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L'Isola del tesoro
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Ebook256 pages5 hours

L'Isola del tesoro

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L’isola del tesoro di Stevenson edizione integrale, appare tra i 100 libri migliori di sempre, è un romanzo per lettori di ogni età, un capolavoro della narrativa mondiale.
In questa veste con una delle migliori traduzioni esistenti, Mario Picchi.
E con la pianta dell’isola del 1700,1754.
LanguageItaliano
Release dateJul 30, 2016
ISBN9788899481018
Author

Robert Louis Stevenson

Robert Lewis Balfour Stevenson was born on 13 November 1850, changing his second name to ‘Louis’ at the age of eighteen. He has always been loved and admired by countless readers and critics for ‘the excitement, the fierce joy, the delight in strangeness, the pleasure in deep and dark adventures’ found in his classic stories and, without doubt, he created some of the most horribly unforgettable characters in literature and, above all, Mr. Edward Hyde.

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    L'Isola del tesoro - Robert Louis Stevenson

    Robert Louis Stevenson

    L'Isola del tesoro

    Indice

    CAPITOLO I

    CAPITOLO II

    CAPITOLO III

    CAPITOLO IV

    CAPITOLO V

    CAPITOLO VI

    CAPITOLO VII

    CAPITOLO VIII

    CAPITOLO IX

    CAPITOLO X

    CAPITOLO XI

    CAPITOLO XII

    CAPITOLO XIII

    CAPITOLO XIV

    CAPITOLO XV

    CAPITOLO XVI

    CAPITOLO XVII

    CAPITOLO XVIII

    CAPITOLO XIX

    CAPITOLO XX

    CAPITOLO XXI

    CAPITOLO XXII

    CAPITOLO XXIII

    CAPITOLO XXV

    CAPITOLO XXVI

    CAPITOLO XXVII

    CAPITOLO XXVIII

    CAPITOLO XXIX

    CAPITOLO XXX

    CAPITOLO XXXI

    CAPITOLO XXXII

    CAPITOLO XXXIII

    CAPITOLO XXXIV

    Robert Louis Stevenson

    Mario Picchi il traduttore

    Traduzione di Mario Picchi

    BORELLI EDITORE

    Traduzione di Mario Picchi

    EDIZIONE INTEGRALE

    Illustrazione: Mappa dell'Isola del Tesoro (1750/54)

    Copyright © 1987 by Gian Franco Borelli Editore 

    Copyright © 2016 Gian Franco Borelli

    prima edizione: dicembre 1987

    Stampa dell’ edizione cartacea Stabilimento Poligrafico Cappelli

    Grafica e illustrazioni di Leonardo Mattioli

    ALL'ESITANTE COMPRATORE

    Se storie marinare cantate alla marina, se tempeste e avventure, se caldo o crudo gelo, se velieri, se isole e persi naviganti, se bucanieri e tesori sepolti; se tante vecchie favole narrate esattamente alla maniera antica,

    possono, come fu per me una volta, piacere ancora ai nostri savi giovani:

    ebbene, così accada! Ma altrimenti, se non le ama il giovane studioso, se ha scordato le antiche sue passioni, Kingston oppure Ballantyne il prode, oppure Cooper del bosco e dell'onda, ebbene, così accada! E dunque io possa, con tutti i miei pirati entrare nella fossa dove dormono i loro e i miei fantasmi.

    S.L.O.

    GENTILUOMO AMERICANO,

    QUESTO RACCONTO CONCEPITO

    IN CONCORDANZA COI SUOI GUSTI CLASSICI

    PER CONTRACCAMBIARE TANTE ORE DELIZIOSE

    COI PIÙ CORDIALI AUGURI

    DEDICA

    L'AUTORE, SUO

    AFFEZIONATO AMICO

    CAPITOLO I

    Il vecchio lupo di mare all'«Ammiraglio Benbow»

         Poiché il signor Trelawney, il dottor Livesey e tutti gli altri gentiluomini mi hanno pregato di scrivere con ogni particolare la storia dell'Isola del Tesoro, dal principio alla fine, senza tacer nulla tranne la posizione dell'isola, e questo perché c'è una parte del tesoro ancora nascosta, prendo la penna nell'anno di grazia 17... e ritorno indietro al tempo in cui mio padre gestiva la locanda «Ammiraglio Benbow» e prese alloggio sotto il nostro tetto il vecchio marinaio dal viso abbronzato e sfregiato da una sciabola.

