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Il suicidio dell'Europa: Sovranità, Stati nazionali e "grandi spazi"
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Il suicidio dell'Europa: Sovranità, Stati nazionali e "grandi spazi"

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La crisi attuale dell’Unione europea viene da lontano, essendo inscritta negli atti fondatori delle prime comunità. Il rifiuto pregiudiziale di un’Europa politica, pur comprensibile all’epoca – in un continente che era stato dilaniato e impoverito da una guerra diventata presto un conflitto di ideologie –, si è trasformato negli anni in un micidiale fattore di impotenza. Terra ‘liquida’ di conquista per interessi di natura finanziaria al servizio della volontà di potenza di altre entità, dagli Usa ai paesi arabi alla Cina,l’Europa si avvia verso il suo ineluttabile tramonto.
L’egemonia tedesca – legittimata dalle sentenze ‘sovraniste’ della Corte costituzionale federale – si sta rivelando essa stessa, per la sua mancanza di visione strategica complessiva, un ulteriore elemento di divisione e di scontento. L’Europa vive da sempre “sotto gli occhi dei Russi” (Carl Schmitt), ma si agita scompostamente tra la sua incapacità di fare fronte alle crisi migratorie, il culto della concorrenza economica e le retoriche dei diritti dell’uomo, sanzionando commercialmente la Russia, ma dando spazio alle mire politiche della Turchia neoottomana.
Si stanno formando nuovi “grandi spazi” politici in Europa e intorno ad essa, ma il nucleo duro della vecchia Europa resta sordo ai cambiamenti epocali che la scuotono. La sua agonia sarà lunga, ma allo stato il suo suicidio certo.

AGOSTINO CARRINO è Professore ordinario di Istituzioni di diritto pubblico nel Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Napoli Federico II. Ha insegnato Sociologia del diritto nell’Università di Cagliari, Filosofia del diritto e Diritto costituzionale nello stesso Ateneo Federico II e Staatslehre nella Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Vienna. È stato Professore invitato e ha tenuto conferenze e lezioni in varie Università italiane e straniere: Paris-Ouest, Paris Panthéon Assas, Paris Sceaux, Caen, Würzburg, Barcelona, Saarbrücken, Hamburg, Washington University (St. Louis), San Diego SU, Humboldt Universität, Edge Hill, Colorado Springs.
Ha curato vari convegni internazionali, di cui sono stati pubblicati gli atti: Legalità e legittimità in Carl Schmitt (Esi, 1999); L’Europa e il futuro della politica (Società Libera, 2002); I diritti umani tra politica, filosofia, storia (Guida, 2003); Stato di diritto e democrazia nella Costituzione del Liechtenstein (Giappichelli, 2009). Ha curato le edizioni italiane di opere di Kelsen, Schmitt, Hoffmann, Oakeshott.
Tra le sue opere: Stato e filosofia nel marxismo occidentale (Jovene, 1981); L’irrazionale nel concetto (Esi, 1983); L’ordine delle norme (1984, Esi, III ed. 1992; versione tedesca: Die Normenordnung, (Springer, 1998); Scienza e politica nella crisi della modernità (Edizioni Lavoro, 1989); Sovranità e Costituzione nella crisi dello Stato moderno (Giappichelli, 1998); Democrazia e governo del futuro (Edizioni Lavoro, 2000); Oltre l’Occidente. Critica della Costituzione europea (Dedalo, 2005); La destra e le libertà (Guida, 2010); Das Recht zwischen Reinheit und Realität (Nomos, 2011); Il problema della sovranità (Rubbettino, 2013); German Legal Philosophy (1900-1945), in Treatise of Jurisprudence and Legal Philosophy, vol. 12 (2016). Per Mucchi, La dottrina dello stato e la sua crisi. Problemi e prospettive (Piccole Conferenze, 12); Il suicidio dell'Europa (2016). Dirige, con Aljs Vignudelli, LO STATO, rivista semestrale di Scienza Costituzionale e Teoria del diritto (Mucchi) e la collana I Quaderni de "Lo Stato" (Mucchi).
Lavora, con Hasso Hofmann, sulla filosofia del diritto di lingua tedesca nel Novecento per il Treatise of Jurisprudence and Legal Theory (vol. 12, Springer).
LanguageItaliano
Release dateJul 26, 2016
ISBN9788870007176
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    Il suicidio dell'Europa - Agostino Carrino

    2016.

