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Milano in giallo: le indagini del commissario Tinon
Milano in giallo: le indagini del commissario Tinon
Milano in giallo: le indagini del commissario Tinon
Ebook259 pages4 hours

Milano in giallo: le indagini del commissario Tinon

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Questo libro è una raccolta di racconti polizieschi ambientati a Milano, nelle sue vie affollate e piene di negozi, dove arte, moda e cultura fluiscono incessantemente creando occasioni di ritrovo e eventi mondani.
LanguageItaliano
PublisherYoucanprint
Release dateJun 10, 2016
ISBN9788892613577
Milano in giallo: le indagini del commissario Tinon

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    Milano in giallo - Maria Cristina Flumiani

    633/1941.

    Prefazione

    Ci sono molti modi per manifestare il proprio affetto nei confronti di un luogo. Maria Cristina Flumiani ha deciso di farlo nei confronti di Milano attraverso dei veri e propri affreschi di vita ambrosiana e gli occhi e le scarpe di un personaggio umanissimo, affidabile quanto instancabile nel voler fugare ogni piccolo dubbio.

    Nelle pagine dell'autrice sembra di accompagnare fisicamente i diversi personaggi attraverso le vie, i locali, i negozi di Milano, che lei conosce benissimo, acquisendo dettagli a ogni interrogatorio del Commissario Tinon. Sono vicende di un’umanità prorompente, con pochissima tecnologia, moltissimo studio e straordinario rispetto di tutti i protagonisti, semplici testimoni (rari), sospettati (sempre numerosi).

    In uno dei gialli si dice che per risolvere un caso è essenziale comprendere perfettamente la personalità della vittima.

    E così l'indagine si arricchisce dello studio quasi maniacale di passioni, abitudini di personaggi che a prima vista appaiono come normali, ordinari, ma che in realtà nascondono un vero e proprio mondo di tradimenti, ricatti, più o meno gravi malefatte di ogni genere.

    Il commissario Tinon è un vero psicologo, a tal punto che il colpevole è come rasserenato quando confessa a lui, e non ad altri, il vortice tempestoso che dopo anni, se non decenni di silenzi e sopportazioni di ogni tipo lo portano a un crimine efferato, liberatorio.

    Spesso Tinon scopre anche che il colpevole non è il solo a odiare la vittima, fino ad assaporarne prima l'uccisione e poi la confessione. Sembra quasi che sia il caso a decidere chi debba sopprimere l'oggetto d’invidie, rancori, odi di più persone.

    Nei racconti di Maria Cristina Flumiani le vittime sono spesso talmente immorali, infide, meschine, che il lettore è come portato a fare il tifo per il colpevole, a dispiacersi della sua sorte, a sperare che la giustizia trovi l'appiglio giusto per rendere meno gravosa la condanna.

    Il commissario Tinon non è infallibile, o meglio, non sempre riesce a trasformare le sue giuste e inconfutabili deduzioni in un arresto, e nei diversi episodi egli convive con i suoi casi compiutamente risolti e quelli che, viceversa, non hanno visto un colpevole dichiarato. Sembra lavorare da solo, con l'aiuto di un collega, ma soprattutto dei validissimi consigli della sua saggissima compagna e delle informazioni, anche minime, dei testimoni, che ringrazia, sempre, del contributo dato.

    Raramente Tinon ha a che fare con una vera e propria malavita. Più spesso sono i casi della vita che portano al delitto. Una Milano raffigurata attraverso le più diverse professioni, entrando in case ben arredate, in uffici del Centro. Elemento quasi sempre presente nei gialli di Maria Cristina Flumiani, il custode del palazzo è spesso se non determinante, almeno di grande aiuto, come a sottolineare che nella sfortuna di essere portato al delitto, il colpevole ha anche quella di vivere in un contesto ove nascondersi o far perdere le tracce è quasi impossibile (il quasi e' poi eliminato dalla sagacia del commissario).

    Attraverso Tinon conosciamo gli orari dei negozi, i tempi per muoversi da un posto ad un altro, molto spesso usando la metropolitana. E' insomma una grande fotografia dei milanesi e per questo motivo Milano in giallo e' e rimarrà nella memoria dei lettori un dono assai gradito.

