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Tutto il resto vien da sé
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Ebook463 pages6 hours

Tutto il resto vien da sé

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About this ebook

Un insospettato segreto di famiglia, rivelato in punto di morte, sconvolge la vita metodica di un sacerdote. La ricerca affannosa della verità condurrà don Carlo attraverso un variegato microcosmo che riemerge dal passato e che lo aiuterà a fugare la nebbia della sua vita e a riannodare i fili perduti. Sullo sfondo la provincia fiorentina, l’invasione tedesca e la straordinaria storia di una donna che ama contro ogni speranza.
LanguageItaliano
Release dateAug 26, 2016
ISBN9788866602019
Tutto il resto vien da sé

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    Tutto il resto vien da sé - Antonella Zucchini

    Tavola dei Contenuti (TOC)

    Cover

    PREFAZIONE

    UNO

    DUE

    TRE

    QUATTRO

    CINQUE

    SEI

    SETTE

    OTTO

    NOVE

    DIECI

    UNDICI

    DODICI

    TREDICI

    QUATTORDICI

    QUINDICI

    SEDICI

    DICIASSETTE

    DICIOTTO

    DICIANNOVE

    VENTI

    VENTUNO

    VENTIDUE

    VENTITRÉ

    VENTIQUATTRO

    VENTICINQUE

    VENTISEI

    VENTISETTE

    VENTOTTO

    VENTINOVE

    TRENTA

    TRENTUNO

    TRENTADUE

    EPILOGO

    RINGRAZIAMENTI

    Un romanzo di:

    Antonella Zucchini

    Tutto il resto vien da sé

    Prefazione a cura di:

    Marco Buti

    Direttore Generale Affari economici e finanziari

    Commissione europea

    ISBN versione digitale

    978-88-6660-201-9

    TUTTO IL RESTO VIEN DA SÉ

    Autore: Antonella Zucchini

    Copyright © 2016 CIESSE Edizioni

    info@ciessedizioni.it - ciessedizioni@pec.it

    www.ciessedizioni.it – www.shop-ciessedizioni.it

    www.blog-ciessedizioni.info

    I Edizione stampata nel mese di settembre 2016

    Impostazione grafica e progetto copertina: © 2016 CIESSE Edizioni

    Foto Autrice: © by Mehran Falsafi

    Immagine di copertina: © by Vladimir Nikulin

    (diritto d’uso su autorizzazione di 123rf.com)

    Collana: Green

    Editing a cura di: Pia Barletta

    PROPRIETA’ LETTERARIA RISERVATA

    Tutti i diritti sono riservati. È vietata ogni riproduzione dell’opera, anche parziale, pertanto nessuno stralcio di questa pubblicazione potrà essere riprodotto, distribuito o trasmesso in qualsiasi forma o con qualsiasi mezzo senza che l’Editore abbia prestato preventivamente il consenso.

    Questa è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi ed eventi narrati sono il frutto della fantasia dell’autore o sono usati in maniera fittizia. Qualsiasi somiglianza con persone reali, viventi o defunte, eventi o luoghi esistenti è da ritenersi puramente casuale.

    A Loretta

    e a tutte le donne

    che non hanno paura di amare

    Ama, ama follemente, ama più che puoi

    e se ti dicono che è peccato,

    ama il tuo peccato e sarai innocente.

    William Shaskespeare

    (Romeo e Giulietta)

    L’ali apersi a un sospiro, e l’infinito

    Amor nel libro, dove tutto è scritto,

    il mio peccato cancellò col dito.

    Vincenzo Monti

    (In morte di Ugo Bassville)

    PREFAZIONE

    In bianco e nero. Così, fino a Combat Films, avevamo visto il fascismo, la guerra, la lotta di liberazione.

    Ma i nonni e i nostri genitori ce lo avevano già raccontato a colori.

    La mia mamma e le mie zie che contavano i fagioli e le bruciate: "più a me perché so’ più grande, più a me perché ho da crescere".

    I tedeschi che sfrecciavano in sidecar, pronunciato rigorosamente sidehar, e quell’americano che, oddio, non mangiava la pelle del pollo.

    Antonella Zucchini ci racconta la nostra memoria a colori.

    Le tre scansioni temporali del racconto – gli ultimi anni della guerra con l’occupazione nazista a Sesto Fiorentino, la crescita e la formazione di Carlo nel dopoguerra, Don Carlo oggi – ci rendono una longitudine collettiva e individuale dove turbinano sentimenti contrastanti ma, seppur talvolta sotto traccia, prevale la speranza. Anche nei momenti più bui.

    In un caleidoscopio di personaggi resi ancora più vivi dall’inflessione vernacolare, Antonella ci racconta una storia (vera?) bella e terribile.