    I. Il suicidio dell’Europa

    Quella che chiamo virtù nella repubblica è l’amore per la patria, ovvero l’amore per l’uguaglianza. Non è affatto una virtù morale né una virtù cristiana, è la virtù della politica.

    Montesquieu, L’Esprit des lois

    Per loro natura le istituzioni umane sono così imperfette che basta quasi sempre, per distruggerle, trarre tutte le conseguenze dal loro principio.

    Tocquevilles, Pensées détachées

    Una diversificazione tra le comunità umane è essenziale perché venga fornito incentivo e materiale all’Odissea dello spirito umano. Nazioni di costumi differenti non sono nemiche; sono anzi vere benedizioni. Gli uomini chiedono ai loro vicini qualcosa di abbastanza affine da essere inteso, di abbastanza diverso da risvegliare l’attenzione, e di grande abbastanza da imporre ammirazione.

    A.N. Whitehead, La scienza e il mondo moderno

    § 1. – Le ragioni della civiltà

    Ogni civiltà, ha scritto Julien Freund, «ha una razionalità, ed è per questo appunto che è una civilt໹. Così, la civiltà europea, a partire dall’ineguagliata e complessa costruzione culturale degli antichi Romani e dal «princìpio razionale»² che fu loro proprio, si fonda su una sua specifica razionalità, che si è dispiegata fino all’Illuminismo, al Romanticismo, al nazionalismo statualistico e al capitalismo ed anche alla democrazia liberal-borghese. Questa razionalità sta andando oramai in frantumi, soppiantata da abitudini diverse, se si vuole ugualmente ‘razionali’, ma di una razionalità differente rispetto a quella tipicamente e propriamente europea, in buona parte plasmata dalla filosofia greca e dallo spirito giuridico e politico romano, prima che dal cristianesimo.

    Scriveva ancora Freund all’inizio degli anni Ottanta del secolo scorso: «Siamo i testimoni della fine di una civiltà e della transizione verso un’altra, senza che si possa valutare la durata di questa transizione o il nuovo tipo di civiltà che è in gestazione. Tale civiltà sarà la lenta opera di una umanità che non sarà più dominata dallo spirito europeo. Il che vuol dire che non sarà più europea. Senza dubbio l’Europa continuerà a chiamarsi Europa, ma la denominazione sarà solo geografica, priva di quel contenuto che questa nozione ha avuto durante l’era della Rinascenza»³.

    Il giudizio e la prognosi di Freund possono lasciare perplessi, ma si sostanziano di una profonda, quanto drammatica, verità. Il rischio che corriamo non è soltanto il risultato di una disillusione per la scarsa capacità degli Europei, intesi sia come cittadini e popoli sia come Stati, di far fronte alle nuove sfide di un mondo sempre più fragile e complesso, ma anche di una loro scarsa attenzione ai rapporti di forza in quanto tali, essendosi essi, cittadini, popoli, Stati, rifiutati in partenza di prendere atto del fatto che i nuovi scenari mondiali imponevano ed impongono atteggiamenti audaci e inediti ed anche mutamenti di paradigma. L’Europa continua ad agire e a pensare come se fossimo ancora nel dopoguerra, mentre i quasi 70 anni che ci separano dalla fine della seconda guerra mondiale sono oramai un’epoca. Un’epoca che ha visto il crollo del comunismo, il decadere dell’Unione Sovietica in una Russia ancora debole e per certi aspetti velleitaria, la crisi degli Stati Uniti d’America; ciò mentre il mondo arabo da un lato, la Cina dall’altro hanno radicalmente cambiato gli orizzonti e gli scenari internazionali, sia in economia sia in politica, per non parlare delle questioni connesse alla sovrastruttura ‘religiosa’ e, ora, all’invasione di popoli africani e orientali.

    L’Europa non è più solo il promontorio di un continente immenso, ma è diventata uno spazio geografico oggettivamente poco rilevante, a cominciare dalla sua popolazione, sempre meno feconda, sempre più multietnica e multireligiosa, con frange rilevanti di fanatici islamisti (per quanto la definizione sia impropria, trattandosi di emarginati di seconda e terza generazione convertitisi per ragioni spesso banali all’estremismo ‘religioso’). Su questo scenario il dato importante da sottolineare è tuttavia che l’Europa, quale che sia il livello raggiunto dalla sua decadenza, non deve essere confusa con quella che si definisce l’Unione europea e che occorre aver ben chiaro il fatto che l’una e l’altra possono sia convergere sia profondamente divergere, come sta accadendo in questi ultimi tempi.