    Alberto Ricci

    Delitto alla Torre Velasca

    Bel tipo il commissario Marcello Tinon, alto, magro, occhi e capelli castani, gli occhiali senza montatura, la sigaretta sempre tra le dita, accesa o spenta. Indossa sempre sotto la giacca un golf a collo alto in inverno, una camicia abbottonata fino al collo in estate. Tranquillo, metodico, impassibile. In questo momento, è nel suo ufficio, seduto alla scrivania dove sono allineati in ordine perfetto una penna stilografica, un blocco, un’agendina, un portacenere e un pacchetto di sigarette.

    C’è anche una fotografia della fidanzata Camilla scattata qualche anno prima: un viso tondo incorniciato da un caschetto di capelli castani, due luminosi occhi chiari, un foulard annodato al collo, quello che indossa sempre. Insegna inglese alle medie e adora tutto quello che è britannico: dal plum cake ai maglioni con il tipico disegno intorno al collo. Lui e Camilla si erano conosciuti sulla spiaggia di Riccione, in vacanza; Camilla aveva notato quel ragazzo alto, magro, riservato, dai folti capelli castani e gli occhi dello stesso colore. Aveva finto di aver perso una lente a contatto proprio sotto la sua sdraio e dopo penose e inutili ricerche gli aveva proposto di mangiare insieme un gelato; solo dopo una settimana gli aveva confessato che ci vedeva benissimo. Durante quei giorni passati insieme sulla spiaggia, avevano scoperto di avere molte passioni in comune: i puzzle, le crostate di marmellata, le gite in bicicletta e i romanzi storici.

    Il commissario sta fissando una foto su un quotidiano che ritrae una donna sui quarant’anni, con i capelli rossi, un viso minuto, occhi nocciola che fissano intensamente l’obiettivo. Bella? Sicuramente provocante, con quelle labbra scarlatte e la scollatura profonda. Si chiamava Sibilla Ronchi ed è morta; caduta dall’ottavo piano della sua casa milanese nella Torre Velasca.

    Il giorno prima, mercoledì ventitré settembre, il commissario aveva ricevuto la notizia e si era recato sul luogo.

    Mentre attraversava via Larga, dedicò un pensiero a Pane e Farina, una pizzeria dove andava a mangiare con gli amici quando era adolescente; ognuno ordinava la sua pizza al banco e ritirava il tagliando con un numero; man mano che i piatti erano pronti, il pizzaiolo menzionava il numero corrispondente e chi lo aveva andava a prendere il suo piatto. Bei tempi, pensò guardandosi intorno mentre finiva di fumare una sigaretta.

    Era una bellissima mattina di settembre e la città si stendeva sotto un cielo azzurro senza nubi; l’aria era già frizzante e le strade piene di gente frettolosa. Sembrava impossibile che in una giornata così potesse succedere qualcosa di triste; eppure, da tempo aveva dovuto accettare l’omicidio, e quindi la morte, come un lato determinante del suo lavoro, che lo appassionava perché era esattamente come un puzzle: richiedeva la ricostruzione dei fatti e della personalità degli individui coinvolti e l’incastro di tutti gli elementi – orari, testimonianze, atteggiamenti – in un insieme che doveva risultare in armonia con tutto il materiale raccolto.

    Quando era arrivato nella piazza sotto la torre, aveva visto una folla di curiosi tenuti a distanza dagli agenti; si era avvicinato e aveva guardato il corpo che giaceva sull’asfalto, di schiena: una persona dai lunghi capelli rossi, piccola di statura e magra. Il medico legale aveva fissato intorno alle due l’ora del decesso; una conclusione piuttosto ovvia, visto che la polizia era stata contattata immediatamente dopo l’atterraggio del corpo. La nuca era insanguinata e mancavano delle ciocche di capelli. Suicidio? La vittima, disperata o arrabbiata, si era strappata i capelli prima di gettarsi nel vuoto? O qualcuno l’aveva spinta dopo una lotta furiosa?

