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Aldo Moro e gli americani
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Aldo Moro e gli americani

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Cosa sarebbe accaduto se il 20 giugno 1976 il Partito comunista italiano avesse vinto le elezioni? Come si sarebbero comportati gli Stati Uniti d’America e gli altri alleati occidentali? Le fonti ora disponibili aprono qualche squarcio sulle preoccupazioni – a tratti frenetiche – vissute a Washington e nelle principali capitali europee ma offrono anche qualche spunto di riflessione più ampio sui margini di manovra entro i quali l’Italia poteva agire nel contesto della guerra fredda e sulla visione di lungo respiro che muoveva personalità come Aldo Moro ed Enrico Berlinguer. Senza confinarsi nelle categorie di interferenza o di sovranità limitata sembra oggi possibile approfondire con quali modalità la versione rigida e bipolare della contrapposizione in due blocchi ha ostacolato il superamento della “democrazia incompiuta” in Italia.
LanguageItaliano
Release dateJul 26, 2016
ISBN9788838244780
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    Aldo Moro e gli americani - Andrea Ambrogetti

    Andrea Ambrogetti

    ALDO MORO E GLI AMERICANI

    Ringraziamenti

    Ringrazio Leonardo Campus, Luigi Cherubini, Lele Jandon, Maria Lenti, Riccardo Perissich e Gabriella Romano per i preziosi consigli forniti durante le prime stesure del testo.

    Un particolare ringraziamento al Centro di documentazione Archivio Flamigni per la consultazione dei documenti britannici, per aver gentilmente concesso la fotografia che compare in copertina e per la costante accoglienza e disponibilità.

    Desidero infine ringraziare il Centro di studi americani di Roma e le altre biblioteche che hanno reso possibile questo lavoro: Biblioteca nazionale centrale di Roma, Biblioteca di storia moderna e contemporanea, Biblioteca Guillaume Apollinaire del Centro di studi italo-francesi dell’Università Roma Tre e le biblioteche Giordano Bruno, Europea e Flaminia" dell’Istituzione delle biblioteche di Roma.

    Le traduzioni dei testi originali sono a cura dell’autore.

    La collana è peer reviewed

    Copyright © 2016 by Edizioni Studium - Roma  

    versione digitale: ISBN 978-88-382- 4478-0

    versione cartacea: ISBN 978-88-382-4421-6

    www.edizionistudium.it

    ISBN: 9788838244780

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write (http://write.streetlib.com)

    un prodotto di Simplicissimus Book Farm

    Indice dei contenuti

    Prefazione

    I. Se vince Berlinguer

    II. Italia 1976: nessuna opzione esclusa

    III. Le loro memorie

    IV. Sacrificare l'Italia?

    Appendici

    1) Elenco dei documenti utilizzati

    2) Il documento Options for the West

    3) Articolo del «Financial Times»

    4) I principali statisti occidentali alla metà degli anni Settanta

    Riferimenti bibliografici

    Indice dei nomi

    Prefazione

    La storiografia esistente intorno agli anni della solidarietà nazionale offre ormai numerose e meditate chiavi di lettura. Ora che un minimo di distacco temporale consente di guardare con sufficiente autonomia agli anni Settanta, si possono prendere in esame i diversi aspetti e temi che hanno fatto di quel decennio una fase di passaggio decisiva nella storia repubblicana.

    Tra questi meritava probabilmente un approfondimento quello delle reazioni occidentali alla collaborazione tra Democrazia Cristiana e Partito comunista, sia perché solo in questo momento iniziano a essere accessibili le fonti archivistiche, seppure parzialmente, sia perché quelle reazioni ebbero un certo peso sullo svolgimento dei fatti, lasciando ad alcuni la sensazione che l’Italia non fosse del tutto libera di procedere nella formazione, o anche nella sperimentazione, dei propri governi.

    Capire questo conflitto senza pregiudizi e senza stereotipi è il limitato contributo che si propone questa ricerca. La speranza è che tale contributo possa aiutare anche chi tornerà a studiare le motivazioni profonde dell’azione di Aldo Moro, il rapporto tra la solidarietà nazionale e le altre fasi della nostra storia politica e magari quel tema infinito delle rappresentazioni dell’Italia negli altri paesi europei e non.

