Il nibbio. Ovvero, i miei primi pensieri a Tannersville
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Il nibbio. Ovvero, i miei primi pensieri a Tannersville - Francesco Testa
(L’autore)
IN RICORDO DI UNA AMICA SCOMPARSA
New York, 1978
Mi lasci tristi nostalgie di sguardi
che non sanno più attraversare
nel silenzio vellutato dell’alba
il lento fruire della vita mia, sai…
ho catturato la voce del vento prima del tuo dormire.
Osservo curioso il cielo e un fragile aquilone
s’infila in una nuvola balzana… credo sia tu.
Raccontami un peccato senza luci accese
che con fermezza s’avvicina all’incredulo,
seppur innocente masso, come
vascello scosso dal mare!
Appieno i gemiti fendono l’aria fino a me,
su ti prego parlami se puoi.
Rimasi a guardar così la via verso il dormir
del sole di un peccato mai confessato
appena il soffio mio si spense come misera
fiammella tra due dita.
Il buio e il deforme ferro frena
la corsa più pazza nello sgomento
e pur ferale abisso. Ahimé!
Mi manca il fiato e chiusi gli occhi.
Perché? Or sono una bimba addormentata,
lieve nel pensar al laccio abbandonato
e greve nel pensar ai figli miei soli
in un mondo infame per non sentir la pena
di coloro che di penna si spassano
a fecondar la morte con fucina d’inganni, già!
Lontana, ti sento legata alle mie dita
dall’invisibile filo di quell’aquilone
come i pensieri che non sei riuscita a dirmi;
m’acquieto a uno strattone che mi spezza il cuore,
e và serena nel respirar libera lassù.
LAGGIU’ DA QUALCHE PARTE
Hunter, 1978
Da qualche parte geme un’ombra scapigliata
come opacità senza un futuro, nella sera
ch’avanza pigra, tra realtà e un sogno cercato.
Osservo lacrime che scendon silenziose
senza alcun compenso negli occhi secchi
ahimé di nuovo avvinti tra rimpianti mai ripagati.
S’intravvedono notizie, s’ascoltano parole
mai chiare e senza un perché nei brusii delle sere
che al cor non attenuano i sospetti nel moltiplicar
a dismisura l’idea mia.
Laggiù la cupa anima digrigna nell’affannata
sua presenza tra pietre senza nome
fino a diniegar l’essenza sua quando
campanelli di lebbrosi l’attendono.
E’ trauma nel saggello di flaccide ombre
che s’accalcano senza sosta tra loro
mentre il bianco, posto lì a giudicare
l’ozio e l’inerzia debosciata non condanna
anzi glissa tra lo spengnersi delle stelle.
La storia riposa tra ghiacciate urla di sofferenza
nel tramar mutismo millenario poiché nessun sangue
si coagulerà per la voluta infamia che l’uomo perpetra
ogni giorno a svago suo.
Ahimé, questa è la mia terra amata e il nuovo
che avanza non cammina giammai a piedi
se non per mendicar i suoi perdoni e spenti
sogni sul sagrato.
L’esser suo è stolto e senza un avvenire
quando invano s’allontana dalla sete del dio denaro
mentre l’infame coscienza si lascia attraversare
nel divenire lento e lo tortura giorno e notte
nella comune menzogna.
Un giorno sarò anch’io laggiù, solo e disperato,
alla ricerca di un breve spazio per morir
come erba fugace che germoglia e secca a sera
dipanando le tetre ombre dei rimorsi.
OLTRE LA SAPIENZA, OVVERO UN DOLCE CONFINE
Firenze, 1980
A chi devo esser grato.
Canne genuflesse al vento
a perdono d’essersi innalzate
nell’etere con superbia così
una lupa si rintana silenziosa
a notte per peccati mai detti.
E’ il sapere di un mondo che
la civiltà più non conosce;
a tanti perduto per sempre.
Solo il canuto contadino comprende
il diario naturale ed insegna con
le nodose mani a falciar il grano
mentre l’acqua argentata é sua
testimone e sposa.
Triste ristagno della fatica.
Silente essa in ogni dove
partorisce nuova sapienza come
giovin frutto.
A chi devo esser grato.
Una chiara vision del silenzio
nella mente nasce.
Figlio di menti lontane accoglie
onde frustate con estremo vigore
e comprende le afone sillabe
di un vecchio fauno nel suonar
un graduato arpeggio.
A chi devo esser grato.
E’ un dolce confine il nostro,
oltre il saper dei banchi c’è
l’immortale che descrive appieno
l’alito di un tramonto ed illumina
i mendicanti a sera.
Le nausee dell’intelletto svaniscono
all’istante, non tutto é perso.
Ucciderò la mia sete del superfluo,
venatura silenziosa e beffarda,
per approdar alla sapienza, casta,
dove cortigiani dello scibile
si dissolvono davanti a fredde
inferriate.
A chi devo esser grato.
Stringo allor un tenue fogliame
all’imbocco di un ombrato viale
e con esso accarezzo parole disperse,
rinate al buio dall’eternità ma
lontane da lustrini e falsi onori.
Le mani avide non si congiungon con
le mie.
Il dolce confine é per chi
lo cerca; c’è ancora una ragione per
viver il versante meno impervio,
essere, mentre il silenzio si riempie di voci
incomincio a scrivere l’attesa.
A chi devo esser grato.
Alla trascendenza.
Poesia, in parte, inserita nel romanzo ‘Il re Perduto
Poesia 1^ classificata al Premio Internazionale S.Maria della Luce
, 2009
La particolarità principale della poesia di Francesco Testa ’Oltre la sapienza, ovvero un dolce confine’, è la purezza del lessico quale manifestazione di una ricchezza d’animo che nasce proprio in chi sa osservare la grandezza dell’esistenza con un cuore limpido.
Nei versi, intrisi di un’appropriata simbologia, c’è il significato più profondo di un animo che non si arrende e volge lo sguardo oltre il confine dell’apparenza.
I versi si forgiano tra un lessico ricercato e aulico e la forza catartica che ne rafforza il messaggio poetica di Testa, che in punta di penna narra ed esprime un messaggio di forte valore umano, perché sentimenti ed emozioni si intrecciano con naturalezza