Un fiore che non muore: La voce delle donne nella Resistenza italiana
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Un fiore che non muore - Ilenia Rossini
UNALTRASTORIA
10
Un fiore che non muore
A cura di Ilenia Rossini
© 2014 Red Star Press
Prima edizione in «Unaltrastoria»: aprile 2014
Prima edizione in e-book: luglio 2016
Design Dario Morgante
Red Star Press
Società cooperativa
Via Tancredi Cartella, 63 – 00159 Roma
www.facebook.com/libriredstar
redstarpress@email.com | www.redstarpress.it
Un fiore
che non
muore
A cura di Ilenia Rossini
REDSTARPRESS
INTRODUZIONE
«Poche feroci» e «nuove streghe».
Le donne, la violenza politica agita, la Resistenza
di Ilenia Rossini
Ho sparato per più di due ore! volevo ucciderli tutti; era stato un anno di tormenti, di bombe, di fame, di sete e così quel giorno mi prese una gran furia. Avevo 17 anni, non mi occupavo di politica, ma sapevo bene che cosa erano i fascisti e i tedeschi contro i quali ho sparato a Porta Capuana.
È con queste parole di Maria Gaudino, pubblicate su «Noi donne» nel 1964 e raccolte nel volume che avete tra le mani, che mi piace aprire questa introduzione. Le ho scelte perché esse presentano una figura di donna combattente, di donna che prende le armi, che le usa senza timore e che non se ne pente. Una donna che vuole uccidere i tedeschi e i fascisti contro cui spara: una di quelle donne che, in un bel libro pubblicato nel 1987 e poi tradotto in Italia nel 1991¹, la politologa e femminista statunitense Jean Bethke Elshtain (1941-2013) ha definito come le «poche feroci».
Secondo i dati resi noti dalla Presidenza del Consiglio dei ministri, su un totale di 461mila qualifiche partigiane riconosciute, solo 53mila sono andate alle donne (11,5%): le partigiane combattenti furono circa 35mila (18,9% della categoria), le patriote con azioni di supporto 20mila (16,6% della categoria) e, ad esse, si aggiungono le 70mila donne operanti nei Gruppi di difesa della donna (Gdd). Numerose furono anche le vittime: 623 furono le cadute e fucilate (in combattimento, nelle camere di tortura, in azioni di guerra documentate: sono il 2,1% dei caduti), 4.563 furono le arrestate e condannate dai tribunali repubblichini, 2.750 furono deportate in Germania. Alla fine della guerra, le medaglie d’oro al valore militare attribuite alle donne furono, però, solo 19, 13 dedicata alle memoria.
Al di là della sterilità di questi numeri, la lotta partigiana ha visto le donne nei GAP che compivano attentati in città, nelle formazioni salite in montagna e in quelle operanti in pianura, negli scioperi e nelle manifestazioni, nelle carceri e sotto gli strumenti di tortura, nella diffusione di stampa e nella trasmissione di informazioni. Insomma, le donne della Resistenza, come è stato scritto, non furono solo «mamme
dei partigiani o vivandiere o infermiere di ribelli affamati o feriti, anche se furono pure questo, e quando tutto ciò poteva significare l’arresto, l’incendio della casa, la deportazione, la fucilazione [...] [le] violenze carnali che in genere ai maschi non toccano»².
Questa pluralità di mansioni si è però scontrata con un tabù sociale e culturale: quello della donna in armi. Le partigiane hanno anche combattuto, ma su questo, per decenni, è calato il silenzio. A questo approccio non sfugge, ad esempio, la scritta sulla lapide affissa al Palagio di Parte Guelfa a Firenze che apre questo volume: le donne resistono, confortano, spronano, al limite muoiono ma non si dice che combattevano.
Esempi del tabù che circonda la violenza agita femminile sono molteplici anche in questo volume: le donne non devono ostacolare la lotta maschile; le donne custodiscono le armi (ma non si afferma che le usino); le donne soccorrono e nascondono i soldati sbandati dopo l’8 settembre; le donne aiutano attraverso la raccolta di fondi, di medicine e di informazioni, la cura infermieristica, l’attività di radiotelegrafista. L’attività delle donne in combattimento, si scrive in un manifestino dei Gruppi di difesa della donna e di assistenza ai combattenti (GDD)³, è salutata con favore, ma «non è alla portata di tutti», intendendo con ciò che non fosse alla portata di tutt-e. Anche nell’enumerazione dei compiti delle Volontarie della Libertà, in cui erano inquadrate le donne comuniste, si legge che il loro compito era «la partecipazione attiva, sotto ogni forma, alla lotta contro i tedeschi ed i fascisti. Studiare ed organizzare atti di sabotaggio nelle fabbriche per paralizzare la produzione destinata ai tedeschi, interrompere le loro vie di comunicazione, collaborare coi GAP, i partigiani, le SAP, insomma in tutte le imprese in cui si ritiene necessaria la partecipazione delle donne. [...] Ogni Volontaria della Libertà deve possibilmente prendere dimestichezza col pericolo ed il rischio della lotta armata, sarebbe quindi opportuno concedere l’uso della rivoltella e nel limite del possibile procurarsi delle armi leggere»: le donne devono collaborare e l’uso delle armi può essere concesso.
