Una Scomoda Memoria: un inquietante thriller storico
By Fg Bart
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Una Scomoda Memoria - Fg Bart
PERSONAGGI
CAPITOLO I
ANNO DOMINI 491
Onde lunghe, immense, minacciose, che si gonfiavano lentamente d’acqua e si andavano a schiantare inesorabilmente contro la nave su cui viaggiava Tito Domitio Germanico. Sembravano puntare l’imbarcazione, per non mancarla neanche una volta. Agivano in preda a un diabolico accordo con il cielo in tempesta che scaricava acqua e grandine a profusione.
Forse era giunta l’ora di punirlo per la sua vita di vizi e perdizione, per la sua labile moralità e i suoi costumi licenziosi e dissoluti...
Questo si sorprese a pensare Tito, il fedele messo del Re, mentre rassegnato fissava il mare in burrasca. Si sentiva malissimo, era debole. Ormai lo stomaco aveva già restituito tutto ciò che conteneva e lui si era aggrappato al bordo di una panca fradicia e scivolosa.
Per fortuna poteva stare un po' al riparo sotto la tenda personale del comandante che l'aveva offerta come protezione ai suoi illustri passeggeri. Ma la copertura dalla furia delle intemperie era assai sottile e a dir poco illusoria.
Da lì, Tito non si sarebbe mosso più, nemmeno per tutto l’oro del mondo.
Entrava acqua dappertutto, in gran quantità, dal mare e dal cielo, salata e dolce insieme, e tutto volava e rotolava: vettovaglie, suppellettili e attrezzi vari. Tutto rollava su e giù per il pavimento di legno parzialmente allagato, travolgendo chi aveva la pretesa di stare in piedi.
Tito non aveva paura di morire anzi, al momento, sarebbe stata per lui proprio una liberazione.
Era stanco, non ne poteva più di questi viaggi lunghi, estenuanti e di questa vita costellata di rischi e fatiche, e adesso aveva freddo, tanto freddo e si sentiva zuppe anche le ossa.
Questa volta viaggiava a bordo di un dromone che, tra le varie navi provate durante le sue infinite peregrinazioni, non era nemmeno tra le più scomode. Trasportava fino a duecentocinquanta persone tra rematori, equipaggio e soldati. Non mancavano talvolta ospiti, più o meno graditi, da scortare. Ma per uno che non amava il mare come lui, anche quei 135 piedi di lunghezza per 20 di larghezza, erano sempre pochi.
Se capitava poi d'incappare in un nubifragio come questo, tutte le navi, per grandi e pesanti che fossero in porto, sembravano minuscoli aggeggi in balia delle onde.
Tito Domitio era persona fidata del Re e, a corte, tutti lo conoscevano e lo stimavano. Questo gli rendeva molto onore ed era per lui motivo di vanto. Gli incarichi che gli venivano affidati erano di grande responsabilità, spesse volte segreti e delicati. Godeva dell'immunità diplomatica, ma quest'ultima non era sempre sufficiente a salvargli la vita e, sovente, si rendeva necessario tirar fuori altre risorse con l'ingegno. Era colto e scaltro, parlava molte lingue, ma soprattutto le capiva tutte.
Sapeva adattarsi bene e districarsi in qualsiasi situazione si venisse a creare e portava sempre a termine le proprie incombenze in modo egregio e puntuale.
Alle volte l'abilità del diplomatico stava proprio nel sapersi rendere invisibile; altre volte invece gli venivano assegnati incarichi ufficiali, in pompa magna, nel rispetto di forma e protocollo.
Tito era un uomo di bassa statura, un po' pienotto, falsamente modesto e umile. All’apparenza si presentava timido, ma chi lo conosceva bene sapeva che era un atteggiamento di convenienza e timido, quanto modesto, non lo era affatto.
Aveva pochi e radi capelli chiari che teneva corti e sempre pettinati con cura. La chioma slavata era eredità certa degli antenati germanici del ramo paterno, origine che lo accomunava al suo Re.
Ma il vero, e forse unico, vanto estetico dell'ambasciatore erano i foltissimi baffi ispidi e ramati, sicuramente barbarici, dietro i quali nascondeva le espressioni più eloquenti del proprio viso che avrebbero potuto tradirne i pensieri. I barbigi servivano da barriera con il prossimo; erano una difesa dal mondo che lo circondava e Tito non ricordava di esserne mai stato privo da quando aveva memoria di esser divenuto adulto.
