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Menamato: Memorie di un cane con tre zampe
Menamato: Memorie di un cane con tre zampe
Menamato: Memorie di un cane con tre zampe
Ebook165 pages2 hours

Menamato: Memorie di un cane con tre zampe

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Una “luce rossa” brilla nel petto del protagonista, che dà il nome al libro. È un semplice cane con tre zampe, che fa della sua vita un’enciclopedia di ricerca: raccoglie pezzi di carta creando un quadro contemporaneo suggestivo e allegorico, dove le acque del fiume sono pennellate madide di colore; dove la campagna, il cielo e la selva gli abitano dentro come luoghi dell’anima, ritrovati, calpestati, respirati. Ecco che l’oscurità platonica si rianima e trova riscatto vero: la cecità non albergherà più nella notte, che appiattirà i suoi veli, con rispetto, senza più offendere. E così “si andrà a cercare una genuinità visibile solo navigando lontano”, dentro il proprio abitacolo di materia, sbagliata forse, ma sincera a noi stessi.
LanguageItaliano
Release dateAug 23, 2016
ISBN9788868671587
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    Menamato - Carlo Salvoni

    6.

    CAPITOLO 1 - TESTAMENTO, QUASI UNA CONFESSIONE

    Tutti, uomini e bestie, crediamo che ci sia qualcuno al di sopra di noi. Altrimenti non potremmo neanche definirci esseri animati. Qualcosa deve pur averci animato, o lo abbiamo fatto noi stessi? Quando? Prima ancora di esistere? La vita deve pur venire da qualche parte: non può essere una semplice catena di cause inanellate tra loro, altrimenti c’è qualcosa che non quadra, come il fatto che io sia qui a pensare queste cose.

    Come si chiama questo qualcuno che ha inventato la vita, io proprio non lo so. Mi piace chiamarlo Colui che governa e controlla le cose. Mi sembra un buon nome, che non ha bisogno di tante spiegazioni: si racconta da solo. Ho incontrato tanti esseri, anche della mia specie, che affermano di non credere a niente: pensano che esista solo questa vita che ci è capitato di vivere, il resto è tenebra, un problema che non ci riguarda. Mentono! Non è possibile non credere a niente, a meno di non credere neanche a sé stessi. Dunque siamo qui e qualcosa dovremo pur fare, che ci piaccia oppure no.

    Così, Colui che governa e controlla le cose decise di darmi solo tre zampe. Mi sono ritrovato escluso dal mondo dei cosiddetti normali, che di zampe ne hanno quattro. Ma che cos’è in fin dei conti questa normalità? Chi ne ha stabilito i parametri? E soprattutto, perché dovrebbe essere un metro di giudizio? Io dico che è solo una questione di maggioranza, e la maggioranza non solo vince, ma vuole anche comandare e plasmare la realtà a sua immagine e somiglianza. Che poi faccia anche il bene di tutti, è da vedere. Così, se tutti i cani hanno quattro zampe, evviva le quattro zampe. Nel corso della mia lunga vita ho anche saputo che c’è chi li chiama quadrupedi. Già, perché non bastano i cani, anche gli altri dovevano mettercisi: cavalli, gatti, topi ed elefanti. Tutti a quattro zampe: la normalità della normalità. Qualcuno ne ha due, come gli uomini e gli uccelli, gli insetti sei, gli aracnidi otto. Ci sono anche i centopiedi e millepiedi, ma nessuno, non un solo maledettissimo essere vivente che abbia un numero dispari di zampe!

    Cucù, ci sono io! Non ho tre zampe perché ne ho persa una in un incidente, né mi ritrovo con un arto malformato o atrofizzato. Ne ho tre, punto e basta. Quale zampa mi manca? Nessuna, semplicemente ne ho tre, sono nato così, questa è la mia normalità, che piaccia o no. Capisco che qualcuno possa trovarla ripugnante, per anni l’ho odiata anch’io, ma ciò non toglie che io sia così, e l’unica cosa certa è che io esisto, eccome, anche se forse non per molto. E sono normale, anche questa è una realtà incontestabile. Molti l’hanno contestata, io stesso, in alcuni periodi, ho fatto parte di quell’ottusa moltitudine.

    Sono vecchio, sto per finire la mia lunga carriera in questo mondo, ma non posso credere che, quando tutto sarà finito e mi troverò dall’altra parte, sarò una creatura perfetta, con quattro zampe e un bel paio di alette. Le mie zampe, sempre che me le porti dietro, saranno sempre tre, solo in questo numero potrei riconoscere la mia perfezione, che poi altro non è che l’esaltazione della normalità. Con una zampa in più, non sarei io.

