Futuro Bruciato
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About this ebook
Fantacronache di un futuro imminente dove è lecito l'assassinio dei genitori, si gestisce la cosa pubblica come un gioco di ruolo, la carne è materia prima dell'industria militare, l'uomo è incapace di guardare alle stelle e ammutolisce nell'oscurità di un degrado linguistico. Sei racconti di fantascienza sociologica premiati a concorsi di prestigio (Robot e Stella Doppia) raccolti in un'antologia con commento dell'autore.
Alessandro Forlani insegna sceneggiatura all'Accademia di Belle Arti di Macerata e Scuola Comics Pescara. Premio Urania 2011 con il romanzo "I senza tempo", vincitore e finalista di altri premi di narrativa di genere (Circo Massimo 2011, Kipple 2012, Robot e Stella Doppia 2013) pubblica racconti e romanzi fantasy, dell'orrore e di fantascienza ("Tristano"; "Qui si va a vapore o si muore"; "All'Inferno, Savoia!") e partecipa a diverse antologie ("Orco Nero"; "Cerchio Capovolto"; "Ucronie Impure"; "Deinos"; "Kataris"; "Idropunk"; "L'Ennesimo Libro di Fantascienza"; "50 Sfumature di Sci-fi"). Vincitore del Premio Stella Doppia Urania/Fantascienza.com 2013.
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Book preview
Futuro Bruciato - Alessandro Forlani
9788865308240
Advance Dungeons & Rome
Nei periodi di scontento politico ed economico, l'uomo della strada abbaia con gli amici, al bar, che se ci avessero messolui, nel tal posto o talaltro, righeremmo diritto. Per me, lo ammetto candidamente, se mi affidassero un ministero, un comune, fosse pure un assessorato, non saprei raccapezzarci. E mi diverte immaginare quale pubblica amministrazione, noi nerd cresciuti coi cine-trash e il roleplay, saremmo in grado di condurre virtuosamente. Professiamo la morale dei Jedi, il rigore dei Vulcaniani, l'insospettabile coraggio e la tenacia degli Hobbit: ma temo lo stesso che nelle tenebre dei dicasteri non avremmo speranza. Anzi mi preoccupa che un giocatore di Magic
, o un accanito nottambulo di WoW
, abbia accesso a risorse quali quelle di uno Stato: se sapete quanto costano certi hobby, quanto causino dipendenza, e a quanti e quali affetti ed incombenze li antepongano gli appassionati (sì: scommetterei persino il bene di un Paese…), è un ipotesi spaventosa. Eppure padri e figli si succedono, e ormai da qualche anno i miei coetanei roleplayer, cosplayer, wargamers, geek, powerplayer, ogni genere di sfigati
, aggiungeteci il vostro vizio a piacere, siedono in Parlamento e nei posti di comando. E che cosa ci garantisce che noialtri begli spiriti, soltanto perché nutriti di pane & Tolkien, siamo meglio di… loro
, dei corrotti e della casta
?
Questo racconto si è classificato in finale al Premio Robot 2013.
Non è cambiato un cazzo da allora. Stava sempre con la stessa fidanzata, continuava a vedere Aldo, continuava a vivere con mamma, continuava a far finta di studiare, continuava. Un groppo grande come un polipo gli si avvinghiò alla gola. Quando cambia?
Niccolò Ammaniti e Luisa Brancaccio, Seratina
La sbarbina di turno alla reception del piano terra gli annunciava al citofono che era arrivato Baietta, il tono velenoso sottintendeva quel frocio.
Denis Canavese acconsentì che salisse: ascoltava, smanioso in poltrona, il mugghio del saliscendi e delle porte dell’ascensore, i passi nel corridoio, gli impiegati che incrociavano lo stagista, che ruffiani lo salutavano – buongiorno, dottore –. E un tonfo sullo zerbino. E il bussare alla porta sulla targa di plexiglas.
Canavese si drizzò sulla consolle del mac nella sua miglior postura da dirigente della Regione: draghi di Elmore e dei fratelli Ildembrant si alternavano nello screensaver a cascate di dadi a venti facce. Lui riportò il desktop, con un colpetto sul mouse, all’elenco di grigi file d’ufficio per quell’anno amministrativo 2022.