    Andrea Ambrogetti

    I. Se vince Berlinguer

    Cosa sarebbe accaduto se alle elezioni per il rinnovo del parlamento italiano del 20 giugno 1976 non avesse vinto la Democrazia Cristiana, che ebbe 38,7% dei voti, ma il Partito comunista italiano, che di voti ne ebbe 34,4%, il risultato migliore di tutta la sua storia?

    Possiamo immaginare alcune ipotesi. In ossequio a quanto avviene in molte democrazie moderne, la guida del governo sarebbe stata affidata al leader del partito più votato e quindi per la prima volta nella storia della repubblica italiana un comunista si sarebbe insediato a Palazzo Chigi. Enrico Berlinguer, il segretario del Pci, poteva a quel punto tentare di formare un governo insieme agli altri partiti di sinistra, cioè i socialisti e i socialdemocratici. Oppure, visto che lo stesso Berlinguer aveva affermato di non puntare a una maggioranza di sinistra del 51%, lui (o un esponente migliorista del suo partito) poteva tentare di diventare il vicepresidente di un governo di grande coalizione, offrendo la premiership a un democristiano o a un socialista. In questo caso il presidente del consiglio poteva divenire il segretario della Dc Benigno Zaccagnini o Aldo Moro, presidente dello stesso partito e destinato, secondo alcuni osservatori, a dicembre a salire al Quirinale, o un altro democristiano, Giulio Andreotti, ritenuto una figura che poteva assicurare gli americani. Ai comunisti, paradossalmente ma necessariamente, sarebbero stati assegnati alcuni ministeri di minore importanza e non quelli sensibili sul piano geopolitico: esteri, tesoro, interno, difesa. Un governo di questo tipo non mandava i democristiani all’opposizione ma avrebbe costituito la migliore realizzazione possibile della strategia berlingueriana del compromesso storico.

    E come avrebbero reagito gli americani? Si sarebbero limitati a esprimere la propria condanna o sarebbero intervenuti? Come? Come avevano fatto in Cile tre anni prima coprendo un golpe dell’esercito? O come avevano fatto per decenni in America centrale insediando e deponendo capi di stato e di governo come fossero pupazzi? Oppure avrebbero trattato lo stivale con la stessa diffidenza con cui stavano ora trattando la Spagna e il Portogallo, appena uscite dalla dittatura e con i comunisti sdoganati? Oppure avrebbero cercato di isolare l’Italia dal resto del mondo occidentale, magari sospendendola dalla Nato e, possibilmente, dalla Cee?

    Per inviare un segnale molto forte a tutti gli eurocomunisti avrebbero ottenuto la sua espulsione dall’alleanza atlantica e, di conseguenza, avrebbero ritirato le proprie truppe (migliaia di militari sparsi tra Aviano, Vicenza, Pisa, Gaeta, Napoli, La Maddalena, Gioia Del Colle, ecc.), con l’effetto di spingere l’Italia verso la vicina Jugoslavia, verso l’indeterminato mondo dei non allineati, a rischio perfino che l’Unione Sovietica – approfittando della casella lasciata vuota – facesse capolino, proprio tramite più intense relazioni con Tito, sul Mare Adriatico, un mare più centrale e meno scomodo del Mar Nero?

    Se è molto difficile rispondere a queste domande in modo esauriente, possiamo almeno formulare alcune ipotesi anche grazie alla possibilità di consultare alcuni documenti dell’epoca. Si può tentare così di ricostruire alcune dinamiche di un periodo del secondo novecento in cui l’Italia si è trovata al vertice delle preoccupazioni di mezzo mondo.

    La storiografia ha già dedicato una certa attenzione all’evoluzione della politica italiana nei suoi legami e nel contesto della guerra fredda. Molto pure si è indagato a proposito della dimensione internazionale del Pci e della biografia di Berlinguer. Anche per questo ci si è voluti concentrare su un periodo specifico del dispiegarsi del nesso tra scelte di politica internazionale e scelte di politica internazionale. Si è ipotizzato che il triennio ’76-’79 sia stato un momento di svolta e che più spazio vada dato allo studio del comportamento, in Italia, di Aldo Moro e dei democristiani, e fuori dall’Italia, degli alleati occidentali, in particolare degli Stati Uniti e del Regno Unito.

    Prima di procedere sono necessarie alcune premesse sugli archivi, le fonti, la metodologia e il contesto.