    § 2. – L’Unione europea quale entità sui generis

    L’Unione europea, scriveva già più di due lustri or sono lo storico britannico Niall Ferguson, «è uno strano tipo di unione, una confederazione che fantastica sull’essere una federazione senza nemmeno diventare una confederazione. Ha un esecutivo, un legislativo, una corte suprema, una banca centrale, una moneta comune, una bandiera e un inno. Ma ha soltanto un esiguo bilancio comune e appena un vago accenno di un esercito comune. La maggior parte delle decisioni che i suoi architetti pensavano per lei vengono ancora prese dai governi nazionali ai meetings del Consiglio europeo o nelle conferenze intergovernative. L’UE manca di un linguaggio comune, di un sistema postale comune, di una comune squadra di calcio, persino di un sistema elettrico standardizzato»⁴. Eppure, che qualche chance di diventare una vera entità politica l’Europa potesse averla, ancora solo poco più di dieci anni or sono, lo dimostra una lettura della silloge che ancora proprio Ferguson⁵ faceva delle posizioni non solo critiche dell’impotenza europea – come il troppo citato libretto di Kagan su Paradise and power –, ma soprattutto di quelle timorose della possibilità di una concorrenza politico-economica europea nei confronti degli Stati Uniti d’America.

    Per la verità, questa interpretazione su un futuro brillante dell’Unione europea era già allora del tutto irrealistica e di fatto restava alla superficie delle cose, sottolineando in maniera del tutto unilaterale solo alcuni aspetti del processo di integrazione, letti con un’ottica assolutamente estranea alle effettive e più profonde dinamiche interne all’Unione, ai rapporti tra Stati e tra questi e l’Unione europea. Così, per Ferguson, con riferimento al trattato cosiddetto ‘costituzionale’, «c’è almeno una forte possibilità, prima facie, che l’Unione Europea possa diventare, in pratica, qualcosa di molto simile alla federazione degli Stati Uniti d’America, nel caso che l’abbozzo di trattato della convenzione venga accettato dai suoi membri»⁶.

    Ovviamente, Ferguson non aveva compreso che il progetto di cosiddetta ‘costituzione’ europea cui accennava non aveva nulla a che fare con la creazione di un’Europa federale; lo stesso dicasi per il successivo Trattato di Lisbona, il quale, eccezion fatta per alcuni simbolismi, non è molto diverso dal progetto di costituzione bocciato nei referendum francese e olandese del 2005. Come che sia, dopo aver elencato una serie di dati che potrebbero far pensare ad una autentica rivalità tra le due sponde dell’Atlantico, nel senso che l’Europa sarebbe in grado e desiderosa di competere a pieno titolo con gli Stati Uniti d’America, Ferguson elencava tutta una serie di caratteristiche del processo di integrazione europeo e di condizioni dei singoli Stati che facevano dell’Unione Europea quello che egli definiva un ‘impire’, ovvero un’entità nient’affatto desiderosa di proiettarsi sulla scena mondiale come protagonista attivo, sicché in definitiva, per citare ancora Ferguson, gli Stati Uniti non hanno «nulla da temere né da un allargamento né da un approfondimento dell’Unione europea».

