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Cuore di Figlio
Cuore di Figlio
Cuore di Figlio
Ebook369 pages5 hours

Cuore di Figlio

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About this ebook

Due storie, un unico protagonista.

Carlo lotta col suo cuore malato per venti anni, da quando è nato. E’ a Filadelfia, a Parigi, a Bergamo, a Londra, a Torino. Tante operazioni al cuore: un trapianto, anzi due. Aerei privati, corse notturne contro il tempo, chirurghi famosi.

Lui è lì, ironico e scanzonato, dimentico della sua malattia e impegnato ad aiutare gli altri.

Un gruppo variegato che crea un ospedale fuori dal mondo.

E Carlo è anche lì in Somalia, a sostenere il padre nell’ospedale dei bambini. Strade impolverate e droghe verdi da masticare. Piccoli malnutriti da curare, appendiciti che muoiono in una città senza chirurghi.

Vicende emozionanti si incrociano nella realtà e nella mente di papà. Carlo è protagonista elegante di una sofferenza piena di leggerezza e di un attaccamento alla bellezza della vita sua e degli altri.
LanguageItaliano
Release dateJul 29, 2016
ISBN9786050484410
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    Cuore di Figlio - Piero Abbruzzese

    Ringraziamenti

    Premessa

    La ragazza, pallidissima, piange a dirotto fra una contrazione e l’altra.

    Urla, tenendosi la pancia, quando il dolore diventa insopportabile.

    Il suo bel viso da bambina è segnato da una sofferenza adulta, profonda. Sembra che non dorma da giorni. Ha occhiaie violacee.

    Accanto a lei, seduta su una sedia metallica, c’è la sorella. Ha i suoi stessi capelli biondi e il colorito chiaro. Le due ragazze sfoggiano colori insoliti per quell’isola mediterranea dai capelli scuri.

    Anche la grande ha il viso scolpito dalla sofferenza. La sorellina più piccola è rimasta incinta da un ragazzotto occasionale, che l’ha già lasciata, ma lei ha deciso di portare avanti la gravidanza, nonostante tutto. Ma ha deciso di non riconoscere il bambino.

    Ormai è’ questione di poco. Le acque si sono rotte e le contrazioni diventano più frequenti e dolorosissime. Il viso della ragazza si contorce dal dolore.

    Cosa succederà adesso? Il piccolo scomparirà, adottato da chissà chi.  

    Ti lascio un pezzo di cuore

    Al tuo funerale sei lì, accanto a me, quasi in carne ed ossa. Sento perfino il tuo buon odore di pulito, che ricordo da quando eri piccolo. Lindo già ad un anno, quando invece Benedetta si sbrodolava di continuo.

    Mi stai parlando, commenti con me l’enorme commozione che ci circonda.

    Nessuno fiata, il silenzio è scosso dai singhiozzi che corrono lungo le pareti della chiesa e da timidi passi. Guardiamo gli occhi liquidi dei tuoi amici e di tutta questa gente che ti ha voluto bene e che oggi è qui, con noi. Tu sorridi al viso trasfigurato di Marina, tua alleata di sempre. Guardi Lilia e Angela, che piangono desolate.

    La mamma è immobile accanto a noi. Lei non ti vede mentre tu, silenzioso, le carezzi il viso pieno di lacrime.

    Tu ed io guardiamo curiosi, da spettatori, tutta questa folla arrivata fin qui per te.

    Non sento dolore, tu sei con me più di prima. Vorrei condividere con gli altri la tua grandezza, vorrei urlarla al mondo, ora, qui, ma non è possibile. Tu non mi lasci essere serio nemmeno adesso. Sei spettatore leggero e scanzonato di questa cerimonia tragica, carica di potenza. Più piovono lacrime e più tu ed io ci gloriamo di questo successo.