    Dall’Uccellaia, donna di spigoli e miele nascosto, a Don Luigi, vero pastore di anime; da Alvaro Righi, come non amarlo, alle gemelle inaridite Lida e Leda; da Spartaco, vivo fra i morti, a Heinrich e a Don Carlo – sì, il narratore – che deve andare all’inferno (metaforicamente) per poi risorgere e perdonare. Ma su tutti si erge Loretta, eroina tragica che a tratti ricorda – solo a me, beninteso – Jane Eyre di Charlotte Brontë.

    La tela del racconto tessuta da Antonella è quella reale di Sesto Fiorentino, le sue campagne testimoni delle razzie dei tedeschi e, peggio, dei fascisti, la manifattura di Doccia, via di Palastreto.

    Sesto Fiorentino che ha pagato uno dei prezzi più cari alla lotta di liberazione. E sullo sfondo una Firenze da dove arrivano gli echi della guerra civile. Tutto il resto vien da sé si legge e si rilegge trovando sempre nuove dimensioni. Come e più che in Fiore di cappero, qui passato, presente e futuro si fondono, nel filo rosso della speranza. Per chi, come chi scrive, lavora ogni giorno per avvicinare uomini e donne d’Europa – forse anche quelli raccontati da Antonella – questa speranza è un piccolo seme che "un c’è verso, un vo’ morire".

    Marco Buti

    Direttore Generale Affari economici e finanziari,

    Commissione europea

    PROLOGO

    Don Carlo

    Le scarpe scricchiolano sulla ghiaia del vialetto mentre cammino stando attento a non infangarne le punte.

    Le ho lucidate con la cura di sempre, strofinando con vigore un velo di vernice nera fino a renderle brillanti.

    Non ho preso l’ombrello. Sono preciso, a volte maniacale, ma l’ombrello non lo prendo mai.

    Chissà perché.

    Cammino rasente ai maestosi cedri del Libano e ai cupi cipressi secolari in modo da bagnarmi il meno possibile.

    Una pioggerellina tocca terra per poi risorgere subito in forma di vapore acqueo, di nebbia leggera, di esalazione. Monte Morello s’intravede appena, stretto com’è nella morsa di pesanti nuvole scure.

    Mi dirigo spedito verso la guardiola mentre l’uomo all’interno, disturbato dai miei passi, alza la testa dal giornale, mi lancia uno sguardo da sopra gli occhiali poi, furtivo, si pulisce la bocca dalle briciole con la manica della giacca. Mi riconosce e fa un cenno, poi esce solerte e servizievole, quasi correndo e apre l’ombrello.

    «Buongiorno» dice porgendomi una mano molliccia e odorosa di pane e mortadella. «La venga, l’accompagno co’ i’ mi’ ombrello sennò la s’ammolla tutto.»

    Freno il passo impaziente cercando di adeguarmi alla sua andatura un po’ claudicante e troppo lenta per la smania che ho io.

    «Per di qua» mi dice guidandomi lungo il viale mentre un tuono rimbomba in lontananza e sembra rotolare giù dal monte.

    Poche le persone al Cimitero Maggiore di Sesto Fiorentino, in questa mattina di metà novembre.

    Due donne strette a braccetto sotto un ombrellino sbertucciato dal vento, un anziano che accelera il passo per raggiungere in fretta il cancello, un uomo che lancia occhiate inquiete verso le nuvole nere mentre si affretta a cambiare l’acqua a un vaso di fiori.

    Il guardiano e io.

    Davanti a noi si staglia la cappella giallo ocra, unica nota di colore nel grigio delle tombe antiche venate di verde borraccina. Difesa da snelli cipressi, si erge con la sua croce, simbolo del sacrificio e della vittoria di Cristo sulla morte.

    «Che stagionaccia, eh? Ci viene altro che dolori!» borbotta il guardiano che mi trotterella accanto, tanto per attaccare discorso.

    E siccome lo incoraggio soltanto con un sorrisino stitico, preferisce sorvolare. «Attento, c’è qualche pozza, la un c’infili co’ piedi. Venga, per di qua.»

    Lo seguo docile e muto. Non è da me ma sono emozionato, troppo impaziente di ricostruire la verità.

    Già, la verità.

    Conoscerete la verità e la verità vi farà liberi, dice il Signore, Vangelo di Giovanni, capitolo otto.

    Libero, sciolto finalmente dal pregiudizio, svincolato dal sospetto, forse liberato da questa morsa dolorosa che mi attanaglia il cuore e lo stomaco.

    Svoltiamo proprio davanti alla lapide della strage del Collegino. Conosco quella storia. Il filo della matassa ingarbugliata che sto tentando di districare passa anche di lì. Mi fermo un attimo davanti al cippo che ricorda il chierico Teofilo Tezze e leggo tutti i nomi dei ventitré bambini morti mentre si tenevano per mano.