A dire la verità, in questi giorni gli era cresciuta disordinata e incolta anche una fitta barbetta rossastra con qualche filo argento nel mezzo. Ma, con il mare in tempesta, chi mai avrebbe avuto il coraggio di radersi?
Si sarebbe sistemato e ripulito prima di sbarcare a terra.
L’acqua continuava a entrare da ogni parte e Tito, a rifletterci bene, non ricordava d'aver mai affrontato un viaggio tanto disagiato. Di sicuro, quest’incarico era nato sotto i peggiori auspici.
Odoacre, il suo Re, l’aveva convocato in tutta fretta e l’aveva costretto a partire subito, affidandogli una scorta. L'aveva imbarcato sulla prima nave che salpava dal porto di Classe. Le esondazioni dei fiumi di quegli ultimi anni stavano progressivamente interrando la laguna tutt'intorno e il porto di Classe ne risentiva, venendo così utilizzato sempre di meno. Ma il Rex gentium, già da qualche tempo, si era asserragliato a Ravenna ormai in pianta stabile. E il vecchio porto con la via del mare
erano ancora, per la città, una grande e sicura risorsa.
La minaccia di Teodorico al comando degli Ostrogoti che scorrazzava indisturbato per gran parte della penisola e che aveva ottenuto il pieno appoggio del Senato Romano, aveva fatto sì che Odoacre si rifugiasse nella capitale, ben fortificata dalle sue solidissime opere di difesa. La città poteva affrontare e sfidare un lunghissimo assedio e da lì, il suo Re, poteva comunicare con il resto della penisola e minacciare le spalle dell’esercito ostrogoto se questo si fosse spinto nel Sud della penisola.
La Sicilia e l’Italia meridionale infatti, gli erano ancora fedeli e Odoacre contava di poter raccogliere nuove truppe per il proprio esercito, ma ci voleva altro tempo per poterlo fare. E di tempo n'era rimasto ormai ben poco.
Il Rex gentium aveva conservato presidi nelle città limitrofe come Rimini e Cesena, ma aveva ritenuto più sicuro far imbarcare il suo ambasciatore lì, a Ravenna.
La missione che Tito doveva compiere era cosa assai delicata
e meno persone ne fossero venute a conoscenza, meglio sarebbe stato per tutti.
Di norma, l'ambasciatore Tito Domitio veniva fatto partire da solo ed era così che a lui piaceva viaggiare. Era un solitario anche nella vita privata. Non aveva tempo per una famiglia. Non voleva legami d'affetto e conseguenti responsabilità. Era duro da ammettere, ma dietro il paravento dell'importante ruolo professionale che ricopriva, si celavano il proprio egoismo e il rifiuto ad avere vincoli di ogni genere e natura. Il suo forte senso del dovere invece lo portava a un'incondizionata fedeltà verso il suo Re.
In solitudine si organizzava e controllava al meglio il proprio tempo, i propri spostamenti, la propria vita.
Ma questa volta no, non era andata come le altre volte.
Per questo viaggio gli era stata appioppata la compagnia, tutt'altro che discreta, nientemeno che di un sacerdote e che sacerdote!
L'anziano delegato apostolico che viaggiava con lui era un diplomatico della Santa Sede, un rappresentante del Papa, di Felice III in persona.
Prima di allora, i due messi non si erano mai incontrati a corte e a Tito avrebbe fatto tanto piacere capire da quale nascondiglio il suo Re avesse tirato fuori quest'uomo di chiesa così indispensabile per la buona riuscita della segretissima missione da portare a termine.
Era sicuro che la sgradita presenza
gli avrebbe creato non pochi problemi e, a giudicare dal tipo, quello lì non avrebbe saputo badare granché a se stesso.
Meno male che il suo Re aveva mandato insieme a loro anche alcuni militari che li avrebbero scortati durante tutto il viaggio. Per fare questo tipo di vita, bisognava sapersi adattare a tutto, districarsi nelle situazioni difficili, essere pratici nelle cose, e Tito Domitio era certo che Ignazio da Riano, perché così si chiamava il presbitero secolare, pratico non lo fosse per niente.
A proposito d'Ignazio, ma dove si era andato a cacciare su quella stramaledetta nave?