    Archivi tra istantaneismo e trasparenza

    La disponibilità, quindi l’obbligo di conservazione, e l’accesso, regolamentato secondo alcuni criteri, dei documenti pubblici, tanto più dei moderni stati democratici, costituiscono anche la base per ogni storiografia. Non è facile determinare in assoluto il punto di equilibrio ottimale tra le esigenze di riservatezza dell’azione di governo nel corso del suo svolgimento e quelle di successiva (o quasi contestuale, come dovrebbe essere per il compito di vigilanza dei parlamenti) conoscenza della stessa.

    Wikileaks, ad esempio, prende le mosse da una giusta esigenza di trasparenza, ma la sua battaglia ha anche messo in luce come l’accesso pubblico alla totalità, e in tempo reale, dei documenti governativi non porti automaticamente benefici in termini di controllo pubblico (o della magistratura) su eventuali abusi. I mass media, ma in ogni caso non tutti i giorni, possono anche rendere disponibili numeri elevati di documenti ma ciò non li rende di più facile lettura e non toglie che del loro contenuto dovranno poi occuparsi, con tempi lunghi, il parlamento, le forze politiche, le associazioni civiche, gli studiosi, di nuovo i giornalisti, ecc.

    Il cosiddetto Nasagate, a ben vedere, non riguarda tanto la trasparenza quanto piuttosto la cybersecurity e le sue delicate e complesse relazioni con la privacy. Esso indica inoltre che, anche tra gli stati occidentali, vi sono tradizioni diverse in termini di confini tra istituzioni statali e aziende private e di relazioni tra magistratura e governo. Negli Stati Uniti il coinvolgimento di aziende esterne nella gestione delle attività statali è considerato una prassi normale (e forse anche un modo per creare business e un numero non indifferente di posti di lavoro con ottimi stipendi). In Europa resiste ancora la tradizione di affidarsi a funzionari pubblici, pagati di meno ma vincolati a vita al servizio pubblico. Negli Stati Uniti inoltre la magistratura, per quanto sia senza dubbio un potere autonomo e indipendente, concede più facilmente i mandati di perquisizione o sequestro.

    Entrambi questi casi, che sollevano anche altri problemi relativi all’effettiva cooperazione all’interno delle alleanze politiche e militari alle modalità di prevenzione del terrorismo, sono rilevatori della dilagante tendenza della società contemporanea, senz’altro facilitata dalle tecnologie informatiche e telematiche, a una sorta di istantaneismo.

    Le normative relative agli archivi pubblici, e a quelli diplomatici in particolare, poggiano sul principio generale di un limite di tempo entro il quale le carte non possono essere rese pubbliche, anche se vi è una soglia più bassa a partire dalla quale l’accesso può essere concesso a richiesta e previa autorizzazione. Una discussione sarebbe senz’altro opportuna non tanto sul principio in sé ma su diverse questioni che negli ultimi anni in Italia si sono intrecciate con altrettanti snodi della recente storia nazionale.

    In quale misura il parlamento riesce a esercitare il suo diritto-dovere di sorveglianza sull’attività delle pubbliche amministrazioni, in particolare di quelle centrali, di corretta conservazione dei documenti? La magistratura è sempre stata messa in condizione di accedere, ovviamente a prescindere dai tempi ordinari, alle carte pubbliche e in particolare a quelle possedute dalle forze di polizia e dai servizi di informazione? Esiste un’adeguata attenzione verso la conservazione, la fruizione e la valorizzazione dello sterminato patrimonio culturale costituito dagli archivi pubblici e anche di quelli privati?

    Per rispondere servono alcune innovazioni legislative. La prima è una legge sul modello di quella americana del Freedom of Information Act, che ha una portata ben più vasta di quella italiana vigente sull’accesso perché non c’è bisogno di dimostrare un interesse diretto e specifico. I documenti concernenti la sicurezza sono ovviamente esclusi dall’accesso, ovvero diventato accessibile, e comunque non i tutti i casi, molti anni dopo. La seconda è una norma che stabilisca i casi (ad esempio stragi, terrorismo e criminalità organizzata) nei quali sarà vietato negare l’accesso (cioè, in alcuni casi, porre il segreto di stato) al parlamento e alla magistratura e anche al pubblico e quindi si autorizzerà il versamento anticipato all’Archivio centrale dello stato e alle sue varie sedi, anche se i tempi potranno essere leggermente sfalsati.

    Occorre insomma evitare con certezza che si ripetano alcuni orrori del nostro recente passato come gli archivi separati, le carte accumulate non a scopi istituzionali ma per fini di bassa lotta politica, gli archivi occultati, gli armadi rigirati verso il muro, i timbri apposti e poi bianchettati, le date aggiunte ex post.

