Occhi profondo mare
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About this ebook
L'autore:
Cristian Martini nasce a Parma il 27 novembre 1979. Trascorre infanzia e adolescenza tra due posti completamente diversi: un tranquillo e isolato paese di collina sull'Appennino tosco-emiliano e la rumorosa e caotica Milano.
A vent’anni inizia il suo vagabondaggio cimentandosi in viaggi in giro per il mondo che gli fanno scoprire la passione per la fotografia e la scrittura.
I suoi romanzi sono pubblicati dalla Casa Editrice "La Memoria del Mondo" e numerose sue fotografie sono comparse su riviste e libri distribuiti a livello nazionale. Dello stesso autore "Ultimo Sognatore" , "E venne sera" , "Raggio di sole".
Nuovi racconti sono in corso di pubblicazione.
Sito ufficiale dello scrittore: www.martinicristian.it
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Occhi profondo mare - Cristian Martini
Martini
Occhi profondo mare
a Veronica
Senzanome era un villaggio insolito. Uno di quelli dove la vita scorre senza che ci si preoccupi di ciò che succede altrove, perché tanto nulla potrebbe scalfire la serenità che traspare da ogni minimo movimento, da ogni insignificante oggetto.
Non aveva intenzione di tornarci, ma la foratura di uno pneumatico del suo bus gli sembrò un segno da cogliere.
Lui non era uno di quelli che pensano che le cose succedano per caso, o uno dei tanti che studiano la chiave di casa per inserirla nella serratura al primo colpo. E nemmeno uno di quelli che premono il dentifricio dal basso.
Così pensò che avrebbe fatto bene a terminare lì la sua corsa e a proseguire a piedi per quel sentiero che sapeva dove imboccare. Salì sul tetto dell’autobus, slegò il suo zaino e se lo mise in spalla.
Nulla era cambiato, sembrava che il tempo avesse trovato un accordo con la terra per lasciare le cose al loro posto.
Una piccola stradina sterrata accompagnata da un basso muro di pietre verdi per l’età e per il muschio zigzagava giù dalla montagna. Intorno, una fitta foresta lasciava a malapena entrare qualche raggio che spintonando tra le chiome raggiungeva un soffice strato di foglie secche.
Nessun cartello, nessuna indicazione.
Era la prima volta che scendeva per quella via. L’ultima volta l’aveva solo risalita per andarsene.
Senzanome l’aveva accolto dal mare, anni prima. Così tanti anni prima che si fermò un istante per contarli a mente.
Dopo un’ora il cammino finì su una spiaggia dalla sabbia bianca.
Si fermò e si tolse scarpe e calzini.
Il sole alto nel cielo aveva caricato di fuoco ogni singolo granello.
Se ne accorse subito, per questo cominciò a saltellare verso il mare.
Che splendido mare. Era sicuramente il più bello che avesse mai visto. E lui di mari ne aveva visti parecchi in giro per il mondo.
Si fermò un istante per contemplarlo, immerso fino ai polpacci, con i pantaloni arrotolati al ginocchio, le scarpe in mano e lo zaino su una spalla.
Le onde calme accarezzavano la spiaggia, piccoli banchi di pesciolini cambiavano repentinamente direzione seguendo l’umore del capogruppo. Mare e solo mare fino a perdita d’occhio. Alle sue spalle dolci montagne chiudevano quel paradiso proteggendolo come il guscio di una conchiglia. Delicate distese di irti campi da pascolo verdissimi intervallati da ciuffi di boschi. Ai loro piedi … Senzanome. Un villaggio antico come pochi, le case in sasso con tegole rosse, un fienile con legnaia a pochi metri da ognuna, forno e stalla. Ogni piccola abitazione era autosufficiente come un paese. Senzanome era per tutti i suoi abitanti l’unico mondo conosciuto. Mi fermerò qui qualche giorno. Chissà che non riesca a fare qualche bello scatto
si disse. In lontananza vide un bambino. Gli si avvicinò e rimase sorpreso intravedendo i suoi occhi.
Sono profondi come il mare
si disse.
Il bambino era intento in uno strano e incomprensibile gioco. Saltellava avanti e indietro sul bagnasciuga.
«Ehi piccolo, come mai non sei a scuola come tutti gli altri?»
«Non è detto che quello che fanno gli altri sia giusto, anche le pecore stanno in coda quando vanno al macello» rispose senza voltarsi.
Accidenti se aveva la risposta pronta!
«Beh, ma tu sei troppo piccolo per sapere cosa sia giusto o sbagliato.»
«Dicono anche che non dovrei parlare con gli sconosciuti.»
«Bravo! Vedi che andare a scuola serve a qualcosa?»
«…»
«Cosa fai, non mi parli più? Ah, ho capito! Non mi parli perché sono uno sconosciuto! Ma se ti avessi voluto fare del male te ne avrei già fatto, non credi?»
«…»
«Guarda che puoi parlarmi, non sono cattivo.»
«Lo so, si vede. E poi mi piace parlare con gli sconosciuti, anche se non se ne vedono poi tanti da queste parti. All’inizio dicono sempre qualcosa di diverso. Poi si ripetono e alla fine si ammutoliscono.»
«È normale, dopo un po’ si esauriscono gli argomenti. Ma il bello di un rapporto è proprio il non doversi vergognare dei momenti di silenzio, il non dover cercare per forza qualcosa da dire.»