Tito non aveva alcuna intenzione di mollare la presa dalla sua fradicia panca per andare a cercare l'anziano sacerdote. Probabilmente si era rintanato da qualche parte a pregare Dio e tutti i Santi del cielo affinché la tempesta si placasse. E, a dirla tutta, ciò non sarebbe stato un male.
Imbarcarsi per mare alle none di marzo era stata una pessima idea e Odoacre non avrebbe mai costretto gli ambasciatori ad affrontare questo rischio se solo ci fosse stata un'alternativa migliore.
La nave a bordo della quale viaggiava il messo Tito con il compagno di viaggio era diretta verso la costa dalmata, al porto di Salona, uno dei maggiori centri politici, culturali e religiosi della costa orientale dell'Adriatico. Per raggiungere Salona occorreva però attraversare il Mare Adriatico, in tempesta per giunta, dato che ancora l'inverno non intendeva cedere il posto alla primavera. Il percorso lungo costa sarebbe stato troppo lungo e dispendioso e si sarebbero trovati facile preda del nemico.
Una volta sbarcati a Salona, i due messi diplomatici avrebbero proseguito il loro viaggio alla volta di Costantinopoli, l'antica Bisanzio, grandiosa capitale dell'Impero romano d'Oriente, per incontrare l'imperatore Zenone in persona e consegnargli le missive che portavano.
Ormai da svariati anni si avvertiva, senza ombra di dubbio, un clima di maretta tra il re Odoacre e l'Imperatore d'Oriente. Quest'ultimo vedeva il barbaro, potente e pericoloso, prendere sempre più piede dopo la deposizione di Romolo Augusto, l'ultimo Imperatore romano d'Occidente, che tutti conoscevano con il diminutivo di Augustolo.
Adesso, il re Odoacre era pronto per proporre a Zenone un'allettante soluzione.
Gli Ostrogoti sotto la guida di Teodemiro, non molti anni addietro, avevano stipulato un trattato di alleanza con l'Impero bizantino che prevedeva di difendere dagli altri barbari
le frontiere dell'Impero, ovviamente in cambio di un cospicuo compenso annuo da parte dell'Impero stesso. Ma subentrato Teodorico al comando, le cose erano cambiate. Questo potente e prepotente guerriero, cresciuto come ostaggio
proprio alla corte di Costantinopoli, non aveva tardato a mostrare il suo spirito indipendente.
Si era così verificata un'inevitabile rottura dei rapporti tra gli Ostrogoti e l'Impero di Costantinopoli.
Zenone si barcamenava e cercava di tenere il piede in due staffe attraverso una politica altalenante e ambigua con i due bellicosi principi barbari, Odoacre da una parte e Teodorico dall'altra. Faceva di tutto per metterli l'uno contro l'altro. Il suo sogno sarebbe stato, con un colpo di fortuna, quello di sbarazzarsi di entrambi.
Egli aveva già provato in passato a scatenare i Rugi contro Odoacre, il quale, per tutta risposta, non solo li aveva sconfitti sul loro territorio ma, già che c'era, aveva invaso anche le provincie occidentali bizantine dopo che qualche anno prima aveva già fatto propria tutta la Dalmazia.
Tito sapeva bene che il suo Re era un tipo tosto, pericoloso e difficile da fiaccare. Figuriamoci che, per dimostrare le sue buone intenzioni e secondo Tito anche per una beffarda soddisfazione personale, Odoacre aveva persino offerto all'Imperatore stesso una parte del bottino preso ai Rugi.
Tito pensava che l'Imperatore d'Oriente facesse bene a temere il suo Re.
Teodorico però era riuscito a conquistarsi l'appoggio di Zenone promettendo che, se avesse vinto, avrebbe governato in suo nome; e l'Imperatore gli aveva anche creduto.
Così, erano ormai anni che si susseguivano tra i due barbari scontri aspri e furiose battaglie sul territorio italiano. L'Imperatore d'Oriente spalleggiava abilmente una volta l'uno e una volta l'altro. E per questo motivo, Tito non riusciva a stimarlo granché.