    C’è anche Lucio, il mio professore, il mio secondo padre, con i suoi ottantaquattro anni che gli sono piombati addosso tutti insieme, ora. Ha insistito per dire qualcosa su di te in chiesa, ci tiene molto.

    …sono qui per ringraziarti Carlo … la tua straordinaria forza morale ci ha colpito e tu rimarrai sempre un esempio …

    Io sono l’unico a vederti, a parlare con te.

    La mamma è stretta a me, svuotata di speranza, senza rendersi conto che tu sei qui con noi. Vorrei dirle che non deve più piangere e invece guardare orgogliosa tutta questa folla. Cosimo, il tuo fratellino, ha il viso rigato di lacrime e tira su col naso di continuo. Quando Attilio, cugino complice solidale di tante vostre monellerie, comincia a parlare di te sull’altare, Cosimo piange a dirotto.

    … l’insegnamento più bello ed importante che mi hai lasciato: la vita va affrontata in maniera scanzonata, senza prenderla troppo sul serio ….

    Benedetta si alza quietamente e raggiunge l’altare in punta di piedi. Ha un filo di voce:

    "Non tutti hanno avuto la fortuna di avere un gemello nella propria vita.

    … è come avere accanto a te una persona che può condividere con te tutto : gioie, tristezze, divertimenti, litigi...Tutto meno che il dolore."

    Benedetta soffoca un singulto e riprende a parlare con voce più sicura, leggermente altezzosa.

    "Quello, Carlo non l'ha condiviso con nessuno.

    Ha voluto portarlo con sé da solo, facendosi carico di quell' enorme fardello nel suo corpicino che, negli ultimi tempi soprattutto, la sua malattia ha umiliato brutalmente.

    E nonostante il suo dolore fosse così grande, così insopportabile, così ingiusto, ha sempre voluto trascinarselo da solo, mai lamentandosi, mai chiedendosi che cosa avesse potuto fare di così terribile per meritarsi questo, sempre con una dignità tale da farti sentire in colpa se solo ti azzardavi a provare compassione per lui. Perché Carlo era un leone."

    Benedetta si asciuga una lacrima col dito, mi cerca con lo sguardo e poi riprende con voce ferma:

    "Lui non è che non provasse paura, la proviamo tutti, ma la sua immensa voglia di vivere gli infondeva un coraggio che, sono certa, poche persone hanno.

    Era un piccolo gladiatore nell'arena contro mille leoni.

    Avrei tanto voluto aiutarlo come sua gemella.

    Tutte le persone che hanno potuto avere la fortuna di conoscerlo, sono certa, avrebbero voluto aiutarlo.

    Eppure il nostro principe è sceso nell'arena da solo, con una forza ed una dignità tale da fare invidia a tutti.

    Al di là di tutto, noi tutti dovremmo soffermarci su quello che Carlo, durante tutta la sua vita, ci ha voluto insegnare: vedere il bello in tutte le cose.

    Non è sempre facile accettare delle situazioni difficili, eppure lui l'ha sempre fatto. Perché, anche quando stava così male da non poter camminare, o dal dover fare la dialisi tutte le notti, lui, pur non potendo andare in discoteca o uscire a passeggio con gli amici, si godeva la sua bella cenetta in qualche ristorante raffinato ed era il ragazzo più contento del mondo.

    Sempre sorridente, sempre pronto a farsi quattro risate, sempre con una buona parola per tutti."

    Stanno piangendo tutti ma vedo spuntare anche qualche sorriso. I tuoi amici sembrano immersi nei ricordi dei tempi belli.

    "E adesso, finita la sua storia, è iniziata una leggenda.

    Prima che partissi per l'America, Carlo mi ha mandato la lettera più bella che abbia mai ricevuto. Ha scritto:"Sorellina mia, ti lascio un pezzo del mio cuore".

    Oggi, pur gelosa di questo prezioso dono, ho deciso di condividerlo con voi che l'avete conosciuto, perché anche un piccolissimo frammento del cuoricino di Carlo è lo specchio della leggenda del nostro principe."