    Teofilo Tezze

    dei figli di Don Orione

    di anni ventuno

    uso a seguirli come angelo

    fu ucciso con loro

    Piove sui miei capelli, sul clergyman, sulle mie scarpe lustrate con cura e ormai irrimediabilmente fangose.

    tenendo per mano

    la corona di Maria

    e il più piccolo,

    ora li guida

    per i colli eterni

    Il guardiano si accorge di non avermi più accanto e torna indietro. «Padre, ma icché la fa? Così la si bagna tutto» poi mi copre con il suo ombrello.

    Ancora la mia gola non ha fatto uscire un solo suono, una sola sillaba.

    L’uomo, con le sue gambette traballanti, ora ha accelerato il passo. Devo sembrargli piuttosto strano e forse non vede l’ora di lasciarmi di fronte alla destinazione. Svoltiamo ancora e ci dirigiamo verso l’ala nuova, costruita negli anni Settanta. Le tombe rese lucide dalla pioggia traboccano di fiori, testimonianza iridata della recente festa di tutti i defunti.

    Alle undici di quel giorno ero a celebrare la commemorazione in Duomo, lo so bene.

    Poi quella telefonata, la corsa folle al capezzale di mia madre all’ospedale di Careggi e quella notte indimenticabile che passo dopo passo mi ha portato fin qui.

    «Certo, se per trovare la persona che la cerca si dovevano guardare le tombe a una a una, ci voleva mill’anni. Questo cimitero gli è così grande! Però ha visto? Gli impiegati hanno fatto alla svelta co’ i’ computer» dice ridacchiando, e poi «ah, la modernità che gran cosa, la un crede? Ecco, i forni son di qua» aggiunge chiudendo e sgocciolando ben bene l’ombrello di fronte alla scalinata.

    «La ringrazio» mormoro mentre il cuore prende a battermi così forte che posso sentirlo martellare nelle tempie.

    Mi precede zoppicando sui gradini e io lo seguo, addentrandomi in stretti corridoi costellati da lapidi, fiori, marmi, lumini. Leggo di sfuggita gli epitaffi mentre cerco di tenere il passo.

    Lascio un mondo di dolori per un Regno di pace

    e ancora

    Affinché la sua immagine sopravviva nella memoria di quanti l’ebbero cara

    «Ci siamo quasi, padre» ansima il guardiano. «Occhio perché c’è poca luce.»

    Nessuno muore sulla terra finché vive nel cuore di chi resta

    Il guardiano si guarda intorno dubbioso. «L’aspetti, forse gli è i’ corridoio accanto. Sì, s’è sbagliato. La venga.»

    Man mano che ci avviciniamo alla parte più moderna, le iscrizioni tombali si fanno più succinte, sintetiche, quasi sbrigative.

    I tuoi cari a perenne ricordo

    Con noi per sempre

    Alcune, più recenti, riportano solo nome e cognome.

    Nato e morto.

    Punto.

    Nato il 27 febbraio 1921 a Quinto e morto il 13 aprile 1991 a Firenze.

    È questo che trovo scritto a lettere d’argento sulla lapide di Alvaro Righi e subito riconosco in quella foto dai contorni sfumati il bell’uomo che tante volte ho visto entrare a casa mia con la sua cartelletta piena di documenti. Tre rose di seta gialla e un’orchidea fresca poggiata sul marmo. C’era qualcuno, dunque, che ancora lo ricordava.

    Guardo il ritratto e immagino dita femminili, che conosco molto bene, scorrere affusolate e leggere su quegli occhi buoni, sul naso diritto fino ad arrivare alla bocca morbida dalle labbra piene.

    Sono io gli sussurra la voce della mia mente, ricordi? Sono quel bambino che capiva troppo per la sua età, e che guardavi di sfuggita prima che la porta a vetri del salotto si chiudesse implacabile sulla sua innocente curiosità. E sono ancora io quel ragazzino che anni dopo è entrato nella tua latteria, in un giorno d’estate, e con voce tremante ti ha chiesto un gelato al pistacchio. Sono Carlo. Anzi, ora don Carlo.

    «Che deve starci dimolto, padre? Che l’aspetto?»

    Mi giro infastidito e lo liquido con un’occhiata gelida.

    «Grazie, può andare.»

    «Ma dopo come la fa a tornare a i’ cancello? La guardi come s’è messo a piovere!»

    «Le ho detto che può andare.»

    Il guardiano fa una faccia come per dire bah, contento lei e trotterellando si allontana. La lauta ricompensa l’ha avuta in anticipo e ora è desideroso di tornare al suo giornale e al suo panino con la mortadella.

    Mi dispiace.