    Quello che Ferguson scriveva sull’Europa vale ancora per molti Stati nazionali e di fatto Europa e America si distinguono per un aspetto decisivo: l’America fa politica, anche quando decide di farla rinchiudendosi su se stessa, mentre l’Europa sembra aver rifiutato pregiudizialmente la dimensione politica quale sua qualità essenziale e caratterizzante. Ora, la politica, senza voler qui richiamare Carl Schmitt e il criterio del nemico quale caratteristica essenziale del ‘politico’, è per sua essenza un’attività antagonista e comunque dialettica, una dimensione che si evidenzia ancora oggi nei rapporti tra potenze e ciò anche quando la potenza sembra essersi diluita nell’economico. L’Europa, per esempio, non comprende Putin perché si è chiusa alla vita politica in senso stretto; così rischia di non comprendere nessuna delle azioni che si dispiegano sulla scena mondiale. L’Europa dei mercati e dei diritti si vuole anzi, come vedremo, strumento di liberalizzazione economica universale e fattore di una pace mondiale fondata su pretese astrattamente soggettive che può, in pratica, essere funzionale solo alla sua marginalizzazione, nella misura in cui nessuna entità seriamente e autenticamente politica si è mai costituita per servire primariamente ad interessi che non siano quelli suoi propri, legati alla sua conservazione (salus reipublicae) quale soggetto politico autonomo sul teatro mondiale delle controversie e dei conflitti di interesse. Il principio dello Stato di diritto, per esempio, ha senso se è interno all’organizzazione concreta dell’ordine giuridico – nella fattispecie europeo –, non se deve servire a finalità esterne ai limiti della struttura stessa, come lo sviluppo della democrazia e il rispetto dei diritti umani in paesi terzi⁷; questo può essere un obiettivo derivato, mai primario, così come, anche, l’idea di ‘servire’ una concorrenza commerciale universale (si pensi alle conseguenze rivoluzionarie di una politica del genere se fosse attuata dalla Cina).

    § 3. – Sul progetto cosmopolitico

    Non a caso, ora che anche sociologi importanti come Habermas e Beck si sono resi conto della impossibilità oggettiva di abrogare con un tratto di penna gli Stati nazionali, sembra che i loro discorsi, invece di prendere atto del fallimento dell’impostazione formalista e cosmopolita, si facciano ancora più astratti e privi di ogni presa concreta sull’esistente. Ulrich Beck, addirittura, non si perita di ricorrere al «nuovo sogno» di una «società postnazionale di società nazionali», cercando di tenere insieme quel che insieme non può essere tenuto, ed usa oramai il suo teorema della ‘società mondiale del rischio’ come giustificazione a posteriori per la sua richiesta di uno ‘Stato cosmopolita’⁸, per di più una evidente contradictio in adiecto. Il riconoscimento del fatto che la democrazia si è consolidata su un terreno strettamente nazionale⁹ non gli impedisce, ad esempio, di insistere sul ‘sogno’ di un’Europa «in cui la concordanza, apparentemente così necessaria, tra Stato, identità nazionale e lingua unitaria vada a dissolversi»¹⁰, quasi che la lingua unitaria sia coeva all’identità nazionale e questa consustanziale allo Stato, mentre invece si tratta di un processo politico secolare, che si è affermato non di rado con la forza (come nel caso della lingua, per esempio in Francia, ma credo anche in Spagna).

    C’è il rischio di nuove rivalità, è vero, per esempio tra il Nord e il Sud dell’Europa. Ma non è forse questo rischio il risultato proprio delle strategie cosmopolite e globaliste che per decenni hanno insistito sulle prefigurazioni del tutto irrealistico-astratte di scenari postnazionali dove l’Europa era soltanto il simbolo di una democrazia mondiale e di una liberazione umana totale? Il ritorno del welfare a livello europeo, propugnato da Beck, non è un progetto sociale, ma, per l’appunto, un «sogno»: «Sognare l’Europa significa chiedere: come fare per risvegliare il sapere sociale ed ecologico dell’Europa e del mondo, e per incanalarlo in un movimento di protesta politica che riunisca l’irata popolazione greca, i disoccupati spagnoli e l’intero ceto medio europeo, anzi mondiale, che si vede sprofondare nell’abisso»¹¹. Adeguata al sogno è la proposta: un Festival della canzone europea o un dibattito televisivo in Eurovisione¹², semmai mentre lo Stato islamico si impadronisce di Tel Aviv o la Polonia vuole fare la guerra alla Russia per ricostruire il suo impero di un tempo. L’Europa ‘cosmopolitica’ di Ulrich Beck e di altri come lui è buona solo per scrivere qualche libro sul rischio globale e immaginare un mondo di ‘cittadini’ senza patria, una cosmopoli liquida, ma finisce col legittimare vieppiù il dominio della finanza, questa sì veramente globale e cosmopolita.