    Me lo ricordo come se fosse ieri, quando arrivò arrancando alla porta della locanda, seguito dalla carriola che portava il suo baule da marinaio: un uomo alto, forte, pesante, di colorito scuro, col codino incatramato che gli scendeva dietro la lercia giubba blu, le mani ruvide e segnate, con unghie spezzate e nere, e il segno della sciabolata sulla gota, d'un bianco sporco e livido. Ricordo che guardò tutt'intorno alla baia, fischiettando, e poi intonando quell'antica canzone marinaresca che in seguito cantava tanto spesso:

    Quindici uomini sul baule del morto;

    Yo-oh-oh e una bottiglia di rum!

    con quella voce stridula e incerta che sembrava accordata e spezzata fra le barre dell'argano. Poi picchiò sull'uscio con una specie di bastone rinforzato di ferro e quando apparve mio padre chiese con tono brusco un bicchiere di rum. Dopo che gli fu portato lo sorseggiò lentamente, da intenditore, e mentre lo assaporava seguitava a guardarsi intorno, verso la scogliera, o levando l'occhio alla nostra insegna.

         «Una buona baia,» disse alla fine, «e un locale ben piazzato. Ci sono molti clienti, compagno?»

         Mio padre rispose che ce n'erano assai pochi, purtroppo.

         «Benone,» disse lui, «è proprio la cuccetta che fa per me. Ehi tu, collega,» gridò all'uomo che portava la carriola, «vieni qui e aiutami col baule. Mi fermerò per un po'». E seguitò: «Sono una persona semplice: rum, pancetta affumicata e uova è tutto quel che mi ci vuole, e quella punta di terra laggiù per osservare le navi di passaggio. Come dovete chiamarmi? chiamatemi capitano... Ah, sì, capisco a che pensate: ecco qui...» E buttò sulla soglia tre o quattro monete d'oro. «Mi direte quando sono finite disse con fiero cipiglio, da comandante.

         In verità, per quanto fosse malvestito e parlasse sguaiatamente, non aveva affatto l'aspetto d'un marinaio, ma sembrava piuttosto un ufficiale o un padroncino, abituato a essere obbedito o a picchiare. La persona della carriola ci disse che era sceso la mattina precedente dalla corriera davanti al «Royal George», che s'era informato delle locande che c'erano lungo la costa, e sentendo parlar bene della nostra, e della sua posizione isolata, l'aveva scelta come residenza. Fu tutto quel che potemmo sapere del nostro ospite.

         Era d'indole assai taciturna. Durante la giornata Andava in giro per la baia o sulle scogliere, con un cannocchiale d'ottone; e la sera stava in un angolino della sala, incanto al Cuoco, e bevendo rum con acqua, molto forte. Di solito non rispondeva quando gli veniva rivolta la parola, limitandosi a levar di scatto un fiero sguardo e a soffiare dal naso come un corno da nebbia: sicché io e gli altri clienti imparammo presto a lasciarlo in pace. Ogni giorno, quando tornava dalla sua passeggiata, domandava se si fosse visto in giro qualche marinaio. Da principio pensammo che lo facesse per cercar la compagnia di suoi pari, poi capimmo che voleva invece evitarli. Quando qualche marinaio si fermava all'Ammiraglio Benbow (erano quelli di passaggio sulla costiera per Bristol), lui lo scrutava dalle tende della porta prima di entrare in sala, e poi se ne restava muto come un pesce. Per me, in questo modo di fare, non c'era nessun mistero: difatti, in un certo senso, io condividevo i suoi timori. Un giorno mi aveva tratto in disparte, promettendomi una monetina d'argento ogni primo del mese, purché fossi stato ben di vedetta sottovento, a scoprire l'apparizione d'un marinaio con una gamba sola, segnalandogliela immediatamente. Abbastanza spesso, quando arrivava il primo del mese e andavo a chiedergli la paga, lui si metteva a soffiare dal naso e a fissarmi; ma prima che la settimana fosse trascorsa ci ripensava e mi dava la monetina, ripetendomi di badar bene al marinaio «con una gamba sola».