    Un sacerdote non dovrebbe mai essere sgarbato ma in questo momento sono un uomo smarrito davanti a una verità più grande di me.

    Venti minuti dopo, quando riemergo alla luce del giorno, ha smesso di piovere e si è alzato un vento freddo che viene da Colonnata.

    Rabbrividisco e tiro su il bavero del clergyman.

    La nebbia calata improvvisamente da Monte Morello avvolge il cimitero con la sua coltre azzurrina.

    Mi ci inoltro così come mi sto addentrando nella nebbia della mia vita.

    UNO

    Ernesto Boscherini rimase vedovo presto.

    La sua sposina, l’esile e pallida Argia, se l’era portata via la tisi a poco più di vent’anni.

    Delicata lo era sempre stata, come le camelie che coltivava nella corte di casa, ma aver dato alla luce una bambina l’aveva ancor di più indebolita.

    La piccola Loretta era scivolata dal suo grembo direttamente nelle mani ossute della levatrice in un freddo mattino di marzo e, mentre la tramontana calava da Monte Morello, spazzolando alberi, comignoli, panni tesi ad asciugare e tutto quel che trovava da Quinto a Colonnata, da Querceto a Settimello, passando poi per Sesto e Castello, lei – l’Argia – aveva cominciato a tossire forte.

    Nei mesi successivi, da quella tossaccia secca che non la faceva dormire né notte né giorno, era passata allo sputare boccate di sangue nei fazzoletti del corredo, pazientemente ricamati a gigliuccio, e quindi al rantolare.

    Fine della corsa al camposanto di Quinto in una sfacciata e afosa mattina di fine giugno.

    «Tre mesi, soltanto tre mesi la m’è campata dopo i’ parto!» si disperava Ernesto mentre gli uomini che lavoravano con lui alla fabbrica Ginori sfilavano muti con i cappelli in mano, dalla camera ardente alla cucina, dandogli lievi pacche di incoraggiamento sulle spalle e stropicciandosi gli occhi acquosi con le pezzole da naso.

    Parisio fu il primo a correre e a stringerlo tra le sue braccia poderose dimenticando i recenti contrasti e non portando più rancore per quel vuoto in alto a destra della sua dentatura.

    «Grazie, tu se’ un amico.» Gli pianse sulla spalla Ernesto «e io che t’ho buttato giù anche un dente!»

    Parisio lo strinse ancora di più facendogli scricchiolare le costole. «Un fa nulla. Vorrà dire che mi ricorderò sempre di te! E ora su, Boscherini, fatti coraggio!»

    Coraggio, sì l’è un discorso!

    Era da qualche tempo che non ne infilava una e «Quando le cose le cominciano a non girare pe’ il verso giusto l’è un pasticcio, ve lo dico io!» spiegava la Corallina alle vicine riunite in crocchio vicino al letto della defunta.

    E lei lo poteva dire con cognizione di causa, abitando al piano di sopra, conosceva Ernesto e la povera Argia da quando erano nati e sapeva per filo e per segno tutte le loro vicende.

    «I sua di lei un volevano mica che la si mettesse a fare all’amore con Ernesto ma lui, oh! O quella o nessuna! Seguitò a presentarsi tutte le sere che Dio metteva in terra sotto alle su’ finestre. Estate o inverno, pioggia, neve o vento.»

    «Ma senti!» si stupiva una.

    «Quello sì che gli era amore!» sospirava un’altra.

    La Corallina, al centro dell’attenzione e sentendosi dimolto superiore a quell’altre perché aveva sposato uno di Lucca, snocciolava il rosario inframmezzando le preghiere con particolari, commenti ed esclamazioni e infarciva la storia d’amore come fosse un romanzo.

    «Una sera che un faceva che nevicare, i’ babbo di lei guardò fori dalla finestra e lo vide ritto e intirizzito contro i’ muro. Bada gli disse alla moglie, c’è anche stasera. Torquato, la gli disse supplichevole la moglie. Babbo, la lo pregò la figliola. Insomma, a regola deve aver guardato la poera Argia negli occhi e gli deve aver detto O gli è un mentecatto oppure ti vole bene davvero. E siccome io un morto sulla coscienza un ce lo voglio avere, apri l’uscio e fallo entrare. Sentiamo icché gli ha da dire.»

    «Oooohhh» fecero all’unisono le vicine tutte estasiate guardando il viso di cera della defunta, tormentato dalla malattia ma finalmente ora quieto e sereno.

    «O te che c’eri pe’ sapere icché si son detti?» dubitò una.

    «No, ma me lo figuro» tagliò corto, piccata, la Corallina.

    Un vagito oltrepassò la tenda tirata in cucina dove tenevano la culla.

    «Oddio, la bambina la piange!» e subito si alzò lasciando le comari assorte in dubbiosi pensieri.