«Allora, non ti piace la scuola?»
«Davvero t’interessa saperlo?»
«Certamente. Pensa che sto scrivendo un libro su voi bambini e le caratteristiche che avete in comune con gli anziani. In realtà sono fotografo, o meglio, vivo vendendo ogni tanto delle foto ad alcune riviste. Non diventerò mai ricco, ma mi permette una certa autonomia.»
«No, non mi piace la scuola. Ci sono andato per un paio d’anni, sai? Ma era così noiosa che ho deciso di lasciar perdere.»
«Cosa? Ma da quanto tempo è che non ci vai?»
«Tre anni più o meno.»
«Quindi hai dieci anni.»
«Undici. Ho letto un libro che dice che in Vietnam valgono anche i nove mesi trascorsi nella pancia della mamma. In effetti non è un ragionamento sbagliato.»
«E tua madre non ti dice nulla?»
«Proprio nulla. È morta mettendomi al mondo.»
«Mi dispiace, mi dispiace molto. E tuo padre?»
«Mai conosciuto. Nemmeno i miei nonni l’hanno mai visto. Deve essere stata un’avventura, sai?»
«Mi dispiace anche per lui.»
«A me no. Non so cosa voglia dire avere dei genitori, perciò non so cosa mi stia perdendo.»
«Come ti chiami, piccolo?»
«Primo.»
Sussultò.
«Che nome pretenzioso! E saresti primo in che cosa?»
«Non so, probabilmente quando mia madre lo scelse prima che nascessi pensava fossi il primo di una lunga serie.»
«E invece sei rimasto l’unico.»
«Già … e tu come ti chiami?»
«Il mio nome è Coronto.»
«Accidenti! Mia madre si era proprio illusa scegliendo il mio nome, ma la tua doveva odiarti, ma che razza di nome è?»
«Senti piccolo, cerca di portare rispetto. È un nome importante, un nome che ho solo io. Vedi? Anche mia madre mi ha reso unico con questo nome.»
«Più unico di così …» disse in tono ironico.
«Dove vivi ora?»
«A casa dei nonni.»
«Se mi dai due minuti per mettermi le scarpe ti accompagno.»
«Va bene, intanto io faccio partire le mie orme» disse saltellando sul bagnasciuga e poi indietreggiando quando arrivava l’onda a ripulire.
«Che gioco è?» chiese Coronto.
«Non è affatto un gioco. Guarda, lascio le mie impronte qua. Ora che arriva l’onda vedrai che le preleverà e le porterà al largo.»
«No, in realtà …»
«Hai visto?» urlò Primo interrompendolo e indicando la sabbia pulita. «Se le è portate via. Chissà dove saranno le prime che ho lasciato andare. Mi piacerebbe un giorno andare a cercarle.»
«Va bene, quando sarai più grande», disse Coronto scuotendo la testa. «Andiamo, sono pronto.»
Il bambino tolse lo sguardo dal mare e per la prima volta guardò lo straniero negli occhi.
Quest’uomo ha gli occhi vissuti quanto il mare
pensò.
Si voltò e cominciò a correre verso il villaggio.
«Seguimi» gli gridò.
Le case erano collegate da piccoli sentieri sterrati oppure da gradini in sasso, affiancati da due bassi muri di pietre anche questi ricoperti di muschio.
Dopo dieci minuti Primo aprì il cancello di legno del cortile e attese che Coronto arrivasse.
«Potevi anche evitare di correre così veloce» gli disse quasi senza fiato.
«Entra, io abito qui. Ti offro un tè freddo.»
«Mi sembra il minimo dopo questa sudata.»
La casa era uguale alle altre. Tutta in sasso, con una grossa porta di legno.
Primo girò il chiavistello che cigolò nell’incastro ed entrò. Un’aria fresca andò incontro allo straniero.
«Ma com’è possibile che ci sia così fresco quando fuori ci saranno più di trenta gradi?»
«È grazie ai muri. Sono in sasso e sono spessi. Il problema è l’inverno, quando il freddo è ovunque. Per fortuna c’è una legnaia ben fornita, dando da mangiare alla stufa dei bei tronchi di quercia mi restituisce calore per mezza giornata.»
L’ingresso era piccolo, sulla destra c’era una minuscola cucina, a sinistra si apriva un grosso salone con camino. Il mobilio era antico, fatto a mano e di ottimo gusto. Era un posto veramente accogliente.
«Siediti, ti vado a prendere il tè.»
Il camino era ampio, appeso su di esso c’era un’enorme testa di cinghiale imbalsamata. Il tavolo era di legno scuro, sembrava pesare una tonnellata. Una poltrona della stessa fattura era appoggiata alla parete e completamente ricoperta di cuscini foderati da tessuti gialli e rossi. Un piccolo tavolino accoglieva delle margherite fresche.
Nonostante ci fossero due finestre entrava poca luce e si creava così un’atmosfera tranquilla e immobile.
«Ecco, dissetati» disse Primo posando sul tavolo un grosso bicchiere di vetro spesso su un sottobicchiere d’argento.
«Mi ci voleva! E dove sono i tuoi nonni? A pescare? Nei campi?»
«Al cimitero.»
«Come al cimitero? Non saranno morti anche loro?» disse scherzando.
«Già. Cinque anni fa mia nonna si ammalò. Se ne andò velocemente ma