– Avanti.
Lo stagista spinse dentro lo scatolone, chiuse l’uscio con un colpo d’anca.
– L’ho trovato, assessore – squittiva esultante.
Canavese riconobbe sull’imballaggio i timbri scoloriti degli archivi Cecchi Gori Intercapital, schizzò in piedi entusiasta, rovesciò la poltrona, saltò dall’altro lato del tavolo. Affondava il tagliacarte nelle fessure del pacco, lacerava lo scotch. L’altro raccoglieva la cartastraccia, la plastica e il polistirolo che si spargevano sul tappeto dalla scatola fatta a pezzi.
L’assessore sgombrò il piano dalle scartoffie, stese con cura quella giubba di borchie, di cuoio; quell’enorme, grossolano spadone. Affondò le narici nella pelliccia infeltrita, esalava di naftalina; scorse con il pollice la lama senza filo.
– È quello giusto? – si angosciava Baietta.
Canavese rimirava soddisfatto, raggiante, quel costume e quell’arma che inseguiva da trent’anni, scarti di attrezzeria che conosceva a memoria: così come le scene e le battute del film per il quale erano stati utilizzati, fulgido capolavoro degli anni ’80 dello scorso secolo: Attila flagello di Dio; regia di Castellano e Pipolo, protagonista l’inarrivabile Abatantuono.
Non trattenne le lacrime.
Lo stagista gli offrì i kleenex profumati di borotalco, Kitty e Duffy Duck gli sorridevano dal pacchetto:
– Assessore, si sente male?
Canavese soffiò, spazzolò col fazzoletto di carta il moccolo e il pianto dal blazer fumodilondra. Si affacciava a braccia conserte con gravità alla vetriata dell’ufficio sull’autunno romano.
Edifici discontinui fascisti e umbertini, sull’altro lato di viale Calderini, sfocavano nello spurgo del traffico ininterrotto: e specchiavano nei vetri sudici delle finestre le insegne annerite del Consiglio Regione Lazio, gli sbadigli d’impiegati e dirigenti ai piani e la sua faccia imporporata di commozione:
– Non puoi capire, tu: non puoi capire, Baietta, cosa significhi quel film per la mia generazione – e su mia si accalorava d’orgoglio. Nell’intimo una voce lo spernacchiava che forse, forse, non lo capiva neppure lui: o che peggio il pistolotto che salmodiava, ripetuto tante volte a se stesso e ad altrui, come il film e tutti i cult dei suoi vent’anni non esprimeva un bel nulla. E si ostinava a persuadersi del contrario per salire di un gradino culturale, morale: quanto bastava, cinquantenne arrivato, a pisciare sulla testa ai più giovani in basso. – Se scelsi da ragazzo di giocare Barbaro, se lo gioco tuttora, è stato per Attila: Perché seguite me? Perché tu si lu re!
Fantastico, ti rendi conto?
Baietta annuiva, restava in silenzio. Una stolta indifferenza gli appannava le lenti: 'sti occhialini di celluloide da checca, sprezzò dentro di sé Canavese, tipici di voi finocchi cresciuti con l’X.Box. Che non è mica il gioco di ruolo dal vivo.
L’assessore ripose i due cimeli, nascose la scatola fra l’archivio e la parete nell’angolo con il tricolore e la bandiera dell’Unione Europea.
– Quanto ci è costato?
Baietta cavò di tasca una busta che tracimava di ricevute e scontrini, biglietti ferroviari, bollettini postali: – queste – arrossì – sarebbero le mie spese, se… –; Canavese le spazzò come si scaccia una mosca. Lo stagista gli porse un altro plico: poco più di un cartoncino da visita sigillato in un involucro crema.
La busta era intesta a un dirigente Rai Cinema in odore di Ministero alle prossime elezioni.
L’assessore scorse zitto le poche righe, le affidò allo stagista, quello sbiancò.
– Cambiamo qualche termine – deglutì Canavese – e mettiamo a bilancio. Te ne occupi tu?