    Ho due zampe dietro e una davanti, problemi? Chi non mi vede, chiede: «Quale zampa hai davanti?». E io rispondo: «L’unica che ho». È una risposta semplice e perfettamente sensata. Ma allora perché nessuno la capisce? Vanno avanti: «Sì, ma la destra o la sinistra?». Che cosa c’è di sbagliato in tutti quanti? Se ho solo una zampa, non c’è né destra né sinistra, è talmente ovvio! Quale naso avete voi? Il destro?! Forse esagero. Sono vecchio, lo so, e l’età che avanza inacidisce. È difficile pensare a un cane togliendosi dalla mente l’immagine-tipo che si ha dell’essere chiamato «cane». Ma è con queste immagini-tipo che nascono pregiudizi e incomprensioni. La diversità è qualcosa che fa male, soprattutto quando è figlia della presunzione. Ma diverso non significa anormale, su questo siamo tutti d’accordo, spero.

    A molti faccio schifo, a qualcuno provoco compassione. Quando ho trovato compagni di viaggio indifferenti mi sono trovato perlopiù bene, ho assorbito la loro indifferenza e l’ho scelta come principale arma di difesa della mia intera esistenza. Sì, perché se me la fossi presa e avessi cominciato a combattere per i miei diritti, avrei in qualche modo riconosciuto che avevano ragione. Forse adesso sarei un mito, ma di chi? Dei disabili, degli storpi, dei menomati. E invece no, non sono un mito proprio perché sono perfettamente normale e i disabili, gli storpi e i menomati non esistono. Esistono solo in un mondo di presuntuosi che si guardano allo specchio e vedono una normalità che diventa la loro regola di vita. Poi decidono che su questa regola dev’essere plasmato il mondo e chi non la accetta va escluso, se non addirittura punito.

    Ma anche la normalità non esiste. Esiste una norma, questo sì, che troppo spesso non tiene conto di chi non è uniformato alla massa, additandolo.

    Adesso sono stanco, sono fuori da certi giochetti. Sono anche molto sereno, sono certo di aver fatto del mio meglio, di aver dato quello che potevo e ho avuto una buona vita. Ho incontrato molto male, molta sofferenza e tutto sommato direi che mi è andata bene. Ho vissuto con dignità, e questa è l’unica cosa che conta. Guardo indietro e, nella selva di zampe pari che abitano il mondo, ci sono io. Non valgo niente, ma sommate le mie zampe a quelle di tutti, ai miliardi di zampe normali che corrono sulla superficie terrestre, e vedrete che alla fine avrete un numero dispari. Sorprendente, no? Basta un solo, dannatissimo numero dispari sommato a un mastodontico pari per distruggerlo e piegarlo a una logica che lo condanna.

    Le mie tre zampe sono una nota stonata nella sinfonia in quattro quarti che è la vita, eppure è come se la mia nota condizionasse l’andamento dell’intera composizione. È un peso che solo da poco mi sento sul groppone e qualche volta ha rischiato di schiacciarmi, ma presto toglierò il disturbo, potrete continuare a ballare, senza che una nota in meno rischi di farvi inciampare.

    Sarò superbo, ma penso che, andandomene, sto pur lasciando qualcosa di me. Tuttavia non saprei dire a chi, se non a un ipotetico custode dei ricordi di tutti gli esseri viventi che hanno lasciato le loro tracce sulla terra.

    La mia esperienza ha una qualche importanza, anche se non ho fatto niente di grandioso. Allora a che cosa la devo? Ovviamente alla mie tre zampe. Mi sto contraddicendo? Ho appena affermato di essere normale, che la normalità dei quadrupedi è solo una pretesa, e adesso me ne esco col dire che la mia vita è importante proprio perché ho tre zampe. Allora, dov’è finita la mia normalità? È qui a portata di mano, non si è mai mossa, ma pretendere un diritto non significa per forza chiudere gli occhi di fronte all’evidenza. Gli arti dispari mi hanno recato diversi problemi, primo fra tutti sono stato meno amato di quanto avrei meritato. Perché tutti meritano amore e non è giusto che ci venga negato per una nostra particolare conformazione fisica. Il rispetto degli umani e dei miei simili mi è spesso mancato, ma il vero problema era nella mia testa. Là si è trovato bene, non voleva andarsene per nessuna ragione, anche se la vita me ne ha offerte a centinaia per cambiare atteggiamento.

    Ero io il primo a non considerarmi normale, per troppo tempo ho dato ragione a loro, a quelli che mi vedevano come uno scherzo della natura da evitare e tenere lontano dalla loro vista. Non me ne rendevo conto, ma è andata proprio così. Bisogna essere vecchi per ammetterlo. Qualche volta mi sono odiato, in altri casi mi facevo compassione, spesso ho tentato di uniformarmi a una realtà che non era la mia o di inseguire dei traguardi che non erano alla mia portata. Credersi a buon diritto normali non significa non essere onesti con sé stessi: si rischia di diventare patetici e io per un lungo periodo lo sono stato. Altre volte, al contrario, mi sono posto degli obiettivi che fossero solo miei, esclusivi, ma presto ho capito che non c’è nessuna gloria nel vincere una gara di cui si è i soli partecipanti. Insomma, o negavo il problema o mi escludevo dalla vita, creandomi una realtà tutta mia. Ho sbagliato molto, ma mi hanno anche spinto a sbagliare più di quanto avrei potuto fare da solo.