    Sei un leone, sei entrato nella leggenda, il dolore che non si divide con nessuno, il tuo cuore immenso.

    Guardo Benedetta che scende dall’altare e comincio a piangere in silenzio, dimenticandomi che sei vicino a me.

    In un momento mi accorgo che ora non ci sei più.

    Io e te

    Le persone cambiano nel tempo. Possono peggiorare, difficilmente migliorare, di solito la maggior parte si ferma, si compiace delle comodità e sicurezze raggiunte e non vede nessun altro al di fuori di sé.

    Noi, invece, facciamo un sacco di cose insieme, vero, Cà?

    Del resto con te è impossibile fermarsi, non ce l’hai mai permesso. La tua voglia di vivere e la curiosità per tutto ciò che vedi, ci hanno svelato un mondo diverso, pieno di sorprese.

    Ti incanti davanti al mare di Santa Margherita e mi chiedi dove comincia il cielo.

    Mi tormenti con la tua voglia di capire come vivono gli zingari che reclamano un soldino.

    Dagli zingari agli africani, il passo è breve.

    Hai cominciato a chiedere di Emergency, di Gino Strada. Ti ho spiegato che cosa sono i pappagalli verdi … hai letto il suo libro. E poi, la curiosità per la fondazione Forma dell’ospedale Regina Margherita … che bello aiutare i bambini malati! Non ricordo più se mi hai chiesto di venire in Sudan, ma hai sempre avuto tanta sete di conoscenza, di partecipazione alle disgrazie del mondo e una solidarietà naturale per gli sfortunati del mondo.

    Da dove vieni tu? 

    L’adozione

    Appena nato, tu, piccolo eroe, ti guardi intorno e mostri una curiosità, una voglia di conoscere il mondo, una volontà di stare con gli altri stupefacente e divertente. Ti guardo e mi viene da ridere, ma non c’è niente da ridere.

    Tu sei arrivato nel mio ospedale, tu fai parte di una storia che io non conosco, di un’altra realtà. A voler essere cinici, tu non dovresti entrare nella mia vita ma compari e d’incanto la cambi, per sempre.

    La mamma ed io siamo immersi nell’estate profumata di mirto e rosmarino di Carloforte, attorniati dalle sinfonie delle cicale. Nel porticciolo quattro barchette assonnate e la banca tronfia sul lungomare. Mamma dice che la chiamano ancora banca Napoleone, perché era della sua famiglia prima della depressione degli anni Trenta.

    Le nostre giornate sono fatte di sole e di mare, abbiamo la pelle scura incrostata dal sale. La sera ceniamo sotto al cielo incastonato di stelle.

    E’ la prima volta, per me, a Carloforte e anche la Sardegna è per me una novità.

    Isola lontana, distante da me, abituato a spostarmi in macchina, prima con la Porsche poi con la Maserati, su e giù per l’Italia, rincorrendo le mie conquiste femminili.

    Quando stavo per sposare la mamma, le ho detto: O sposo te o compro la Ferrari!. Facevo lo scemo anche con lei e non avevo voglia di sposarmi.

    Quella mattina, come al solito, mamma ed io ci alziamo tardi e io comincio a vagare per casa in attesa del caffè che esce, borbottando, dalla moka.

    Uno squillo, poi un altro. Trovo il telefono.

    Ciao Piero, sono Roberto, come stai?

    La voce è preoccupata. Roberto, (ricordi? È lui che ti ha battezzato) è un nuovo collega, cardiologo trentenne, alto, biondo e con una pipa che, secondo me, usa solo per sembrare più vecchio. Abbiamo simpatizzato subito, perché lui, come me, vuole lavorare con i bambini. A volte insieme riusciamo ad operare qualche piccolo, ma sono tutti casi facili. Tutti e due, invece, vorremmo fare degli interventi complicati, anche sui neonati.