         È inutile che vi dica. quanto questo personaggio fosse diventato l'incubo dei miei sogni. Nelle notti di tempesta, quando il vento scrollava da ogni parte la casa e le onde rombavano nella baia e sulla scogliera, lo vedevo in mille e mille forme diverse e sempre con mille e mille espressioni diaboliche. Ora la gamba era mozzata all'altezza del ginocchio, ora a quella dell'anca; ora invece mi appariva come una creatura mostruosa con una gamba sola in mezzo al corpo. L'incubo peggiore era quando mi correva dietro saltando e scavalcando siepi e fossi. Soltanto con quelle orrende visioni posso dire che pagavo ben cara la mia monetina d'argento mensile.

         Eppure, sebbene fossi lauto atterrito dal pensiero del marinaio con una gamba sola, avevo mollo meno paura del capitano, di quanta ne avessero le altre persone che lo conoscevano. In certe notti beveva molto più rum e acqua di quanto la sua testa potesse sopportare; e allora capitava che si mettesse seduto a cantare quelle sue perverse e selvagge vecchie cantilene marinaresche, senza curarsi di nessuno. Altre volte, invece, ordinava da bere per tutti, obbligando gli astanti tremebondi ad ascoltare i suoi racconti o a cantare in coro con lui. Quante volte ho sentito la casa rimbombare al suono di «Yo-oh-oh e una bottiglia di rum!» mentre tutti quanti, come se fosse in gioco la loro vita e si sentissero la morte sospesa sul capo, cercavano di cantare più forte che potevano, superali dosi l'un l'altro. In tali circostanze, difatti, egli era la persona più prepotente del mondo: picchiava con la palma aperta sulla tavola per chiedere silenzio, s'infuriava al massimo grado se gli rivolgevano una doman da, oppure se non gliela rivolgevano, facendogli in tal modo capire che non stavano seguendo i suoi racconti. E non consentiva a nessuno di andarsene dalla locanda finché, ubriaco fradicio, non si trascinava a dormire in camera sua.

         I suoi racconti atterrivano la gente più d'ogni altra cosa. Storie tremende di gente impiccata, o annegala a forza, di burrasche marine, delle isole Tortugas, di fatti e luoghi selvaggi nelle Antille. Da quanto diceva, doveva esser vissuto fra la gente più scellerata a cui Dio abbia mai concesso di correre i mari; e il linguaggio con cui si esprimeva nelle sue storie urtava la nostra semplice gente di campagna quasi quanto i delitti che descriveva. Mio padre ripeteva che la locanda sarebbe andata in rovina, perché la gente ben presto non sarebbe più voluta venire a farsi comandare e tiranneggiare, per finire poi a letto tremando di paura. Invece io credo che la sua presenza ci aiutasse: lì per lì, infatti, la gente si spaventava; ma a ripensarci si divertiva: era una bella novità in una tranquilla vita paesana. E c'era perfino un gruppetto di giovani che dicevano di ammirarlo, e lo chiamavano «un vero lupo di mare», un «vero navigatore» e frasi del genere, al fermando che quella specie di uomini aveva reso l'Inghilterra tanto temibile sui mari.

         Per un altro verso, però, egli lavorava alla nostra rovina, restando da noi settimana dopo settimana, e mese dopo mese, finché ebbe finito tutto il denaro che aveva dato al principio, mentre mio padre non trovava mai il coraggio di insistere per chiedergliene ancora; e se provava a farlo, quello soffiava tanto forte col naso da far credere che ruggisse e fissava in modo la le il mio povero padre che lui se ne usciva dalla stanza. L'ho visto torcersi le mani dopo scene simili e son certo che l'affanno e il terrore in cui viveva abbiano molto affrettato la sua fine prematura e infelice.

         Per tutto il tempo che rimase da noi il capitano non cambiò mai d'abito, limitandosi a comprare qualche paio di calze da un venditore ambulante. Una volta che uno dei corni del suo cappello si ammaccò, lui lo lascio penzolare, sebbene fosse una gran seccatura quando soffiava vento. Ricordo com'era la sua giacca, che lui stesso rattoppava in camera sua finché fu tutta una toppa. Non scrisse né ricevette mai lettere, né parlo mai con nessuno fuorché con la gente del vicinato e anche con loro, per lo più, soltanto quand'era ubriaco di rum. Nessuno di noi aveva mai visto aperto il suo grande baule.

