Il risveglio della clessidra
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Il risveglio della clessidra - Luca Magnesio
Luca Magnesio
IL RISVEGLIO DELLA CLESSIDRA
EDIZIONI EVE
Luca Magnesio
Il risveglio della clessidra
Edizioni Eve
www.edizionieve.it
TUTTI I DIRITTI SONO RISERVATI
Ogni riferimento a persone o fatti realmente accaduti è puramente casuale.
Capitolo I
Il trasferimento
Era una splendida giornata per partire. Il cielo era sereno, più calmo di un inquieto depresso di città. I pioppi ritti, impalati ai viali, parevano come un soldato al comando del suo superiore, ma non intralciavano il corso. Il verde dei prati era poco esteso tra i marciapiedi cementati con bordi giallo-neri che vietavano la sosta alle macchine. Alla fermata del bus, stranamente vuota, era seduta sulla panchina solo un’anziana signora di campagna. Lo si intuiva dalle grosse calze e dalla gonna larga di lana, dai grossi scarponi e da un fagotto che conteneva il cibo sufficiente ad affrontare una giornata di duro lavoro nei campi presi di mira dai raggi solari.
Diomede, concepito come unico, lasciava la città, gli amici e i parenti con una certa tristezza.
L’ambita decisione di relegarsi spontaneamente in una fattoria di campagna fu presa da suo padre, forse sotto l’influenza spiritica dei nonni, contadini e semplici pastori, ormai colti dal sonno eterno. Aveva frequentato la Scuola Agraria di Cartera, dedicata a Catone il Censore, il primo trattatista latino di agricoltura. Così facendo, avrebbe potuto aiutare il padre nell’allestire orti, seminare campi, accudire vigne e prendersi cura di tutto ciò che in quella valle, oggetto dei desideri più frenetici di culto campestre, ispirava loro un senso di appartenenza. Il fatto di essere il primo e l’ultimo figlio incideva pesantemente sul suo bagaglio sentimentale. In città, poi, bastava affacciarsi alla finestra per vedere qualche bellezza transitare sotto i portici del municipio su cui avanzava la loro vecchia abitazione. Ma in quel luogo visitato unicamente da qualche immaginario passante, solo la fantasia creatrice di Diomede avrebbe potuto avvistare nei cipressi un colonnato comunale, e in quei fiori sbattuti dal vento qualche ragazza andare a spasso sotto gli archi sempreverdi, immedesimandosi nella loro immanente ed eterna vitalità.
S’erano da poco trasferiti dall’affollata città provinciale di Cartera, infestata da agenti inquinanti di grave spessore. La cascina, edificata sui massi e inglobata fra due speroni rocciosi ai piedi d’un colle, distava circa cinque chilometri da un piccolo paese cittadino. Tutte le finestre, eccetto una, affacciavano su un’ampia vallata ricolma di verde primaverile. Un duplice stormo di filari di cipressi, come monaci in coro, indicava la strada che portava al casolare cubico a due piani, lastricato e fornito di tutto. Si trattava di una vecchia casera, abbandonata da molto tempo e restaurata da poco solo per far fronte alle insistenze di suo padre, che la voleva assolutamente. Gli ricordava i suoi anni infantili, quando facendo visita ai suoi nonni, riceveva tutte le istruzioni sul latte e su come trasformarlo in formaggi e ricotte. All’interno c’era ancora qualche attrezzo in legno appeso alle pareti adiacenti all’entrata, che rievocavano i momenti della cagliatura. La divisione dei vani aveva rispettato quella antica, anche perché era impossibile farne una nuova a causa dell’immane spessore dei muri. Il tetto embricato invece, più fragile rispetto al resto della struttura, assieme alle travi da poco armate e a quell’intenso profumo di muschio bianco che vi si percepiva innanzi, dava alla casera un aspetto di annosa espressione. I robusti massi d’angolo agli spigoli della struttura regalavano al visitatore una prima sobria e poi corpulenta maestosità. Chi la guardava, insomma, da lontano o da vicino, desiderava alloggiarvi almeno una notte, come se si sentisse un corriere accolto in un caravanserraglio.
Il padre era fiero di aver fatto quella schietta scelta ecologica a discapito dei suoi facoltosi proventi. Aveva lasciato il suo ben remunerato impiego di docente universitario per insegnare alle scuole elementari di quel paese, come se avesse rinunciato a una bella principessa per una Cenerentola, che però era più importante di qualunque altra reginetta. Era rimasto ustionato da quella frenetica vita cittadina e desiderava trovare sollievo in quell’angolo paradisiaco, come spesso lo definiva. Sua madre, casalinga appassionata e orgogliosa di quell’impiego, era stata felicissima della scelta, e aveva accontentato per amore l’inquieto marito. Si occupava della casa in una maniera quasi ossessiva, con quella mania di pulizia che non raramente contagia molte donne. Trasferendosi lì aveva rincarato la dose a quell’ansia di tersezza per le circostanze campagnole che li attorniavano con insetti, rettili, fango e polvere.
Il viaggio era stato lungo e pesante e durante tutto il tragitto li aveva seguiti un autocarro di una ditta di traslochi. Dentro c’era l’essenziale, che sarebbe servito per arredare la nuova casa, ma anche il superfluo, per riempirne i piccoli spazi o arroccarlo nel largo magazzino. Diomede in fondo non era contento della scelta del padre. Appena arrivato, squadrò il nuovo habitat nelle tre possibili dimensioni e da una prima fattibile impressione quel luogo cominciava, paradossalmente, a deliziarlo. Il motivo lo si poteva desumere da un noto proverbio che il suo scomparso nonno recitava spesso: Tale padre, tale figlio. E tale era. Infatti, dopo brevi momenti d’insoddisfazione, cominciava a riempire e fissare gli occhi da quello scorcio fiabesco, ascoltando il silenzio armonico della vallata. Senza perdere tempo, come un maratoneta, corse sulla cima del colle. Il panorama era stupendo, da togliere il fiato. I polmoni sembravano quasi attingere ossigeno non solo da quel verde sfolgorante ma soprattutto da quello spirito intrinseco e sommesso che emanava la valle, chiusa volontariamente fra gli scogli rocciosi, come un vero e proprio chiostro a cielo aperto.
«Diomede, Diomede!» la madre lo stava chiamando.
Il suo secondo nome era Ottone, in memoria del nonno. Gli fu imposto dai genitori, quando ebbe a nascere in questo strano mondo. Al padre, d’altronde, poco interessava l’onomastica, proprio a lui che, docente in letteratura irlandese all’Università di Aisero, era stato affibbiato il soprannome Cartapecora perché nei suoi corsi spesso si avvaleva di codici medievali. Si era laureato con una tesi sulla mitografia de La Prima Battaglia di Mag Tured, e possedeva realmente un inestimabile ritratto di Lugh incartapecorito che teneva in camera, poco appariscente e ben nascosto dietro grossi volumi, tanto che solo il figlio Diomede gliel’aveva intravisto fra le grosse mani in qualche occasione. Ma la faccenda, ancora più insolita, era che fosse finito tra le sue carte maleodoranti un grinzoso