    L’appartamento della defunta era perfettamente in ordine; bello, arioso, con un arredamento giocato sui toni del beige e del grigio, modernissimo, chiaramente progettato da un architetto. Nel salotto, c’erano un divano appoggiato alla parete, una libreria e un tavolino pieno di bottiglie; c’era anche una fotografia della donna sdraiata sulla spiaggia, con indosso un succinto costume da bagno color oro, i lunghi capelli sommariamente raccolti con una mano. I due lati esterni della stanza erano occupati da due finestre enormi che si affacciavano rispettivamente su via Paolo da Cannobio e su Piazza Velasca; quest’ultima era spalancata e sul davanzale c’erano una macchiolina cremisi e qualche capello rosso. Il commissario studiò attentamente la scena: sul parquet tra la porta d’ingresso e la finestra, vide delle ciocche di capelli con del sangue raggrumato alla base e delle strisce probabilmente causate dalle scarpe di una persona trascinata; queste giacevano abbandonate, una era capovolta.

    Il commissario si spostò nella camera da letto. Qui il disordine regnava sovrano: il letto era sfatto e coperto da vestiti, giacche e golf, come se la donna fosse stata indecisa su che cosa indossare; infine aveva scelto un vestito rosa acceso, ricordò il detective pensando al corpo senza vita riverso sul selciato. Sul comodino, c’era una rivista illustrata, aperta. Guardò nel cassetto: era pieno di fotografie che ritraevano la donna in diverse occasioni: in abito da sera, in discoteca, con un’amica in spiaggia. C’era una foto in cui era abbracciata a un uomo dalla pelle butterata, gli occhi e i capelli chiari; erano sorridenti e sembravano felici. Sul pavimento vide un paio di collant, una gonna a pieghe, un golf e una borsa di Gucci; guardò dentro: c’erano le chiavi della macchina, una trousse con i trucchi – fard, mascara, un pettine di legno e un rossetto – l’agenda, un fazzoletto bianco, un portafoglio di Gucci contenente una carta di credito, duecento euro in contanti e i documenti. Il commissario aprì la carta di identità; la foto ritraeva la proprietaria qualche anno prima: capelli rossi corti, naso lungo e grosso; doveva essersi sottoposta a un intervento perché nell’immagine più recente aveva un naso piccolo, perfetto. Risultava che era nata a Milano quarantaquattro anni prima e guidava da ventidue; era separata.

    Aprì un armadio: era pieno di vestiti. Ne aprì un altro: qui c’erano borse di tutte le dimensioni; piccolissime, di seta o velluto, più grandi, di stoffa e di pelle, in ogni caso, tutte firmate. In una scatola d’argento, seppellita sotto una tracolla, c’erano i gioielli: catene in oro e diamanti, anelli, orecchini adorni di pietre preziose. Sul fondo c’era una scatola di seta; l’aprì e vide un collana di rubini.

    Il bagno era ampio e vi aleggiava una fragranza piacevolissima; nella vasca da bagno, c’era una spugna intrisa di acqua. Sul lavabo, sormontato da uno specchio enorme, c’era una saponetta ancora umida, una matita blu aperta, una spazzola piena di capelli rossi e un flacone di acqua ossigenata. Nel cestino, c’erano dei batuffoli di cotone macchiati di sangue; quindi la vittima si era fatta male e si era disinfettata, forse si era tagliata con il rasoio che aveva usato per depilarsi, appoggiato sulla vasca e ancora pieno di peli. Sopra al lavabo, un armadietto aperto pieno di creme e boccette di vario tipo e dimensione: contò dieci fondotinta di marche diverse, ombretti di tutti i colori, rossetti e un flacone di profumo di Dior… buono, pensò, doveva ricordarsi di regalarlo alla sua fidanzata. A dire la verità, Camilla non metteva nessun profumo, diceva che il miglior profumo era quello del sapone; ma forse l’avrebbe messo per fargli piacere.

    Tinon cercò di ricostruire mentalmente la scena: probabilmente, la vittima era rientrata in fretta, aveva buttato la borsa sul pavimento della camera, si era tolta quello che indossava e si era fatta la doccia; si era depilata, truccata, pettinata, profumata; poi aveva scelto il vestito tra quelli più belli che aveva gettato sul letto. Pareva un incontro galante. E poi? Qui le tracce sparivano o quasi; sicuramente, era andata in salotto, aveva aperto la porta al suo ospite. Forse si erano seduti sul divano e avevano cominciato a discutere; la persona si era alzata per andarsene, lei l’aveva raggiunto sulla porta e, a questo punto, lui l’aveva trascinata davanti alla portafinestra e l’aveva buttata giù. Sembrava non esserci stata colluttazione. Era stato un uomo? Probabile; o comunque una donna molto forte.