    Roberto? che bella sorpresa. Venite a trovarci a Carloforte? E’ splendida, vale proprio la pena.

    No, Piero, ascolta … è importante.

    Di solito, al mattino mi ci vuole un sacco di tempo perché le mie cellule cerebrali si riattivino, a meno che non ci sia qualcosa di grave. In questo caso, la mia mente si riorganizza di colpo, mentre ascolto il torrente di parole smozzicate.

    E’ appena nato un bimbo che ha più malformazioni al cuore di tutti i bimbi che abbiamo visto finora. Fra l’altro ha un ritorno venoso polmonare anomalo e una stenosi polmonare grave… e, naturalmente, ha un ventricolo unico con atresia mitralica.

    Roberto si rende conto che mi deve dare ancora un momento per capire e aggiunge, più discorsivo:

    E vuoi la ciliegina? La mamma ha deciso di non riconoscerlo, dev’essere una ragazza giovanissima … me lo ha detto un’infermiera.

    Cerco di capire. Tutte le vene nel posto sbagliato, l’arteria chiusa, una sola pompa invece di due. E’ proprio una brutta cosa, una di quelle malattie dove non possiamo fare niente.

    Mi piacerebbe trattenere il bambino a Cagliari per operarlo. Sono tanti anni che faccio questo mestiere, ma non è possibile: non siamo ancora pronti. Sarebbe un azzardo. Le infermiere e i medici non sanno niente di bambini così piccoli, solo la tua mamma è esperta, perché ha lavorato con me a Bergamo.

    Sai mi sta dicendo Roberto "credo che dovremmo trasferirlo al Bambin Gesù.

    Esita un attimo, poi riprende.

    Credo però che prima dovresti vederlo tu e valutarlo. Mi dispiace romperti le scatole ma è meglio che torni a Cagliari stamattina. Lo visiti, scrivi una consulenza e poi lo trasferiamo. Sei d’accordo?

    Un sospiro, poi rispondo deciso:

    Va bene,oggi niente mare. Fra due ore sono lì.

    Tu stai male, malissimo. Sei nero … non cianotico, proprio nero come il carbone! Respiri male, sei fradicio di sudore.

    L’ossigeno, la flebo, il ticchettio veloce del monitor.

    Le infermiere si affannano attorno a te.

    Non sopravvivrai a lungo.

    Sai, Carlo, ti devo confessare che la mia prima sensazione quando ti vedo in quel lettino d’ospedale è strana. Vedo davanti a me non un neonato moribondo ma un piccolo monello, con tanti capelli ricci e biondi ed un’incredibile espressione. Per un attimo, mi fai perfino sorridere.

    Mentre scrivo qualcosa sulla cartella e dico a non so chi di telefonare a Roma immediatamente, continuo a pensare che povero piccolo, sei proprio solo, senza mamma e papà e che forse non ce la farai mai.

    Hai una faccia così bella, due occhioni aperti sul mondo e una voglia di vivere che ti si legge addosso.

    Sei appena nato ma hai la saggezza antica di chi sa senza conoscere.

    Il ritorno a Carloforte è trafficato: curve, code interminabili, fumi pestilenziali di camion e un mio malumore insinuante: continui a venirmi in mente tu, appena nato senza nessuno al mondo. Forse morirai presto, hai le vene spiazzate, l’arteria chiusa, il ventricolo … e nessuno sarà lì ad accarezzarti. Sei così piccolo, così indifeso.

    Ho i tuoi occhi dentro ai miei.

    I tuoi occhi non mi lasceranno più.

    I tristi pensieri spariscono quando, qualche ora dopo, sbarco dal traghetto mentre il sole si infila nella spuma lontana. Sono di nuovo a Carloforte, di nuovo in vacanza.