    Anche Beck, tuttavia, nonostante i suoi sogni sull’Europa delle città, ovvero il mondo delle città, non ha la forza dimostrativa per cancellare dal suo quadro gli Stati nazionali, immaginando di poter dare un pizzico di realismo alle sue fantasie includendoli in una dimensione nuova: «Di grande importanza, per il nostro discorso, è che queste nuove istituzioni non sostituiscono gli Stati nazionali, bensì, nella maggior parte dei casi, li integrano. Gli Stati-nazione sono inclusi nei nuovi sistemi di regolazione transnazionale, e uno dei compiti più decisivi della ricerca empirica è l’analisi della specifica collocazione che essi assumono nel quadro di queste nuove istituzioni, a livello politico, economico, in relazione alle élite, ai governi, al diritto»¹³. Senonché, significativamente, nel prosieguo, di Stati non si parla, ma semmai di città, le città del mondo. Strana analisi ‘empirica’!

    Il concetto cardine del discorso cosmopolitico sull’Europa che ha preso atto del proprio fallimento nello scontro con la realtà effettuale delle cose è sovranazionale e ‘transnazionale’: quest’ultimo termine lo adopera Beck, senza molto costrutto, ma la stessa cosa fa poi anche Habermas, che cerca di dargli un qualche significato meno ipotetico e più filosoficamente argomentato. Anche Habermas, tuttavia, non fuoriesce dalle astrazioni, dalle finzioni dei discorsi che si autoedificano sulle proprie premesse; qui ‘sovranazionale’ dovrebbe indicare un processo di costruzione di una democrazia istituzionale cosmopolita, fondata su cittadini ‘del mondo’ e finalizzata alla formazione di una opinione pubblica mondiale che trovi nella Assemblea Generale delle Nazioni Unite un punto di convergenza delle volontà e quindi di legittimazione politica. Riformata nell’ottica di un parlamentarismo cosmopolita, l’Assemblea Generale – di cui è nota a tutti la inconcludenza pratica in quasi tutte le crisi belliche o umanitarie sparse per il mondo – dovrebbe diventare l’organo «competente per l’interpretazione e lo sviluppo progressivo della costituzione politica della società mondiale e perciò per elaborare il quadro normativo di entrambi i canali di legittimazione, tanto della politica di pace e dei diritti umani quanto della politica interna mondiale»¹⁴.

    Una tale riforma istituzionale dovrebbe consentire anche la legittimazione di organi giurisdizionali, ovvero la creazione di una Corte universale per i diritti dell’uomo, sul modello della Corte di Strasburgo. A livello ‘transnazionale’, una pratica più vicina alla realtà possibile, si creano istituti per la regolazione a livello mondiale di settori specifici. Ora, anche chi non è pragmaticamente (se non teoreticamente) lontano dalle posizioni di Habermas, come Armin von Bogdandy, se da un lato auspica un processo più concreto per una legittimazione di organi transnazionali, sul tipo dell’Assemblea delle Nazioni Unite e di una Corte universale di giustizia (o di più corti legittimate politicamente dagli aderenti ad una cosmopoli di tipo kantiano), deve però ammettere che i tribunali internazionali (compreso, quindi, il Tribunale di Lussemburgo e quello di Strasburgo) decidono ancora in nome degli Stati esistenti, «che hanno dato origine a tali istituzioni quali soggetti di diritto internazionale» e che l’auspicata partecipazione dei Weltbürger al processo di legittimazione è un evento ancora lontano nel tempo¹⁵.

    § 4. – Le dure repliche della storia

    Sembra che tanti, troppi oggi ignorino i dati fondamentali di ogni prassi politica e di ogni teoria politica, ovvero l’effettualità, le cose come esistono nella realtà concreta e nei processi oggettivi che dominano i popoli e le istituzioni. Si è tanto parlato di ‘globalizzazione’, il tutto, molto probabilmente, al solo fine di occultare i dati di fatto storici, ovvero la perdita del nesso (contingente, forse, ma praticamente constatabile) tra capitalismo e democrazia. Il mercato libero ha preteso ad un certo punto di autonomizzarsi dalla politica, pensando che senza il fardello delle regolazioni statali (sia pure di uno Stato ‘leggero’, che certamente è auspicabile) sarebbe volato più alto, cosa che forse è successa, ma ad un costo altissimo per la coesione sociale. Il supercapitalismo, come lo definisce Robert Reich, ha messo in crisi le procedure democratiche, producendo una forbice sempre più larga tra minoranze esigue sempre più ricche e maggioranze sempre più povere. La separazione tra consumatore e cittadino si è approfondita a tutto vantaggio del consumatore, ma a detrimento del cittadino.