         Soltanto una volta qualcuno gli tenne testa, e fu verso la fine,  quando il mio povero padre era ormai in una fase di declino tanto avanzata che di lì a poco sarebbe morto. Una volta arrivò il dottor Livesey, nel tardo pomeriggio, per visitarlo; mangiò un boccone di cena che mia madre gli aveva preparato e andò in sala a farsi una pipata, aspettando che gli portassero dal villaggio il cavallo, perché alla locanda non avevamo stalla. Lo seguii nella sala e ricordo come mi colpisse il contrasto tra la figura linda e pinta del dottore, con la parrucca incipriata, candida come neve, gli occhi neri e scintillanti, i modi amabili, e quella gente rustica, specialmente quel lurido spauracchio, torvo e scomposto, che sedeva coi gomiti sulla tavola, già parecchio avanti col suo rum. All'improvviso lui, intendo il capitano, intonò quella sua eterna canzone:

    Quindici uomini sul baule del morto,

    Yo-oh-oh e una bottiglia di rum!

    Il bere e il diavolo han fatto fuori gli altri,

    Yo-oh-oh e una bottiglia di rum!

    Da principio avevo immaginato che «il baule del morto» fosse quell'identica cassa che stava su, nella sua stanza sul davanti, e quel pensiero si mischiava nei miei incubi con l'immagine del marinaio con una gamba sola. Ma da tempo, ormai, avevamo smesso di badare a quella canzone la quale appariva nuova, quella sera, solamente, al dottor Livesey: mi accorsi che su di lui essa non produceva un effetto piacevole, poiché levò il capo con aria irritata, per un momento, prima di riprendere a chiacchierare col vecchio Taylor, il giardiniere, a proposito d'una nuova cura per i reumatismi. Intanto il capitano a poco a poco si era animato al suono della sua voce e s'era messo a picchiare sulla tavola con la palma aperta, proprio davanti a sé, in quel modo che per noi significava: silenzio. Le voci tacquero tutte insieme, tranne quella del dottor Livesey che seguitò a parlare come prima, col suo tono chiaro e gentile, aspirando buone boccate dalla pipa tra una frase e l'altra. Per un po' il capitano lo fissò con aria truce, picchiò di nuovo con la mano, lo fissò più truce ancora e alla fine esplose, dopo una volgare imprecazione: «Ehi, silenzio, laggiù, sottocoperta!»  

         «Dite a me, signore?» chiese il dottore; e quando quel ribaldo gli ebbe risposto, con un'altra bestemmia, che era proprio così: «Ho soltanto una cosa da dirvi, signore,» replicò il dottore, «che se seguitate a bere rum a quel modo, ben presto il mondo sarà liberato da un lurido mascalzone!»

        Il furore del vecchio fu spaventoso: balzò in piedi, cavò fuori e aperse un coltello a serramanico da marinaio e lo bilanciò sul palmo della mano, minacciando d'inchiodare al muro il dottore.

         Costui non si scompose affatto e gli parlò, come faceva anche prima, voltando appena indietro la testa e con lo stesso tono, ma a voce più alta in modo che tutti i lo fissò con aria truce, picchiò di nuovo con la mano, lo fissò più truce ancora e alla presenti potessero udirlo, assolutamente calmo e fermo:

         «Se non mettete subito in tasca quel coltello vi giuro, sul mio onore, che alle prossime assise sarete impiccato».

         Seguì poi fra i due una battaglia di sguardi, ma presto il capitano chinò il suo, mise via l'arma e si sedette di nuovo, ringhiando come un cane bastonato.

         «E ora, signore,» seguitò il dottore, «poiché so che c'è una persona come voi nel mio distretto, siate ben certo che vi terrò gli occhi addosso giorno e notte. Io non sono soltanto dottore, sono un magistrato: e se mi arriverà anche la minima lagnanza su di voi, fosse pure una smargiassata come quella di stasera, provvederò a farvi prendere e scacciare di qui. E spero che basti».

         Poco dopo il cavallo del dottor Livesey fu condotto alla porta e lui se ne andò; ma il capitano se ne restò tranquillo, quella sera e parecchie delle sere successive.

    CAPITOLO II

    Appare e scompare Cane Nero

         Non molto tempo dopo quanto ho narrato accadde il primo di quei fatti misteriosi che ci liberarono alfine del capitano, ma non, come si vedrà, delle sue faccende. Era un inverno molto rigido, con gelate lunghe e aspre, e violente bufere; appariva chiaro che il mio povero padre aveva assai poche speranze di arrivare a primavera. Andava giù giorno dopo giorno, e mia madre e io avevamo tutto il peso della locanda sulle nostre spalle; avevamo troppo da fare per occuparci del nostro sgradito ospite.