Un paio d'anni prima, c'erano stati gli scontri feroci dell'Isonzo e di Verona, terminati con la sofferta vittoria di Teodorico sull'Adige. Durante l'estate precedente invece, Odoacre, risollevate le sorti del suo esercito, aveva affrontato l'offensiva a Cremona e Milano e Teodorico si era rintanato a Pavia. La città era stata assediata dall'esercito di Odoacre, ma essendo Pavia molto ben fortificata e ricevendo Teodorico nuove truppe provenienti dalle Alpi, il Rex Italiae Odoacre aveva deciso di ripiegare su Cremona. Teodorico non ce l'aveva fatto arrivare e, una volta raggiunto sull'Adda, l'aveva obbligato alla battaglia. In quell'occasione Odoacre aveva perso anche il comes domesticorum Pierio, comandante in capo del suo esercito e persona a cui era particolarmente legato, e ne aveva sofferto molto.
Questi scontri erano massacranti e terminavano sempre con perdite gravissime da ambo le parti. Seguivano poi lunghi periodi per raccogliere le forze e rifare il punto sulle operazioni future da svolgere, sulle nuove strategie da adottare e sulle nuove alleanze da siglare. E questo era uno di quei momenti.
Odoacre, il suo Re, si era ritrovato con truppe scarse e provate dall'ultima sconfitta subita e, non volendo fronteggiare il nemico in aperta campagna, aveva deciso di asserragliarsi nella sua capitale Ravenna, città vicina al mare e ben fortificata.
Anche Tito, il fedele messo del Re, si rendeva conto che non sarebbe stato possibile andare avanti così ancora per molto. Era per questo motivo che, il suo Re, da esperto stratega, aveva siglato un accordo con il Pontefice, con Felice III.
Insieme avrebbero rivolto una proposta all'imperatore Zenone che difficilmente sarebbe stata rifiutata al fine di ottenerne, una buona volta, l'appoggio incondizionato e per debellare, finalmente, l'odiato rivale.
Ed era proprio questa proposta
che doveva essere consegnata al più presto a Costantinopoli da Tito e da padre Ignazio.
I pensieri nei quali Tito era assorto, l'avevano un po' distratto dalla realtà della situazione oggettivamente critica che stava vivendo e avevano contribuito a infondergli coraggio nel portare a termine l'incarico che gli era stato assegnato, anche se non aveva la minima idea di cosa ci fosse scritto in quelle benedette missive.
La curiosità di sbirciare quei documenti che si portava stretti lo divorava da quando si era imbarcato.
Ma con quel sacerdote sempre tra i piedi non gli era stato possibile dare neppure un'occhiata. E poi c'erano i sigilli, non avrebbe potuto leggerli in ogni caso.
La tempesta non intendeva mollare il proprio dominio sull'esile imbarcazione. A ogni ondata la nave sembrava ricevere schiaffi e pugni senza possibilità di replica.
I cigolii e i rumori del fasciame che cedeva incrinato dalla violenza del mare si sprecavano. La nave imbarcava acqua da tutte le parti e, come se non bastasse, pare che qualcuno stesse sbraitando a squarciagola: «Uomo in mare!»
Ma che diamine si può fare? È già un miracolo se non ci troviamo
tutti quanti in acqua!
pensò Tito, alquanto scoraggiato dagli eventi avversi.
La giubba che indossava sopra la tunica pesante era di cuoio rivestita da una folta ed elegante pelliccia, come si confaceva al suo rango di diplomatico del Re. Ora la pelliccia era talmente arruffata e intrisa d'acqua che Tito sembrava un enorme gatto spelacchiato finito, suo malgrado, in una tinozza piena.
Meno male che questa, una volta laggiù, non mi servirà... Sempre che ci arrivi laggiù
rimuginò incupito.
Il rollio provocato dalle onde era fortissimo e sembrava che il fianco dell'imbarcazione, piegato una volta da una parte e una volta dall'altra, sprofondasse negli abissi senza riuscire a rialzarsi mai più. Lo scafo si ribellava alla forza del mare e la vela quadra, issata sull'albero maestro, pareva reggere vento e anima con i denti.
A Tito era capitato più volte d'incrociare lo sguardo del comandante, attonito e smarrito, evidentemente impotente in balia degli eventi. E ciò non era di conforto anzi, non andava bene per niente.
A questo punto Tito Domitio non si preoccupava più di dove fosse finito il sacerdote: poteva anche essere l'uomo in mare di cui sopra che lui non avrebbe