    Ora, l’Unione europea si pone, rispetto a questa separazione, nonostante le belle parole sui diritti, i valori, gli scambi culturali e via dicendo, tutta dalla parte della libertà degli scambi senza che i poteri pubblici possano intervenire, o, meglio, come vedremo, mettendo nell’impotenza alcuni poteri pubblici più di altri. Anzi, la ‘politica’ dell’Unione, fatta oramai solo di numeri e di divieti, ha raggiunto l’obiettivo finale posto nel progetto fondativo, vale a dire l’abrogazione della politica in nome del mercato e dei diritti, che poi sono tutti riducibili, direttamente o indirettamente, ai diritti del produttore universale da un lato e del consumatore universale dall’altro, non certo del cittadino, inteso quale soggetto attivo – fornito di doveri e di diritti – della polis. Certo, ogni cittadino è anche al tempo stesso consumatore, ma di fatto ancora, nonostante progetti per ora privi di efficacia, cittadino dei singoli Stati nazionali e quindi parte di un ente politico di tipo tradizionale. La situazione di lacerazione tra consumatore e cittadino, criticata per esempio per quanto riguarda gli americani, in Europa si aggrava per il fatto che l’Unione si è deliberatamente separata da ogni momento decisionale favorevole al cittadino in quanto tale. Quando Robert Reich, per ridare primato al cittadino sul consumatore senza danneggiare quest’ultimo, sostiene la proposta di «leggi e regolamenti che facciano dei nostri acquisti e dei nostri investimenti una scelta sociale tanto quanto una scelta personale»¹⁶, presuppone una struttura politica in grado di scegliere a favore della socialità, ovvero della cittadinanza (politica); in Europa, però, questa possibilità non esiste più¹⁷, in quanto il nesso tra scelta economica e scelta politica è stato abrogato in favore della scelta (decisione) economica, che resta tutta nelle mani dei poteri centrali dell’Unione, ovvero la Commissione, il Consiglio e oramai il loro ‘socio occulto’, ovvero il governo di Berlino, tutto teso a garantire una propria bilancia commerciale sempre più ricca, la certezza di interessi sui risparmi bancari (donde l’opposizione alle politiche della Bce di Draghi¹⁸), la sicurezza del risparmio interno a tutti i costi, imponendo agli altri Stati scelte economiche che spesso si rivelano catastrofiche per questi ultimi.

    Che l’Europa sia oramai a ‘trazione’ tedesca è un dato di fatto (si veda anche quanto dico più avanti), ma il problema è che questa stessa ‘trazione’ è in definitiva piuttosto miope, quando non contraria all’Europa in quanto tale. Si prenda la vicenda della Grecia: se, da un lato, le responsabilità dei Greci per aver falsato i conti pubblici al fine di entrare nell’eurozona è chiara, dall’altro non meno responsabile è in prima istanza proprio la Germania, che per tutelare gli interessi delle banche tedesche esposte con la Grecia per aver acquistato titoli di Stato e fatto prestiti ad alto interesse, ha spostato sempre più avanti il termine di un redde rationem che fosse una soluzione del problema, in attesa che le banche nazionali si alleggerissero della loro esposizione ed anzi facessero buoni affari con i soldi prestati alla Grecia dal Fmi e dal fondo europeo ‘salva-Stati’. In cinque anni non si è trovata (non si è voluto trovare) una soluzione ai problemi di un’economia il cui peso nell’eurozona è circa e solo il due per cento del globale. Il salvataggio delle banche tedesche è stato invece la grande, quanto silente operazione del governo Merkel, il cui conto (anche per gli elettori tedeschi) verrà prima o poi a scadenza.

    Ma oltre alla grettezza nazionale, in questo caso tedesca (tanto più evidente perché contrasta con decenni di apertura europeistica), il dato politico generale è catastrofico per l’immagine dell’Europa dal punto di vista politico. L’idea del tutto ragionieristica che si sta imponendo a livello euro-tedesco è esiziale per ogni idea di politica e non è un caso che la Grecia sia stata tentata e sia ancora tentata di ‘civettare’ con la Russia di Putin e la Cina di Xi-Jiping, due entità squisitamente e praticamente politiche. Di questo passo, non vi sarà nessun presunto nucleo duro dell’Europa, ma solo una Germania che, pur nel decadere delle sue infrastrutture interne, ambirà ad essere il capo-contabile

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