    «E ora come farà Ernesto con la piccina?» azzardò una.

    «Poero angiolo, l’è appena nata e l’ha di già i’ destino segnato!» sentenziò la seconda.

    «Senza mamma, c’è da sapere un po’ che vita la farà!» giudicò la terza.

    La Bertilla, che era la più anziana e che in quanto a saggezza dava dei punti a parecchie, le chetò.

    «Icché vu ne volete sapere voi, chiacchierone!» sibilò innaffiandole di fastidiosi spruzzi. «C’è i’ caso che questa creatura l’abbia una vita migliore delle vostre. Che c’è bisogno di fare questi discorsi proprio ora? La poera Argia ancora la unn’è diaccia e vu siete bell’e lì a sputare sentenze e a gufare. Vergognatevi, ciabattone!»

    Il silenzio scese nella camera mortuaria ma solo per poco. La Corallina riapparve con un fagottino bianco in braccio, la Loretta, che strillava a più non posso.

    «T’hai fame bellina, eh?» le diceva strofinando il suo naso torto a quello piccolo e perfetto della bambina «Ora, ora, quando arriva la Natala a darti i’ latte!» e poi alle donne «meno male che gli hanno trovato una balia sennò, vu m’avevi a dire voi!»

    La Natala arrivò con le sue belle poppe gonfie di latte nello stesso preciso istante in cui entrò il prete e, mentre la sfortunata madre veniva scortata da una processione mesta e silenziosa verso l’ultimo viaggio, la figlia schioccava lunghi sorsi di latte agitando contenta le manine, tutta proiettata verso la sua nuova vita.

    «Forza, fatti coraggio Boscherini» gli dicevano gli uomini della Ginori, stringendogli la mano. «Son brutti momenti ma tu vedrai, la un potrà essere sempre così nera, per Dio!»

    E gli consegnarono un barattolo con i pochi spiccioli che avevano raccolto. Era poco, è vero, ma meglio di nulla.

    Anche Vinicio Racanelli era venuto ma senza entrare in chiesa, suscitando con la sua camicia nera un brusìo imbarazzato tra i presenti, subito zittiti dalla sua occhiata tagliente.

    «Se t’hai bisogno, tu sai dove trovarmi» gli mormorò all’orecchio.

    Ernesto lo guardò fra le lacrime non riconoscendo più in lui il compagno con cui aveva condiviso il posto di lavoro in fabbrica, le manifestazioni di sciopero fianco a fianco e le molteplici bevute per dimenticare delusioni e disgrazie.

    «Eh già, le disgrazie le un vengono mai da sole.»

    Nel millenovecentoventidue, solo due anni prima, c’era stato il fallimento dello sciopero dei ceramisti che aveva visto in prima linea gli operai della Manifattura di Doccia, ora rinominata Richard Ginori.

    Sì perché, una venticinquina d’anni prima, la facoltosa famiglia Ginori aveva ceduto la maggior parte delle azioni dell’omonima azienda alla Società Richard pur conservando proprietà agricole e immobiliari di tutto rispetto sparse per il territorio. Comunque, che si chiamasse Ginori o Richard o tutt’e due, non è che gli operai stessero un granché bene, a dirla tutta. Questi ultimi, infatti, rivendicavano salari più adeguati e condizioni lavorative migliori per cui, per la prima volta, sia gli uomini che le donne avevano attaccato le casacche al chiodo e incrociato le braccia.

    Per la verità, a Ernesto giravano dimolto le tasche perché il mese gli avrebbe fatto parecchio comodo ora che finalmente era in procinto di portare all’altare la sua Argia. Ma onesto e leale com’era, non se l’era sentita di tradire i suoi compagni e tutte le mattine era il primo ugualmente ad arrivare ai cancelli della fabbrica dove l’amico Vinicio, il più fogato e battagliero di tutti, arringava i compagni.

    «Il lavoro gli è sacro, i’ lavoro gli è pane! Siate pazienti, i soldi che vu perdete oggi, ce li dovranno rendere domani e con gli interessi!»

    «Sììììì!» gridavano tutti.

    Il babbo dell’Argia ora tuonava, stizzito, «l’avevo detto io! Gli è un buono a nulla, uno che perde tempo a manifestare davanti ai cancelli. O che s’è mai sentito dire che bisogna fare sciopero?»

    L’Argia tentava di calmarlo poi correva anche lei alla piazzetta per sentire da Ernesto le ultime notizie.

    Arrivava ansimante, con la gola secca e con la milza che le doleva per lo sforzo, ma subito si buttava tra le braccia di lui e si sentiva meglio.

    «Allora?» chiedeva mentre Ernesto le stampava un bacio sui capelli.