    Io e le mie tre zampe abbiamo fatto tanta strada, calpestato prati e asfalti, ma doveva arrivare il Pazzo per farmi capire che io sono normale al cento per cento e che non ho bisogno dell’approvazione di nessuno per riconoscermi tale. Non sono un fenomeno da baraccone e nemmeno un mostriciattolo, non sono un povero menomato o un esempio per i più deboli e gli emarginati. Non sono neanche solo un cane con tre zampe. Semplicemente sono un cane. Ecco, sono un cane, e questo è il mio testamento, perchè tutto ciò che ricordo di aver vissuto è tutta la mia eredità e la voglio così donare.

    CAPITOLO 2 - SARÀ ANCHE PIÙ DENSO, MA AL SANGUE PREFERISCO L’ACQUA

    Credo sia un male ricordare troppo della propria infanzia. Io ricordo quasi tutto, mi porto dietro la maledizione di una buona memoria che non mi fa dimenticare quasi niente, neanche quello che vorrei. Ho conosciuto vecchi che farebbero volentieri a cambio con me: si potrebbe scrivere un libro solo con l’elenco delle loro dimenticanze. Cucite insieme formerebbero un racconto comico impareggiabile, ma purtroppo impossibile perché, si sa, ciò che non è affidato alla memoria è perduto per sempre. Invece, basta un manoscritto nel cassetto perchè i ricordi diventino eterni, anche al di là della nostra volontà. La mia memoria è un manoscritto che si compila da solo e io non posso far finta di non saperlo leggere.

    Ricordo quattro fratelli che annaspano contro le mammelle gonfie di una madre stanca. Scalciano, si spingono per conquistarsi un posto privilegiato. E invece quel posto spetta a me. Me ne sto sempre tranquillo in un angolo, forse intuisco già qualcosa della mia mancanza di forza. L’istinto mi dice che ho qualcosa in meno degli altri e la vita in questi casi è molto chiara: il debole è destinato a scomparire. La natura è sempre dalla parte dei normali, ci pensa lei a correggere gli errori e a nascondere i refusi; peccato per la presenza di mia madre.

    Dora, dovrei adorarla, onorare ogni momento la sua memoria, costruirle un monumento per tutto quello che ha fatto per me. Invece riesco a pensare solo al male che mi ha fatto con tutta la sua protezione. È stata la prima a introdurmi nel mondo dei normali come un diverso, un debole, che necessitava di più cure e privilegi.

    Se ripenso alla mia infanzia non posso far altro che vergognarmi, ma adesso è venuto il momento di fare i conti anche con la vergogna. Sì, perchè noi siamo anche quello che eravamo, gli anni ci costruiscono un carattere che poi ci illudiamo di esserci formati da soli e invece è stato plasmato dagli eventi e da chi abbiamo incontrato sul nostro cammino. Ma la vita è quella che ci capita, le scelte, almeno all’inizio, sono poche. E di sicuro nessuno può scegliersi i genitori, così come non può decidere se venire al mondo oppure no. È per questo che tutti abbiamo almeno un debito nei confronti dei genitori, anche dei più violenti o assenti: la vita. Loro ce l’hanno data, a loro la dobbiamo. Però, e questo dovrebbero ricordarlo soprattutto loro, non l’abbiamo chiesta a nessuno. Non eravamo animette volanti in cerca di un corpo: un bel giorno ci siamo ritrovati nel mondo, e questo è tutto. Loro ci hanno voluto, oppure siamo capitati, ma volontà o no, siamo prima di tutto figli delle loro azioni, non delle nostre.

    L’istinto è quello che sta scritto dentro di noi e in molti casi ci comanda. L’istinto di una madre è di proteggere e di accudire i figli, non di preferirne uno agli altri. L’istinto di una madre è fare in modo che i propri figli siano felici, ma anche di prepararli alla vita. Quindi mia madre solo in apparenza mi voleva bene, in verità mi ha isolato dal mondo, credendo che non sarei mai stato pronto per affrontarlo da solo. Forse avrebbe preferito vedermi completamente immobile, in totale dipendenza da lei. Anche mio padre mi avrebbe voluto immobile, ma possibilmente lontano dai suoi occhi. Morto, magari.

    In un cane maschio non è inscritto niente che riguardi la cura dei figli. Se mai un po’ di spirito da guida per la prole, per recuperare quel ruolo da capo branco, che il contatto con l’uomo, in migliaia di anni, ci ha irrimediabilmente tolto. Io ero

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