    Mamma mi aspetta in centro, in mezzo a tanta gente dai capelli bagnati, con indosso bermuda e magliette colorate. La vedo, con quella pancia che comincia a sporgere evidente, davanti ad un negozietto di abbigliamento, intenta a guardare la vetrina. L’ abbraccio da dietro e picchietto contento Benedetta che ancora non sa come si chiamerà ma reagisce subito con qualche calcetto. Benedetta è nella pancia della mamma già da quattro mesi e ignora che avrà un fratellino quasi gemello.

    Mamma sobbalza spaventata, poi mi vede e si mette a ridere, contenta. Siamo sposi novelli, innamorati, affiatati.

    Come è andata a Cagliari? Ti sei perso una bella gita alla conca! Stamattina sono stata là con Roberto e Paola.

    Ho la faccia di colpo incupita. Mi sei tornato in mente tu che lotti per stare al mondo nel tuo lettino d’ospedale. Non posso dimenticarti.

    Mamma intuisce qualcosa e, abbassando la voce, mi chiede:

    E’ per il bimbo, vero?

    La tua storia turba più lei di me. Noi siamo medici, dovremmo essere abituati a bambini malati, ai neonati morenti. Invece nessuno di noi può reggere queste sofferenze.

    Durante il mio racconto, le compaiono lucciconi negli occhi. E’ la gravidanza che, oltre ad addolcirne l’aspetto ed arrotondarne le curve, le accresce l’istinto materno.

    Mamma mi fa un sacco di domande e per molte, io non ho risposte.

    Chi è la madre? Perché lo ha abbandonato? Chi lo adotterà? Povera creatura! Ma ce la farà? Dovrà essere operato subito?

    A letto restiamo in silenzio, pensierosi, prima di addormentarci abbracciati.

    Se la mamma me lo avesse permesso, se non mi avesse bombardato di domande su di te, forse avrei potuto dimenticato la tua storia. Forse. Ma non è andata così: anche quando riprendiamo i ritmi pigri della vacanza, ogni tanto vedo la mamma intristirsi, il suo sguardo si perde, lei prova ad immaginarti.

    Continua il suo fuoco ininterrotto di domande e io sono costretto a telefonare a Roma di continuo.

    Non che mi dispiaccia, voglio sapere anch’io come stai tu.

    Il bimbo sta così e così. No, non lo hanno ancora operato. Sì, ho parlato con Carlo al Bambin Gesù. Mi ha detto che sarebbe più contento, se potesse evitare di operarlo subito. Sai, c’è anche il ritorno venoso polmonare anomalo. Potrebbe essere peggio, se lo operano.

    Siamo molto amici, Carlo ed io. Siamo gli americani, i giovani cardiochirurghi formati negli Stati Uniti. Fra noi qualche anno di differenza e molta più fama per lui, Carlo Marcelletti, ma tanta simpatia e affetto. Abbiamo perfino fondato un Club internazionale di cardiochirurghi e ci vedremo proprio a Cagliari la prossima primavera.

    Mi fido di Carlo e del suo giudizio professionale, sono certo che farà del suo meglio per te, piccoletto curioso.

    Sai se si è fatto avanti qualcuno per adottarlo? Ma lo prendono in braccio in reparto? Che speranze ha di farcela? La mamma è ossessiva, continua ad insistere con me, mentre io vorrei non pensarti troppo ma non ci riesco: tu sei lì in ospedale, da solo, senza speranza nel tuo futuro.

    Hai una malformazione talmente grave che le possibilità di sopravvivenza sono ridotte al minimo. Nel caso ti operassero subito, l’intervento potrebbe migliorare il tuo stato ma solo per poco. Verranno poi altre operazioni solo per permetterti un briciolo di vita, che mai potrà essere normale.

    Mi vengono in mente i tuoi occhi e la tua voglia di vivere. La tua storia mi agita, mi mette a disagio e la vacanza sta perdendo molto del suo fascino. La mamma ci mette del suo con quell’ansia eccessiva, con quelle sue insistenze. Continua a chiedere, mi supplica, vuole che mi informi, che telefoni a Roma continuamente.