    La strada maestra rimane quella di considerare da subito la documentazione prodotta dagli apparati pubblici come parte del patrimonio culturale nazionale (ma essendo culturale, nello stesso tempo, non ha confini) e quindi investire sulle migliori modalità di conservazione, fruizione e valorizzazione. Il diritto dei cittadini a conoscere gli atti pubblici dovrebbe essere inserito negli elenchi di rango costituzionale dei diritti. In un mondo ideale, infine, questo dovrebbe comportare prima o poi la rivoluzione del versamento unico di tutte le istituzioni e pubbliche amministrazioni, Carabinieri e Farnesina inclusi.

    Sulle fonti

    Per delimitare il campo di indagine e per approfondire in particolare le reazioni dei paesi occidentali alla proposta di compromesso storico e ai governi di solidarietà nazionale, abbiamo selezionato i documenti scambiati dal gennaio al luglio del 1976 tra il ministero degli esteri del Regno Unito (verrà utilizzata quasi sempre la dicitura Foreign Office), le ambasciate britanniche a Roma, Washington e Bonn e le due rappresentanze permanenti a Bruxelles, quella presso la Cee e quella presso la Nato [1].

    Oltre a ragioni pratiche per cui sarebbe scarsamente praticabile analizzare documenti diplomatici (o comunque governativi relativi agli affari esteri) per un periodo di tempo molto lungo, uno studio di questo tipo speriamo possa fornire indicazioni utili anche per riflettere sulla più ampia visione dell’Italia propria dei suoi alleati occidentali, al di là della situazione contingente della metà degli anni Settanta e radicata in nozioni e concezioni di più lunga durata.

    Questo materiale sarà messo a confronto con una fonte secondaria, le memorie dei protagonisti non italiani dello stesso periodo, le meno conosciute nel nostro paese, e con alcuni spunti della storiografia.

    La consultazione dei documenti diplomatici britannici è stata senz’altro facilitata dall’ampio versamento dagli archivi di stato britannici effettuato nel 2008 dal giornalista Filippo Ceccarelli. La documentazione trasferita è relativa agli anni 1969-1978 ed è disponibile presso il Centro documentazione Archivio Flamigni, a poca distanza da Roma. L’ampiezza di questo versamento, composto di 400 documenti, di cui 230 dell’anno 1976, rende il materiale disponibile al di fuori della sua sede originaria una sezione sufficientemente significativa per uno studio quanto meno preliminare.

    La storiografia lavora normalmente sui documenti diplomatici, anche quando riguardano aspetti e momenti controversi, non tutti all’epoca di dominio pubblico. In altre parole il nostro scopo non è quello di andare a caccia di documenti riservati. Il nostro scopo è approfondire un periodo della recente storia italiana in cui i legami internazionali hanno pesato in modo molto significativo. Come si vedrà, accordi, o meglio, ipotesi di accordi, concordati tra alcuni stati e riguardanti l’Italia hanno svolto un ruolo importante ma, probabilmente, non decisivo.

    È vero tuttavia che la conoscenza avanza quando le fonti sono disponibili e accessibili. Quando si tratta di fonti pubbliche tale accesso è prima o poi doveroso (per questo in appendice ci siamo presi la libertà di collocare una riflessione personale sui legami tra storia e archivi pubblici).

    Per una volta abbiamo pensato fosse opportuno derogare alla regola secondo la quale i documenti vanno studiati ma non riproposti, se non succintamente. La loro rilettura, seppure parziale, ci è parsa utile perché mette in luce ancora una volta quanto le relazioni tra soggetti diversi ma vicini, anche quando si danno per scontate, non siano esenti da paradossi e contraddizioni (in appendice è disponibile la traduzione completa dei due documenti che ci sono parsi i più importanti). Nonostante ciò, non va dimenticato che anche questi documenti, come molti di questo tipo, potrebbero essere stati redatti in modo frettoloso e sono caratterizzati da un linguaggio burocratico.

    Sulla metodologia

    Passiamo ad alcune avvertenze metodologiche relative a questa specifica ricerca.

    La prima riguarda la selezione. Come è noto, e come si vede facilmente oggi in tempi di comunicazioni informatiche e telematiche, il flusso dei dispacci diplomatici è ingentissimo. Se si pensa che ogni stato sovrano (siamo arrivati a 200) dispone di una rete di ambasciate, consolati e rappresentanze, composta spesso da decine e decine di sedi e che da ognuna di queste partono ogni giorno numerosi documenti, si dovrà necessariamente procedere a una selezione sulla base di criteri di pertinenza e di rilevanza.