Ancora più significative è il numero del Partigiano
del 24 ottobre 1944, in cui si legge: «Domani, finita questa tragedia, quando rientrerai a casa tua, a riabbracciar i tuoi bimbi, dillo pure [...] santa donna: [...] stata sui monti a portare un po’ di famiglia, un po’ di mamma a questi ragazzi che han riscattato il nostro Paese: in una parola sono stata a far la partigiana...
. E la partigiana l’hai fatta, Marietta, anche se le schioppettate per te l’han fatte gli altri»: Marietta è una partigiana, o per meglio dire una mamma per i partigiani, ma a sparare sono gli altri, gli uomini.
L’importanza della raccolta Un fiore che non muore – volume eterogeneo, che raccoglie stralci di biografie, di articoli di giornali e manifestini, di memorie, di romanzi – sta proprio, invece, nel fatto di contenere, tra le altre, anche le esperienze di molte «donne che sparano», donne che dopo aver fatto per mesi le staffette iniziano a compiere «azioni con gli uomini, sabotaggio, azioni individuali e combattimenti notturni», donne che mettono bombe nei luoghi di ritrovo di fascisti e tedeschi, donne «a fianco dei patrioti in vere e proprie azioni di guerra». Tra esse, ci sono figure note come quelle di Maddalena Cerasuolo, la combattente simbolo delle quattro giornate di Napoli, o di Irma Bandiera, la prima delle donne bolognesi a imbracciare le armi. Ma ci sono anche le figure meno note – del tutto sconosciute e dimenticate – delle migliaia di donne che scelsero la violenza agita come forma di opposizione e resistenza al nazismo e al fascismo.
In molti di questi frammenti, tuttavia, si sente – pesante come un macigno – il peso più o meno esplicito della parola «anche». Ci sono gli uomini, i valorosi e coraggiosi combattenti, e accanto a loro ci sono anche le donne.
Per molti anni – per decenni, dopo il 1945 – si è ritenuto, infatti, che la resistenza femminile fosse una resistenza di «seconda classe», in quanto resistenza non armata. A scardinare questa convinzione è intervenuta la categoria di «resistenza civile», diffusa in Italia soprattutto attraverso i lavori di Anna Bravo: essa comprende tutte le attività di non collaborazione o di sabotaggio nei confronti del nemico, i «comportamenti conflittuali delle popolazioni [...] che si valgono non delle armi ma di strumenti come il coraggio morale, l’inventiva, la duttilità, le tecniche di aggiramento della violenza»⁴. La resistenza civile, in questo senso, non è opposta a quella armata e riguarda, innanzitutto, la protezione di chi è in pericolo, ricercato dai nazisti e dai fascisti. Si tratta di ciò che la stessa Bravo ha definito «maternage di massa», una estensione della maternità fuori dal privato a tutta la società: per la prima volta, in quella situazione di sospensione della normalità determinata da una guerra che è guerra totale, sono le donne a difendere gli uomini. Alcune lo fanno, ovviamente, spontaneamente, senza rifletterci, pensando ai parenti lontani probabilmente bisognosi dello stesso soccorso: ma si tratta, in un contesto di guerra, di atti comunque politici, che portano con sé il rifiuto del fascismo e del nazismo.
Se il merito della categoria di «resistenza civile» è indubbiamente quello di aver superato la dicotomia tra resistenza armata e resistenza inerme, essa rischia di produrre e riprodurre lo stereotipo «del contributo femminile determinato dalla spinta emotiva e degli affetti familiari [...], che nega le dimensioni di volontarietà e di scelta di questa partecipazione»⁵. Insomma, si tratta di una categoria che rischia di cancellare nuovamente le partigiane combattenti.