    «Nulla, nemmeno un cenno dalla fabbrica. Ma tu vedrai la faccenda la cambierà, qualcosa dovranno pur dire, per Dio! E ora vieni con me, andiamo a sentire icché dice Vinicio.»

    La prendeva per mano e la trascinava in mezzo a quella folla arrabbiata e delusa, facendosi largo a spinte e spallate.

    Le braccia incrociate avevano resistito per una settimana, poi per quindici giorni, quindi per un mese, tra lo sconforto delle donne e degli uomini che non sapevano più come sfamare le numerose bocche che li attendevano a casa. E intanto, mentre tutte le organizzazioni sindacali erano impegnate, chi più chi meno nel far fronte allo sciopero, nei locali della sezione ex Combattenti, zitti zitti si costituiva il Fascio di Combattimento di Sesto.

    Dopo sessanta giorni finalmente un cenno.

    L’azienda, con una bella lettera, aveva invitato gentilmente i lavoratori a riprendere all’istante il posto di lavoro pena, sempre gentilmente, l’immediato licenziamento.

    «Poerini, e ora?»

    «Icché si fa?»

    Di fronte a questo ultimatum, al sindacato dei ceramisti non era restato che invitare i lavoratori ad accettare tutte le condizioni della Direzione e a cessare le agitazioni.

    «Bravi! Bravi davvero a i’ sindacato!»

    «Ragazzi, io c’ho tre figlioli piccini, se perdo i’ lavoro so’ di’ gatto!»

    «O io? So’ bell’e in arretrato con la pigione. C’ho tutte le sere i’ padron di casa all’uscio, che Dio lo strafulmini!»

    «Vinicio, te icché tu dici di fare?»

    Il giovane aveva scosso mestamente la testa e, insieme agli altri, quella sera aveva affogato la delusione in una solenne ubriacatura.

    Era toccato a Ernesto riportarlo tutt’una bracciata a casa dalla madre vedova mentre l’amico piangeva come una vite tagliata e ripeteva: «L’è tutto finito, l’è tutto finito!»

    «Questo figliolo io un lo so icché gli ha in corpo» si disperava la vecchia mentre lo svestivano. «Gli è sempre in mezzo alla confusione. Pensasse invece di trovare una brava ragazza come t’hai fatto te, piuttosto!»

    L’avevano messo a letto poi Ernesto, tornando a casa, si era fermato di nuovo dal vinaino e aveva completato la sua sbornia da solo.

    Dopo la bellezza di ben settanta giorni di sciopero, i lavoratori sestesi si erano dovuti rimettere i panni da lavoro, zitti e via andare, come se niente fosse successo e con due mesi di paga in meno. Nel frattempo, lo sparuto gruppo del Fascio di Sesto gongolava nell’ombra e non aspettava altro.

    Alcuni di questi affezionati, dipendenti della Ginori, visto il momento di sbandamento favorevole, avevano iniziato subito l’attività di propaganda con il plauso e l’appoggio degli squadristi fiorentini.

    Ernesto in quei giorni era stato occupato a rimettere il quartierino – tre stanze e la latrina nella corte consistente in una buca alla turca e un secchio d’acqua – in via di Palastreto a Quinto Alto, per portarci la sua bella Argia e non aveva prestato molta attenzione a quello che bisbigliavano i compagni a proposito di Vinicio.

    Parisio, un giovanottone rosso di pelo e con due bracci gonfi di muscoli, lo aveva fermato alla fine del turno mentre stava tornando a casa con la gamella sottobraccio.

    «Vinicio gli è passato dall’altra parte della barricata» gli aveva soffiato affiancandolo.

    «Sie, un ci credo.»

    «Dice va a disfare le sedi dei partiti antifascisti.»

    «Impossibile.»

    «E a bastonare quelli che frequentano le case di’ popolo!»

    Il cazzotto, partito spontaneo, aveva fatto saltare all’istante un dente all’amico che ora, rialzandosi, lo guardava sbalordito.

    «O imbecille!» gli aveva gridato sputando sangue e tenendosi la guancia offesa. «Che versi sarebbero codesti?» e gli si era buttato addosso, forte dei suoi muscoli, pestandolo di santa ragione.

    Lo aveva lasciato dolorante e tramortito in via di Castello, ma più delle botte a Ernesto avevano fatto male le ultime parole di Parisio.

    «Vinicio s’è messo co’ fascisti. T’eri l’unico a non averlo ancora capito, imbecille!» poi si era allontanato sputando sangue e smadonnando.

    Due giorni dopo lui e l’Argia erano davanti al prete.

    Lei con un vestitino semplice di seta cruda, lui con un occhio pesto e il naso rotto.

    «L’avevo detto io che unn’era adatto a lei» aveva sibilato il padre alla moglie mentre questa, sospirando, gli poggiava una mano sul braccio per farlo calmare.

