in questa moltitudine colorata di persone, che va a confondersi in un grande magazzino, e cerca nello specchio il proprio viso e lo scopre solcato di lacrime.

    Ecco, l’unica certezza che le resterà un giorno sarà dell’aver camminato in quella strada, aver imparato le disuguaglianze dell’asfalto, gli ostacoli delle radici dei platani le cui cime disegnano un tetto arabescato sulla sua testa. La certezza che, se tornasse un giorno troverebbe ancora l’impronta del proprio corpo, su quel divano, ad accoglierla.

    Come

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