Come ha scritto Martin nella sua tesi di laurea «pensare che le donne possano esprimere il loro dissenso solo attraverso forme di disobbedienza al sistema, categoria diversa dalla conflittualità, è una limitazione delle loro potenzialità in quanto esseri umani, sociali e politici. [...] Nella maggior parte delle pubblicazioni la categoria della violenza è stata osservata principalmente nella sua declinazione di violenza subita. Eppure in questa particolare guerra [...] le donne sono presenti anche nelle formazioni armate, dove non soltanto curano o assistono i loro compagni»⁶.
Anche nello studio del ruolo delle donne nelle formazioni armate, il ruolo delle donne è stato spesso limitato a quello riduttivo e stigmatizzante di «staffette», addette ai collegamenti, alla trasmissione di informazioni, alla stampa e alla propaganda, al trasporto di armi e munizioni, all’assistenza e alla cura, all’organizzazione di scioperi e manifestazioni contro il carovita. La violenza agita dalle donne, infatti, comporta dei problemi interpretativi che hanno portato a privilegiare una concezione che vede uomini e donne con ruolo diversi nella Resistenza: la gestione politica e il combattimento i primi, il lavoro di cura le seconde.
Gli uomini, dunque, sarebbero stati la Resistenza, mentre le donne vi avrebbero contribuito
: ma contribuire
non è sinonimo di essere parte
, è più che altro un’azione di supporto, una convergenza momentanea e parallela alla lotta armata. Il contributo femminile non viene considerato un fattore fondamentale per lo sviluppo stesso della lotta resistenziale: ma perché?
La risposta a questo interrogativo tocca un nodo culturale di fondamentale importanza: la supposta incompatibilità delle donne con la guerra, che trova la sua origine nella contrapposizione tra la possibilità del dare la vita e quella di toglierla. In quanto madri, almeno in potenza, le donne sarebbero così «pacifiste» e rifiuterebbero a prescindere l’uso delle armi. Esse sarebbero non combattenti proprio per il ruolo che esse svolgono nel processo riproduttivo, che le rende meno militarizzabili (i corpi femminili avrebbero dei fini incompatibili con la tradizionale disciplina militare): le donne soccorrono, placano le sofferenze, curano, offrono sollievo. Del resto, anche l’attività di resistere alle guerre viene considerato un terreno femminile, connesso con la sfera di riproduzione della vita. Come ha scritto Elshtain, «la violenza femminile veniva considera un’aberrazione, lo sfogo di soggetti non totalmente disciplinati, parzialmente fuorilegge» (cit., p. 233). Le sue parole sono illuminanti:
Sappiamo che le donne possono essere coraggiose, ma dubitiamo che possano essere spietate. Sappiamo che le donne più forti saranno in grado di difendere se stesse e i loro figli nell’ultima ridotta, la casa e la terra, ma dubitiamo che possano marciare in difesa di una nazione. Sappiamo che alcune donne hanno indossato l’uniforme ma pensiamo sempre a servizi ausiliari, di supporto, a compiti svolti non sul campo di battaglia. Accettiamo le spie di sesso femminile perché si tratta di un’attività sessualizzata e manipolatoria, data l’immagine da Mata Hari che ne abbiamo. Pensiamo raramente alle donne che hanno effettivamente combattuto, che si sono arruolate travestendosi da uomini facendo da volontarie nei movimenti di resistenza e di guerriglia; e anche queste vengono etichettate come eccezioni che confermano la regola (cit., p. 237).
La studiosa statunitense ha così svelato la costruzione di un divario storico tra «chi dà la vita e chi la toglie»: al suo interno, le donne sarebbero suddivise tra «le poche feroci» e le «molte non combattenti»; gli uomini tra i «molti militanti» e i «pochi pacifici». Si tratta, ovviamente, di una costruzione che non tiene conto della storia: non solo le Amazzoni, la cui esistenza è però dubbia, ma anche molte tra guerriere, sacerdotesse e regine hanno preso in mano le armi e combattuto fino all’ultimo sangue. La regina Zenobia in Siria, Giovanna d’Arco e Anita Garibaldi sono solo tra gli esempi più noti, ma durante gli episodi rivoluzionari del Settecento e dell’Ottocento, per non parlare della Guerra civile spagnola alla fine degli anni ’30, la presenza femminile sulle barricate e nelle strade era frequentissima: un esempio tra tutte, l’anarchica Louise Michel durante la tragica fine della Comune di Parigi. Del resto, l’interdizione per le donne dell’uso delle armi le escludeva anche dal diritto-dovere di difendere con esse la Patria, di essere parte dell’esercito di