    "Lo hanno adottato? Come sta? Lo operano o no? Cosa stanno aspettando? Come lo hanno chiamato?

    Perché non hai telefonato stamattina?"

    Quel suo interesse mi disturba ma mi fa venire in mente i tuoi riccioli biondi e la tua faccina.

    Noi non possiamo fare niente per cambiare la tua sorte e allora, perché non provare a dimenticarti? Mamma invece continua a chiedere di te, ignorando il mio fastidio evidente.

    Finalmente scopriamo che hai un nome, Carlo, scelto dalle infermiere ed un cognome, Dotti, scelto a caso dal tribunale dei minori, aprendo la rubrica telefonica.

    Tu, Carlo Dotti, continui a restare in ospedale a Roma in cardiochirurgia da Marcelletti e ci dicono che le tue condizioni sono gravi ma stabili. Hanno deciso di non operarti subito, per farti crescere e fare, più avanti, un intervento che abbia un rischio un po’ più basso. Sei cianotico e piangi quasi di continuo, peggiorando la situazione. Le infermiere ti coccolano e ti tengono in braccio a turno… ti hanno quasi adottato loro.

    Quando la nostra vacanza finisce, torniamo a Cagliari, il barometro di mamma volge pericolosamente al brutto e ne risente tutta la nostra vita quotidiana.

    Taciturna, è spesso assente, persa in pensieri che non vuole svelare. La gravidanza non procede bene, ora ci sono nausee e contrazioni che la tormentano di continuo.

    I suoi sorrisi sono rari, gli scatti sono improvvisi, piccole cattiverie quotidiane animano i nostri giorni e la notte la mamma si gira dall’altra parte ,senza nemmeno un bacio.

    Io non capisco, non mi rendo conto che sei tu, piccolo biondo, a metterci in crisi. E siccome non capisco, sono io a sentirmi abbandonato.

    Una settimana dopo il nostro rientro da Carloforte, rientrando a casa, trovo la mamma che mi accoglie sulla porta di casa con un flute di champagne in ciascuna mano e me ne offre una, sorridendo misteriosa.

    Ci sono candele accese sul tavolo e salatini e olive. Dalla cucina viene un buon odore di spezie.

    La mamma sembra aver riacquistato d’incanto la dolcezza della gravidanza, la morbidezza degli atteggiamenti che mi hanno incantato nei mesi precedenti e che sembravano svaniti nel nulla.

    Mi accompagna verso il divano, mi invita a sedermi, mi sorride. Mi scruta per un attimo, ammiccando al mio sguardo perplesso, inclina indietro la testa e assaggia il vino.

    Come mai questo rituale di seduzione?

    Lei la prende alla larga.

    Sono stata dal ginecologo oggi mi dice a voce bassissima e sai?, è una femminuccia. L’ho vista bene all’eco. E’ bellissima, fa davvero impressione. Ti faccio vedere le fotografie di nostra figlia".

    Appoggio il bicchiere e l’ abbraccio.

    Attento, attento. Non mi schiacciare la pancia! Mi allontana dolcemente, poi riprende il bicchiere e comincia a giocherellarci.

    Sono commosso e non so cosa dire. Vorrei vedere subito le foto dell’ecografia, guardare la mia figlioletta che non è ancora nata, ma la mamma ha programmi diversi.

    Sai, oggi ho telefonato a Roma.

    A Roma?

    Sì, ho parlato con l’infermiera che si occupa di Carlo e mi ha detto che lui sta un po’ meglio.

    Una breve pausa, la guardo sorpreso, lei aggiunge:

    Mi ha detto che non c’è ancora nessuno che lo voglia adottare. Loro fanno quello che possono, ma non lo potranno tenere in eterno. Carlo Marcelletti lo vuole dimettere e si stanno organizzando per portarlo non so dove. Una specie di orfanotrofio, immagino. Povero piccolo!