    La seconda concerne la tipologia. Un tipo di documenti, soprattutto di quelli in partenza dalle ambasciate, ha una funzione quasi esclusivamente informativa a beneficio del proprio governo. Sono questi i documenti compilati grazie agli incontri con gli esponenti del governo locali o di altre organizzazioni, ma anche grazie agli articoli di giornale e che spesso a un articolo di giornale somigliano.

    Un altro tipo nasce da esigenze informative più specifiche, di solito di qualche amministrazione nazionale, e contiene informazioni raccolte ad hoc. In alcuni casi vi si possono trovare posto anche riflessioni, ipotesi e scenari.

    Un altro ancora è costituito dai documenti redatti dai governi, in particolare dagli uffici del primo ministro o del ministro degli esteri, e inviati agli ambasciatori o ai direttori generali. In alcuni casi questi documenti contengono le istruzioni su come comportarsi, ad esempio in una imminente riunione internazionale, e cosa dichiarare pubblicamente, o riservatamente, in merito a certe decisioni del proprio governo. Le reazioni degli ambasciatori e degli altri diplomatici a questi documenti potrebbero contenere annotazioni interessanti.

    Infine, ed è senz’altro il tipo più importante, il governo è impegnato in una certa politica la quale, perché abbia successo, richiede l’attivazione dei propri diplomatici sparsi per il mondo. Gli scambi che avvengono tra la capitale e le varie sedi a questo proposito conterranno probabilmente le informazioni più significative.

    La mentalità e il comportamento del singolo diplomatico possono quindi diventare importanti perché non sempre coincideranno con le linee politiche perseguite dai governi in carica. In altre parole, occorrerà tenere presente che, più o meno grande, potrebbe esistere e spesso esiste uno scarto tra le idee e i programmi degli organi politici e le idee degli ambasciatori. Come vedremo, sembra che sia stato proprio questo il caso tra Londra, dove il ministro degli esteri tende a frenare, e Roma, dove l’ambasciatore di Sua Maestà, è sempre più allarmato.

    Qualche volta i dispacci diplomatici dicono qualcosa di più rispetto al loro scopo e contenuto originari. Nel nostro caso, non mancano analisi dell’evoluzione sociale e culturale dell’Italia. Il grado di conoscenza di alcune caratteristiche nostrane era abbastanza alto, in particolare per i temi economici e istituzionali. Gli autori dei dispacci non erano certo sprovveduti. Alcuni di loro hanno fatto in tempo a vivere da protagonista un periodo che va dalla fine della guerra al crollo del muro di Berlino e questo gli ha dato la possibilità di compiere confronti di ampio respiro. Ma è sempre difficile interpretare il presente e qualche volta si resta prigionieri di vecchie interpretazioni.

    Accanto alle preoccupazioni globali relative agli assetti geopolitici, troviamo traccia delle preoccupazioni relative ai nodi strutturali della situazione italiana: il dualismo nord-sud, l’inefficienza pubblica, il corporativismo e così via. Anche l’assenza di una democrazia dell’alternanza è notata. Capita, infatti, che gli ambasciatori si interroghino sul perché in Italia non esistano due forze, una di centrosinistra e una di centrodestra, stabilmente omogenee con le rispettive famiglie politiche europee.

    Sul contesto

    A metà degli anni Settanta Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e Germania Federale percepiscono la necessità e l’urgenza di un vero e proprio monitoraggio della situazione politica italiana. Non stiamo parlando delle consuete relazioni che avvengono tra paesi che fanno parte della stessa alleanza militare, la Nato, o della stessa associazione continentale, la Cee. E neanche dei rapporti di ogni tipo, da quelli culturali a quelli commerciali, che legano questi cinque paesi da secoli. Si tratta di qualcosa di diverso. Si tratta dell’elaborazione riservata di scenari di intervento tramite i quale svolgere un ruolo nel gioco politico italiano, forse, in parte, di sostituirsi a esso.

    Nel 1975 è suonato un preciso campanello d’allarme perché, in occasione delle elezioni comunali, provinciali e regionali, il Pci ha guadagnato consensi in modo spettacolare passando dal 27,8% del 1970 al 33,4%. I comunisti governeranno d’ora in poi moltissime città e molte regioni e, se si votasse per il parlamento, potrebbero risultare il partito più votato. Uno scenario non compatibile con il mondo bipolare disegnato a Yalta e saldamente simboleggiato dal muro di Berlino.