    Il commissario passò alla cucina: era piccolissima, con lo stretto necessario: la cucina a gas, il frigorifero (quasi vuoto: conteneva del formaggio, quattro uova e una bottiglia di vino stappata), il lavello e una credenza con due ripiani: sul primo c’erano tazze, tazzine e due bicchieri; sotto c’erano i piatti e una zuppiera. Ma dietro gli parve di intravvedere qualcosa. Guardò meglio: erano due fotografie fatte con una polaroid che ritraevano un secrétaire e dei vasi cinesi; sullo sfondo c’era una parete rivestita da una tappezzeria dorata e un quadro molto bello che rappresentava uno scorcio del Canal Grande. C’era anche un articolo di giornale datato quattro anni prima che parlava del furto di due vasi preziosissimi e di un secrétaire avvenuto in una villa della Brianza. Ricordava benissimo il caso; si era trattato chiaramente di un colpo su commissione perché i ladri avevano portato via solo il mobile e i vasi lasciando l’argenteria e i quadri. La refurtiva era sparita, probabilmente acquistata da qualche intenditore e finita nella sua collezione privata. Il commissario infilò tutto in tasca.

    Suonò il campanello dell’appartamento vicino. Sulla targhetta in ottone c’era scritto Conti. Sentì un tramestio e poi una donna anziana aprì la porta. Tinon mostrò il distintivo e la signora Conti lo invitò a entrare. Si trovò in un salotto piccolo, con le pareti tappezzate di stoffa lucida beige, un divano dello stesso colore pieno di cuscini di velluto, un televisore enorme e un tavolino ingombro di riviste e libri. C’era anche una tazzina di caffè lasciato a metà, ancora fumante. Il commissario si affacciò alla finestra che dava su piazza Velasca: il corpo era stato portato via e i poliziotti ne avevano tracciato la forma con il gesso, la zona era stata transennata; alcuni curiosi indugiavano ancora, osservando l’operato degli agenti.

    Che disgrazia! Non che mi fosse simpatica, per carità, ma morire così! La signora Conti si passò la mano tra i corti capelli bianchi; gli occhi erano molto grandi, grigi, gli zigomi alti. Doveva essere stata molto bella, pensò l’investigatore. Vide alcune foto che risalivano a molti anni prima che la ritraevano il giorno del matrimonio e con una ragazzina che le somigliava molto.

    Ha sentito qualcosa? Dei rumori, delle voci? il commissario estrasse il taccuino.

    Prima dell’una, ho sentito arrivare l’ascensore e sbattere la porta dell’appartamento accanto. Poi più niente fino all’una e venti circa; a proposito, io mi regolo con i programmi televisivi, glielo dico subito; poco prima che finisse il telegiornale su Rai 2, quindi prima dell’una e mezzo, ho sentito fermarsi l’ascensore ed è arrivato qualcuno che ha avuto un alterco con la Ronchi; ho sentito due voci femminili. Dopo l’una e mezzo (era appena iniziato il programma Tg2 Costume e Società), ho sentito sbattere violentemente la porta dell’ingresso. Poi, alle due meno dieci, quando era appena cominciato Tg2 Medicina 33, ho sentito suonare il campanello della mia vicina. Ho sentito la porta che si apriva e si richiudeva subito dopo. Poi ho sentito la signora Ronchi che urlava e insultava qualcuno. Diceva ‘Aiuto, lasciami, fetente, lasciami’, cose così. Poi ho sentito il rumore di passi sul pavimento, ma forte, come se marciasse. Poi un grido lacerante. Mi sono affacciata e ho visto il corpo scendere, uno spavento che non le posso descrivere. Ho chiamato la polizia, che è arrivata in dieci minuti.

    Quando si è affacciata, non ha visto nessuno sporgersi dalla finestra da dove è stata gettata la sua vicina?

    La donna scosse il capo. Non ho visto nessuno, lo giuro. Mi chiedo come abbia fatto a scappare la donna si strinse nelle spalle.

    Probabilmente, l’assassino, uomo o donna, ha approfittato della confusione e si è allontanato. Tutti erano intorno al corpo della vittima e nessuno si è curato di lui il commissario finì le sue annotazioni. Mi descriva la sua vicina.