    La guardo sbalordito … ma non stavamo parlando di nostra figlia? Cosa c’entri tu?

    Mamma ha gli occhi lucidi e la tristezza le dipinge il bel viso.

    Ho una stretta al cuore, comincio a sentirmi in colpa.

    Da una parte c’è la nostra bimba, con mamma e papà e tutto il resto che l’aspettano, dall’altra ci sei tu, piccolo Carlo, solo, abbandonato a te stesso e destinato a morire, forse in braccio ad una infermiera distratta , che magari starà pensando ai fatti suoi.

    Pensavo inizia la mamma, e aggiunge con sguardo basso:

    Pensavo che forse potremmo adottarlo noi. Gli occhi le si riempiono di lacrime.

    Ci metto un po’ per capire. Non mi aspettavo niente del genere. E’ difficile collegarti a noi. Tu. Noi.

    A volte persino i pronomi personali fanno la storia.

    Noi non possiamo, le sussurro confuso. Adesso dobbiamo pensare alla nostra bimba che nascerà tra poco ... come facciamo?

    Non riesco a pensare. Non mi sembra giusto, non è possibile, non si può. Quando mi si schiariscono le idee, capisco perché non possiamo adottarti. Tu sei destinato a morire presto, prestissimo, forse subito.

    Glielo dico a bassa voce. Se ti adottassimo, sarebbe una tragedia annunciata. Ne soffriremmo tutti e due, soprattutto lei, che si sta tormentando così tanto per te e non ti ha ancora visto.

    Sono convinto, ho ragione no? Però mi sento in colpa.

    La mamma mi lascia parlare, non fiata. Non so se mi stia ascoltando, ma credo che mamma sia già sicura che mi convincerà del contrario. Io non ho ragione. E’ solo questione di tempo.

    Mi dice piano: Va bene. Pensiamoci un po’, almeno.

    La mamma ha già deciso, si tratta di lasciarmi in pace ancora per qualche giorno.

    Io rimugino nei lunghi silenzi, attraverso oceani di sensi di colpa.

    Una sera cominciamo a litigare. Siamo in macchina, stiamo andando al cinema.

    All’improvviso la mamma mi dice che non le va più, che vuole tornare a casa.

    Fermo la macchina e scoppio: Dai, ora basta! Cosa ci sta succedendo? E’ per il piccolo Carlo, vero? Ci penso spesso anch’io ma non possiamo lasciarci distruggere la vita. Te l’ho già detto, quel bimbo morirà presto…

    La mamma mi interrompe con garbo, a bassa voce:

    Se un bimbo deve morire, è giusto che almeno muoia nelle braccia della mamma. E lui adesso non ce l’ha la mamma.

    E’ così che tu, Carlo Dotti, sei diventato Carlo Abbruzzese.

    La terra sconosciuta

    Stiamo atterrando a Berbera, dopo una litania infinita di sabbia e arbusti, intravisti dal finestrino sporco dell’aereo.

    Vedo un relitto di un aereo vicino alla pista di benvenuto in Somaliland, e assorbo, ridendo, la botta violenta dell’atterraggio, condito dal tuo classico: ‘minchia’!

    Quegli aerei fanno paura a tutti, ma a noi due gli scricchiolii lugubri e le vibrazioni agghiaccianti, fanno ridere.

    E’ curioso come passiamo insieme tanto tempo, ora, tu ed io. Sapessi quanto mi conforta: tu mi prendi in giro, mi critichi e qualche volta sei d’accordo con me.

    L’aereo rulla lungo la pista a venti metri dal mare e si ferma nel bel mezzo del nulla. Scendiamo nella polvere insieme agli altri passeggeri che si ammirano nei loro abiti firmati e giacche luccicanti a maniche corte. Poche le donne, alcune sono bellissime ma nascoste nei loro paludamenti.

    Come fanno a coprirsi tanto con questo caldo insopportabile?