* * *
Gianluca Cordella riconobbe il Ducato dal busto di Mussolini che ciondolava dallo specchietto: imprecò con i custodi che si sbrigassero ad aprire prima che il clacson, quello sgasare alle tre di notte, svegliassero tutta via Nomentana. Il furgone attraversava i cancelli, rallentava presso l’ingresso del policlinico. L’uomo alla guida si sporgeva dall’abitacolo:
– Buonanotte, professore.
Cordella lo accoglieva spalleggiato dagli infermieri nell’alone di luce verde sotto la croce di neon.
– Fai casino, Catani; muoviti, la strada la sai.
Il furgone si fermò sotto il cartello obitorio, l’autista smontò. Sganciò dal cinturone, fra il nunchaku e la scacciacani, il mazzo di chiavi elettriche del vano carico blindato.
I portelli si spalancarono con uno schiocco meccanico, un tanfo di sudore spazzò l’atrio obituario.
Saltò fuori un ragazzino pallido, in anfibi e mimetica, i Ray Ban inforcati dentro il casco da motociclista. Imbracciava un obsoleto elettroshotgun, sul calcio un adesivo della Decima M.A.S.
Cordella puntò una torcia elettrica nel container: diciotto disgraziati, pesti e storditi, giacevano ammanettati nell’orina e nel sangue.
– Stanotte è andata bene, ne abbiamo di tutti i tipi – notificava Catani scorrendo un i.pad – sei negri, un albanese, tre gialli, tre zingari, cinque filippini o peruviani che siano.
Gli infermieri s’infilavano i guanti in lattice, le cuffie sui capelli, le mascherine sui visi. Entravano nel furgonato. Esaminavano le iridi, i denti e le gengive di quelli che il chirurgo sciabolava con la pila.
La testa di uno slavo era ridotta a poltiglia.
– E di questo che me ne faccio? – si spiacque Cordella.
– Non smetteva di piagnucolare – sputava il ragazzino.
– Bravo stronzo – ringhiò Catani – sono soldi che abbiamo perso.
– Bisogna accontentarsi – Cordella smorzò la torcia. Gli infermieri scaricarono i prigionieri, gli sdraiarono privi di sensi su lettighe a rotelle – tranne il morto li prendo tutti. Quant’è?
– I negri sono insieme cinque quintali, i cagariso quattro e mezzo, cinque; gli altri sei quintali sommati: ai soliti ventun’euro il chilo – mostrava la calcolatrice – sarebbero trentaduemilacinquecentocinquanta. Lo zingaro lo butto a Tevere e siamo a posto con trentamila.
– Non appena avrò ricevuto i finanziamenti – il chirurgo cordiale gli batteva sulle spalle, lo accompagnava, sottobraccio al ragazzo, sull’abitacolo del Ducato, gli serrava la portiera, gli bussava sulla fiancata, dava un cenno ai custodi – come il solito provvederò al versamento. Buonanotte, Catani.
– Alla prossima, professore.
Il furgone partì in retromarcia, manovrò fuori i cancelli del policlinico. Spariva a un incrocio nella notte romana.
Cordella guidò le diciassette barelle nei corridoi dell’obitorio fino le sale per le autopsie.
Gli infermieri tranciavano con i taglierini gli abiti logori dei feriti privi di sensi, li sdraiavano nudi sulle lastre di travertino.
Il chirurgo li spartiva per etnia e corporatura.
Abbagliati dai fari bianchi, al contatto col marmo freddo, alcuni si risvegliavano, guaiolavano terrorizzati.
Provavano ad alzarsi, a scendere dai tavoli. Crollavano troppo deboli sul linoleum del pavimento.
– Quelli, in fretta, per primi sotto i ferri: prima che si riprendano, muoversi, dài.
Le sale si gremivano di personale e di macchine. Gli assistenti sceglievano dai frigoriferi cassette di plastica con le cifre del Mattatoio, del Canile Municipale: ne rovesciavano teste di cane; srotolavano dagli involucri di cellophane musi di agnello, vitello e maiale.
Cordella legava i riccioli nella cuffia, le ciocche brizzolate rispuntavano sotto l’elastico. Un’infermiera gli allacciava il grembiule.
– Degli africani