         Era una mattinata di gennaio, assai di buon'ora, una mattinata gelida e pungente, con la cala grigia per la brina, le onde che lambivano lente i ciottoli della riva, il sole ancora basso che sfiorava le cime delle alture e splendeva lontano, al largo. Il capitano s'era levato prima del solito ed era sceso alla spiaggia, con la corta sciabola che gli penzolava tra le larghe falde della vecchia giubba blu, il cannocchiale d'ottone sotto il braccio, il tricorno buttato all'indietro. Ricordo che il suo fiato, mentre andava giù, restava sospeso in aria come fumo, nella sua scia, e l'ultimo suo rumore, prima di sparire dietro la grande rupe, fu un sonoro sbuffo d'indignazione, come se la sua mente ripensasse ancora al dottor Livesey.

         Mia madre era di sopra col babbo, e io stavo preparando la tavola della colazione per il ritorno del capitano, quando la porta della sala si aprì ed apparve un uomo, mai visto prima. Bianco come cera, gli mancavano due dita alla mano sinistra e, sebbene portasse una sciabola, non pareva disposto a servirsene. Stavo sempre con gli occhi aperti, per scoprire marinai con una gamba sola o con due, e ricordo che costui mi sconcertò. Marinaio non sembrava, eppure aveva un che di marinaresco.

         Gli chiesi che desiderasse, e lui rispose che voleva del rum; ma mentre stavo uscendo dalla sala per prenderlo lui si sedette a una tavola e mi fece cenno di avvicinarmi. Mi fermai, col tovagliolo in mano.

         «Vieni qui, figliolo» disse, «vieni più vicino».

         Feci un passo verso di lui.

         «Non è questa la tavola del mio compagno Bill?» chiese con una sbirciatina maliziosa.

         Risposi che non conoscevo il suo compagno Bill, e che quello era per un ospite della locanda che chiamavamo il capitano.

         «Bene,» disse lui, «il mio compagno Bill può farsi chiamare o non chiamare capitano. Ha uno sfregio su una guancia e proprio un bel modo di fare, specialmente quando beve, il mio compagno Bill. Mettiamo, tanto per stare in conversazione, che quel tuo capitano abbia una cicatrice su una guancia e mettiamo, se non ti dispiace, che sia la guancia destra. Che ti dicevo? Allora: è in casa il mio compagno Bill?»

         Gli risposi che era fuori a passeggio.

         «Da clic parte, ragazzo? da che parte è andato?»

         Dopo clic gli ebbi indicato la rupe e detto quando più e detto quanto più o meno il capitano sarebbe tornato, e dopo che ebbi  risposto a qualche altra domandali , lui disse, lui disse: «Questo gli farà bene come  una bevuta, al mio compagno Bill».

         Nel dire queste parole l'espressione del suo viso non era per niente piacevole, e avevo le mie ragioni per credere che il forestiero si sbagliasse, anche supponendo che parlasse sul serio. Ma, pensavo, la cosa non mi riguardava e, Inoltre, non era facile decidere il da farsi. Il forestiero cominciò a girellare per la sala, sempre tenendosi vicino alla porta d'ingresso e facendo capolino come il gatto che aspetta il topo. Una volta che uscii fuori, lui, immediatamente, mi fece tornare dentro e, siccome non gli ubbidii con la prontezza che esigeva, sulla sua faccia giallognola si fece un orribile cambiamento e mi ordinò di entrare con una bestemmia che mi fece saltare. Non appena lui dentro tornò alle sue precedenti maniere, fra suadenti e ironiche, mi batté sulla spalla, dicendo che ero un bravo ragazzo e che gli piacevo moltissimo.

         «Anch'io ho un figlio» disse, «che ti somiglia come due gocce d'acqua, e che è tutto il mio orgoglio. Ma la cosa principale coi ragazzi è la disciplina, ricordalo, figliolo: la disciplina. Ora, se tu avessi navigato con Hill, non ti saresti mai fatto ripetere un ordine due volte, stai tranquillo. Non era questo il metodo di Bill, ne di quelli che navigavano con lui. Ed eccolo qui, il mio compagno Bill, eccolo col suo cannocchiale sottobraccio, che Dio lo benedica... Torniamocene dentro, io e te, nella sala, e aspettiamolo dietro la porta per fargli una sorpresina, andiamo».

         Così dicendo il forestiero indietreggiò con me nella sala e mi mise dietro di sé nel cantuccio, in modo che la porta aperta ci nascondesse tutti e due. Mi sentivo assai a disagio

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