    Cosa ha influito di più su questa attenzione particolare delle quattro potenze occidentali verso l’Italia? Lo stabile equilibrio tra le potenze amato da Henry Kissinger, l’uomo che ha dominato la politica estera americana dall’inizio del 1969 alla fine del 1976? La preoccupazione di Parigi e Bonn che la stabilità dell’Europa occidentale non fosse messa in discussione da partiti a sinistra di quelli socialdemocratici? Oppure il vecchio oltranzismo atlantico, quello dell’anticomunismo viscerale dei primi anni della guerra fredda un po’ fuori moda all’epoca della distensione? O perfino l’inconfessabile pregiudizio di un’Europa settentrionale e di un Nord America verso un’Europa meridionale dove per decenni la maggior parte dei paesi o non erano democratici o avevano subíto seri problemi di stabilità [2], con l’eccezione dell’Italia?

    E per quanto riguarda i singoli leader, è possibile ricostruire se e quale ruolo hanno svolto in questo scenario? Agli occhi di Kissinger o di Schmidt c’era una grande differenza tra Moro e Andreotti? Alcuni settori della Dc e degli altri partiti di centrodestra erano più legati agli americani? Andreotti ha goduto veramente di un legame speciale con Washington?

    La lettura dei documenti precedenti le elezioni anticipate del giugno 1976 non sempre ci consente di rispondere a queste domande, ma ci offre la possibilità di conoscere cosa pensavano le quattro potenze occidentali, di ricostruire quali furono le posizioni comuni e i punti di divergenza. Si registrano sfumature talvolta significative. Emerge una leggera linea di divisione tra le tre potenze europee e quella americana. Emergono differenze tra paesi guidati da partiti conservatori e da partiti socialdemocratici, che ebbero una relativa importanza.

    Colpisce molto l’inserimento delle opzioni più estreme, fino al colpo di stato. Ma emerge anche, mi sembra, che ciò sia dovuto più a un esercizio di completezza, sostanzialmente residuale. Non mancava peraltro la consapevolezza che tale passo avrebbe scatenato reazioni durissime non solo nelle piazze italiane, non solo a Mosca, ma in mezzo mondo.

    Si può affermare che così facendo gli Stati Uniti e i loro tre principali alleati abbiano cercato di interferire nella vita politica italiana? L’Italia ha subìto una condizione di sovranità limitata? Per noi, che ci collochiamo tra coloro che si oppongono a una visione della storia dominata da un grande burattinaio che sposta a suo piacimento piccole pedine sullo scacchiere geopolitico, la risposta è molto prudente e alquanto articolata.

    L’Italia della metà degli anni Settanta ha costituito probabilmente uno dei momenti di maggiore crisi di tutta la storia della guerra fredda, almeno potenzialmente. A sospirare per lo scampato pericolo sono proprio alcuni dei più alti esponenti dell’amministrazione statunitense. Problemi di natura analoga si presentarono con il timore che il ritorno alla democrazia in Spagna, Portogallo e Grecia portasse anche in quei paesi i comunisti al potere. Per Washington questo comportava il pericolo che la Nato perdesse tutto il fronte meridionale. Una crisi rimasta sottotraccia e forse anticipatrice di un mondo diverso da quello basato sulla contrapposizione tra est e ovest.

    Su di esso la storiografia si è già variamente soffermata. Ad esempio, Umberto Gentiloni Silveri ha messo in evidenza con forza la preoccupazione americana per il perenne stato di crisi dell’Italia. Tale atteggiamento sembra dominante perfino di fronte a un secondo elemento, quello dell’apertura al Pci, che certo non suscitava nessun entusiasmo. Gli Stati Uniti, ci ricorda Gentiloni, non erano pregiudizialmente contrari a che anche l’Italia usufruisse delle aperture portate dalla distensione, ma ciò sembrava loro impossibile.

    Lucrezia Cominelli, che ha approfondito le relazioni tra Stati Uniti e Italia tra il 1968 e il 1976 [3], ha messo in luce quanto il vibrante unilateralismo (comprensivo, in una prima fase, di aiuti finanziari riservati, e quindi diremmo noi oggi illegali, ai servizi di informazione e a esponenti dell’estrema destra) adottato da Nixon e Kissinger nelle relazioni

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