    «Sta’ bonino, Torquato.»

    «Se la fa patire, glielo fo io nero quell’altr’occhio!»

    Ma lui, l’Argia, l’aveva sempre fatta stare bene.

    Aveva messo il capo a posto, tutte le mattine andava in fabbrica e tutti i mesi portava la busta.

    Certo, dovevano fare a miccino perché campavano unicamente con il suo salario. L’Argia era troppo delicata e aveva dovuto anche abbandonare il lavoro di cucito perché le facevano sempre male gli occhi. Nella corte coltivava le camelie, teneva linda la casa e la sera, al suo rientro, lo accoglieva con il sorriso luminoso di cui si era innamorato.

    A lui bastava.

    Quello che gli rodeva invece era aver dovuto dar ragione a Parisio.

     Incrociava Vinicio in fabbrica ma non lavoravano più fianco a fianco. L’amico era passato impiegato e puntava diritto a diventare un componente del Direttorio del Fascio. Era diventato sfuggente nei suoi confronti e, quando i loro sguardi si incrociavano, Ernesto ci leggeva un che di imbarazzo e di vergogna. Solo per un attimo però, perché poi Vinicio tornava battagliero e sfrontato com’era sempre stato.

    Peccato però che ora stesse dall’altra parte.

    Ernesto, dopo averci sofferto un po’, aveva preso oramai un’altra strada. Quella di un onesto lavoratore, di un buon marito e, da pochi mesi, quella del buon padre di famiglia.

    Già, la Loretta piccinina!

    Come avrebbe fatto da solo con la bambina?

    Quella sera, senza la sua sposa, il letto gli parve una piazza d’arme. Non c’erano più né quel suo corpo caldo né quei piedi freddi marmati che lei gli poggiava sulla pancia ridendo per farlo sobbalzare.

    Anche l’assenza di quei singulti di tosse che nelle ultime settimane avevano rovinato più volte il suo sonno gli sembrò insopportabile.

    E quella notte pianse, pianse come un bambino.

    DUE

    Carlo

    Ho appena sparpagliato i mattoncini di lego sul tavolo della cucina, che il campanello d’ingresso squilla annunciando una visita.

    La mamma, con una voce un po’ strana, mi passa accanto.

    «Carlo rimetti a posto, c’è gente!»

    Poi, mentre si toglie il grembiule, bussa piano alla porta del bagno e bisbiglia, «Nedo, gli è arrivato. Sbrigati!»

    Uno scroscio dallo sciacquone e il babbo si affaccia.

    «Sta’ tranquilla» dice, ma sembra nervoso.

    Un’ultima ravviata ai capelli davanti allo specchio dell’ingresso, una lisciatina ai baffetti e va ad aprire.

    Non bado molto al visitatore del quale mi giunge dall’andito solo la voce bassa e profonda, tutto intento come sono a montare un variopinto aeroplano.

    Un occhio alle istruzioni, un altro ai mattoncini, mi sto sforzando di mettere insieme questo complicato modellino. A dire la verità non sono molto portato per queste attività manuali, come le chiama il babbo.

    Quando è brutto tempo e non posso uscire con gli amici di Castello, preferisco un libro di avventure, adesso mi hanno regalato Senza famiglia di uno scrittore francese, lo sto leggendo e mi piace.

    Alle volte mi succede di immedesimarmi in Remi, il protagonista, un bambino che è stato adottato e gira in lungo e in largo la Francia per ritrovare la sua vera mamma. Allora poggio il libro e corro a schiacciare il naso contro la finestra.

    Dentro di me s’insinua una sorta d’inquietudine, la sottile paura di abitare con degli estranei mentre magari la mia vera famiglia è chissà dove, in qualche posto là fuori nel mondo. Ma poi mi basta guardare il viso della mamma per ritrovare, pari pari, i miei lineamenti: gli occhi grandi e scuri, le sopracciglia ben disegnate, la bocca imbronciata ma sempre pronta a distendersi in un sorriso.

    Quando non posso uscire, mi piace anche portarmi avanti con i compiti di scuola – la maestra dice che sono bravo – e ancor di più indovinare le risposte ai quesiti che pone Febo Conti in ‘Chissà chi lo sa?’, la mia trasmissione preferita.

    Il babbo non ci crede ma le indovino quasi tutte.

    La mamma a volte si mette a rammendare su una seggiola, accanto a me. Faccio finta di nulla ma di sottecchi la osservo e vedo che mi guarda orgogliosa anche se rimane zitta.

    Mi manca un fratello, questo sì.