    Era piccola e magra, elegante. Aveva dei capelli bellissimi e le piaceva cambiare pettinatura: una volta li aveva lisci, altre volte ricci; oppure li raccoglieva; d’altra parte, andava dal parrucchiere molto spesso. Penso che fosse una prostituta d’alto bordo; sicuramente non lavorava e non aveva problemi economici. Chissà chi erediterà le sue cose…

    Riceveva delle persone?

    Un paio di volte, ho incontrato sul pianerottolo un signore con i baffi e il cappello. Era cortese, mi ha sempre salutato sorridendo.

    Si ricorda se per caso aveva qualcosa di particolare nel viso? Il commissario intanto si infilò una sigaretta in bocca.

    Non mi pare. Non accenderà la sigaretta, vero? Non sopporto il fumo.

    Come?… Ah… stia tranquilla, sono un fumatore accanito e il fatto di tenerla tra le labbra mi consola un po’. La ringrazio delle informazioni, sono preziose ripose il taccuino e uscì.

    Il commissario bussò al vetro della portineria. La portinaia, una donna piccola e vispa, si affacciò alla porta di una stanza piccolissima, arredata da un divano e un televisore; sul retro, si intravedeva la cucina.

    Buongiorno, signora; devo farle alcune domande. Vorrei sapere chi è entrato o uscito oggi nell’intervallo di tempo tra le dodici e mezzo e le due il commissario intanto aveva estratto il taccuino.

    Allora, alle dodici e mezzo ho visto uscire le persone che lavorano negli uffici che fanno la pausa pranzo a quell’ora; poi, verso l’una meno venti, ho portato alla signora del primo piano uno straccio che le era caduto nel cortile interno; mi sarò assentata una decina di minuti. Dopo l’una, ho visto un pony express che andava dal commercialista; poi il garzone del salumiere che porta la spesa a una signora anziana che abita qui e il filippino che fa le pulizie nella casa del primo piano. Poi è entrata una donna che ha detto che andava dalla Ronchi; era piccola di statura, con un piumino chiaro e lo zainetto. Viene tutti i mesi. Ho citofonato alla Ronchi e l’ho lasciata salire; l’ho vista uscire di corsa dopo una decina di minuti; poi, dopo l’una e mezzo, un sasso ha infranto il vetro della finestra della cantina e sono scesa a vedere che cosa era successo.

    Quindi, qualcuno può essere entrato in quei pochi minuti; per quanto tempo è stata lontana dalla portineria? il commissario annotò le risposte della donna.

    Non so, cinque minuti; sono scesa a vedere e sono tornata subito. Vede, la porta è qui a sinistra e bisogna scendere una rampa di scale per arrivare in cantina.

    Mi può accompagnare, per favore?

    Scesero la rampa di scale, piuttosto lunga. Sì, ci volevano cinque minuti a scendere e risalire.

    È certa che fosse dopo l’una e mezzo? chiese il commissario, continuando a prendere nota.

    Sì, perché all’una e mezzo arriva il filippino. È puntualissimo. Saranno state le due meno venti quando il vetro si è rotto.

    Come descriverebbe la signora Ronchi?

    Innanzitutto, non era una ‘signora’. Era elegante, ma non era bella né educata, aveva un atteggiamento altezzoso e mi guardava come se puzzassi. Era una che si faceva mantenere dagli uomini, una prostituta, glielo dico io rispose la portinaia impettita.

    Perché?

    Perché è… era una donna sfacciata, con quel rossetto scarlatto, i capelli rossi, le gonne corte… so che l’appartamento era dell’ex marito, che deve averle dato tanti soldi quando si sono separati perché lei non lavorava.

    Lo conosce?

    L’ho visto anni fa quando ha comprato l’appartamento; era bello, peccato che aveva la pelle del viso rovinata.

    Non ha visto nessun altro?

    Un signore con i baffi. A proposito, l’ho visto anche oggi; è andato via prima che arrivasse la signora con lo zainetto.

    Non l’ha visto entrare? il commissario la guardò attentamente.

    No, ma tra le dodici e trenta e l’una sono salita da una signora del primo piano a portarle un asciugamano che le era caduto nel cortile interno. Sono stata via una decina di minuti; sarà arrivato allora.

    E dopo le due ha visto qualcuno uscire? Una persona nuova, mai vista prima?

    "Purtroppo no perché sono uscita a vedere che cosa era successo e sono stata in piazza per almeno un quarto d’ora se non di più.

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