    Ci liberiamo in fretta dai nostri giacconi da gennaio torinese e cerchiamo acqua da bere.

    Non c’è niente intorno, non un hangar, non una costruzione, non un cartello.

    Una nuvola di polvere si avvicina, accompagnata da un bus dondolante lungo una pista fatta di buche e blocchi di cemento, messi a casaccio. Quel catenaccio si ferma davanti a noi con i suoi paramenti di velluto ballonzolanti.

    Sento chiaro il tuo secondo ‘minchia!’ e scoppio di nuovo a ridere.

    Guardo divertito i miei compagni di viaggio che invece sono sbalorditi. Per loro è la prima volta qui in Somaliland, mentre io sono avvezzo a questi viaggi alla Livingstone. Conosco bene le soste di dodici ore a Dubai in quel terminal da poveracci, così diverso dal posto faraonico descritto dai viaggiatori degli Emirati.

    Entriamo per ultimi nel pulmino polveroso e ci assoggettiamo ad un breve tragitto, più pericoloso del volo, lungo il labirinto di buche. In fondo al labirinto, fra dune e massi, compare un bugigattolo angusto, trionfalmente targato VIP room, accanto ad una povera capanna che dev’essere il terminal per la gente comune.

    C’è un corteo nobiliare ad aspettarci, capitanato dal ministro della Sanità e dalla viceministra Nemo. E c’è Fabrizio, il nostro logista valligiano, a me ancora sconosciuto. Khadra è radiosa, affascinante nei suoi colori vivaci e ha un sorriso che esprime il successo di questa nostra pazza avventura. Ecco gli abbracci, i baci-uomini con uomini e donne con donne-, le presentazioni, i sorrisi, poche parole in italiano, ed il pranzo di rito alla locanda al mare.

    Ti ricordi, Carlo, il bagno in mutande, le risate e il piacere di sguazzare nell’acqua tiepida con la stupida paura di vedere all’orizzonte una barca di pirati somali?

    Si, è vero che i pirati partono dalla punta della Somalia, non tanto distante da dove siamo noi. Ma la punta della Somalia è un’altra regione, è il Puntland. Sai, ancora non capisco bene come funzionano le cose lì in Somalia. Noi siamo in Somaliland, ex Somalia britannica. Gli abitanti si chiamano somalilandesi, nome difficile da pronunciare anche per loro. Sono fieri di considerarsi autonomi da vent’anni, ma nessuna nazione li ha mai riconosciuti. Hanno un loro governo, eletto dai cittadini maschi ma non dalle cittadine femmine e hanno le loro leggi, il loro esercito. Non vogliono essere confusi con gli altri abitanti della Somalia.

    Prima il pranzo davanti a quel mare splendido che non è altro che il prolungamento del Mar Rosso e poi, mezzi addormentati, partiamo per Hargeisa col fuoristrada, protetti da guardie di mezza età con kalashnikov appoggiati alle gambe. Tre ore di buche ed asfalto squagliato in quella specie di steppa verso l’altopiano. In quel limbo di fatica, vedo cammelli ondeggianti che ci ignorano e famiglie di babbuini fermi a guardarci. Fra una dormitina e l’altra, vedo anche un paio di grassi facoceri, indicati freneticamente dal ministro Hussein.

    Hargeisa, la capitale, è un po’ diversa da Torino. Già in periferia troviamo un gran caos con macchine in coda, strombazzanti in quegli abbozzi di strade. Grovigli di fili elettrici, come matasse inestricabili di spaghetti e catapecchie ammucchiate e palazzoni lussuosi che spuntano dietro l’angolo. Bancarelle piene di plastiche colorate e di erbe misteriose riempiono le strade.

    Non abbiamo più sonno e guardiamo affascinati quel mondo colorato, vociante e disordinato. A un incrocio c’è un vigile, che si pavoneggia nella sua divisa, indicando a caso

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