    Qualcuno con cui giocare agli indiani, con cui arrotolare zufoli di carta da infilare nelle cerbottane per soffiarli con forza sulle teste dei passanti attraverso la finestra aperta e poi correre a nascondersi. Qualcuno con cui fare a botte per spartirsi un soldatino oppure con cui ridere per una sciocchezza qualunque, fino a farsi dolere lo stomaco.

    Una sorella no, non la vorrei. Già mi bastano le cugine di Firenze che quando vengono a trovarmi, infiocchettate e petulanti, entrano in camera mia e fanno da padrone.

    Invece sono figlio unico e, per passare il tempo in casa, devo arrangiarmi da me. Come adesso che questo benedetto pezzettino di lego fatto a croce, accident’a lui, non so dove montarlo.

    Mentre il babbo sta introducendo l’ospite in salotto, la mamma è venuta in cucina e con la mano, in un sol colpo, spazza via tutti i mattoncini facendoli cadere nel loro barattolo.

    «No, mamma!» protesto, «mi mancava solo un pezzo per completare l’ala!»

    È nervosa e si passa un dito sul labbro superiore, leggermente imperlato di stille di sudore.

    «Puoi continuare a giocare in camera tua.»

    «Ma in camera c’è freddo! Io voglio giocare qui» e indico la cucina piccola e confortevole, satura dei vapori delle pietanze che ha appena cucinato per stasera.

    «Se ti fa freddo, mettiti un altro maglione» e poi, dolcemente risoluta com’è sempre lei, «su, non insistere, Carlo. Prendi le costruzioni e vai di là.»

    Guardo indeciso il barattolo del lego che mi ha messo in mano e non accenno a muovermi.

    «Loretta, che vuoi venire di qua pe’ piacere?» la chiama il babbo.

    «Eccomi» risponde docile, poi mi fa una carezza sui capelli e scompare dietro la porta a vetri.

    Dalla smerigliatura sagomata intravedo i contorni dei tre che si muovono come al rallentatore intorno al tavolo ovale di mogano, sempre lustro e odoroso di cera d’api.

    Lo sconosciuto estrae alcuni documenti dalla cartelletta e i miei genitori li esaminano bisbigliando. Ora sì che la cosa si fa interessante in questo tedioso pomeriggio invernale.

    Lascio perdere il lego e in punta di piedi mi avvicino alla porta, l’orecchio incollato al vetro. Non riesco a sentire un piffero nulla, però. Perché mai parlano così piano?

    Allora al vetro ci incollo gli occhi.

    La smerigliatura mi rimanda immagini distorte ma posso lo stesso osservare il visitatore, alto e massiccio chiuso in un vestito grigio chiaro di buon taglio, la sua fronte alta appena appena corrucciata nell’esaminare le carte, la mascella virile leggermente contratta.

    La sua figura sovrasta e un po’ sminuisce quella del babbo, la sua casalinga camicia a quadri di flanella, il gilet slargato che da qualche tempo sembra tirargli un po’ sulla pancia. Un dubbio mi attraversa, improvviso. E se quello fosse il mio vero babbo che sto per ritrovare, proprio come succede a Remi?

    Aguzzo lo sguardo contro il vetro. La mamma è seduta composta, una mano poggiata sul tavolo, l’altra a reggersi la guancia con quelle sue dita affusolate.

    Lo sconosciuto le pone delle domande e lei risponde a monosillabi, guardando a tratti il babbo come a cercare conferma, timorosa di sbagliare.

    La mia testa scende piano verso la maniglia e incollo l’occhio destro al buco della serratura. L’uomo in grigio scartabella i documenti, seguito dallo sguardo vigile del babbo.

    Improvvisamente la mamma apre di scatto la porta, parandosi davanti a me e guardandomi severa.

    «Carlo, t’avevo detto di andare in camera tua!»

    «Ma icché vu fate lì dentro?» le chiedo piegando la testa e allungandomi per sbirciare oltre la sua figura.

    «Robe da grandi, non ti deve interessare.»

    D’un tratto ho come una folgorazione.

    Le faccio cenno di chinarsi e le soffio nell’orecchio. «Ma è uno che vende enciclopedie?»

    Lei accenna appena un sorriso. «Sì bravo, proprio. L’è uno che vende enciclopedie.»

    Di là tuona la voce spazientita del babbo: «Carlo, allora?» e poi subito, allo sconosciuto, «icché la ci vole fare, gli è un bambino.»

    La mamma richiude la porta mentre scandisce sottovoce. «Ora fila, vai!»

    Chissà come mi è venuta in mente la storia delle enciclopedie. Forse perché dopo i volumi di Conoscere e di Vita meravigliosa che troneggiano nella libreria, desidero leggerne altri, inspiegabilmente avido di saperne sempre di più su tutte le cose. Chissà, forse sarà il regalo per le feste natalizie ormai imminenti. Chissà.

    Pago della spiegazione che io stesso mi sono dato,

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