La corsa
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La corsa - Giuseppe Sebastiano Castelluzzo
Table of Contents
Giuseppe Sebastiano CastelluzzoLa corsa
Giuseppe Sebastiano CastelluzzoLA CORSA
LA CORSA
Premessa
I. LA STAGIONE SFIORITA
II. IL DIFFICILE CONFRONTO
III. CAMBIO CASA
IV. SOLE, MARE E VENTO
V. UN PEZZO DI CARTA…ANZI DUE
VI. VERSI DI VINI NEL FORTE DI SANTA BARBARA
VII. LA FUGA
VIII. LA CORSA NON FINISCE MAI
Profilo biografico.
Giuseppe Sebastiano Castelluzzo
La corsa
Musicaos Editore, Narrativa 7
Giuseppe Sebastiano Castelluzzo
La corsa
Musicaos Editore
Maggio 2016
Illustrazione di copertina
Alessandra Durante
Fotografia
Russo Fotografia - Copertino
Progetto grafico
Bookground
Ogni riferimento a fatti, cose, persone è da ritenersi puramente casuale.
Musicaos Editore
Via Arciprete Roberto Napoli, 82
Neviano (Le) - tel. 0832.618.232
www.musicaos.it
info@musicaos.it
Isbn 978-88-99315-528
Giuseppe Sebastiano Castelluzzo
LA CORSA
Alla mia famiglia, per la pazienza
e il coraggio di sopportarmi.
A Pietro Mennea, dal passo ritmato
come il battito del cuore.
A Corradino Fruschelli,
Maestro in vita e per sempre.
LA CORSA
Premessa
Questo racconto, che all’inizio ritenevo insolito e stravagante anche nel titolo, si è concretizzato grazie alla complicità degli sterminati confini del pensiero onirico.
L’idea de La corsa
ha preso corpo a Siena, città dove per storica vocazione, il Palio - che vede cavalli e fantini cimentarsi in una sfida senza esclusione di colpi - è una realtà che stimola alla competizione e alla sfida.
Ognuno di noi, prima o poi, si cimenta in una gara con l’obiettivo di raggiungere una meta prefissata. È per questo motivo che, animato da uno spirito di autoaffermazione, ho ritenuto di realizzare una metafora della vita
che alludesse al riscatto e al desiderio di arrivare al traguardo con fatica e tenacia.
Ho liberato i pensieri dai legacci
del tempo, cercando comunque di dare una certa continuità cronologica ai fatti accaduti, anche se non è facile raccontare liberamente tutto ciò che si affastella nella mente. Quando si parla di se stessi è come confessarsi e nella descrizione autobiografica qualche omissione o l’enfasi romanzesca, che fanno parte di un narcisismo fisiologico, sono sempre in agguato.
Tuttavia, come in un sogno, i luoghi e i personaggi di questo racconto sono inventati e gran parte degli episodi descritti appartiene alla fantasia.
I. LA STAGIONE SFIORITA
Perfino un orologio fermo segna l’ora giusta due volte al giorno
Con le prime luci del mattino la mia stanza si stava illuminando progressivamente a giorno. Aprii timidamente gli occhi e soffermai la mia attenzione sul decoro del soffitto con le volte a stella: erano raffigurati dei fiori dei quali non avevo mai considerato la fattezza, con il loro cromatismo che mutava dal giallo al purpureo e poi al viola e ancora all’aranciato. Il pittore si era sbizzarrito, pensai, ma non era riuscito a mantenere la simmetria perché in alcuni punti si notavano delle tenui sbavature che, nella loro ridondanza, conferivano al disegno una piacevole ritmicità.
Intanto la sveglia, con il suo costante ticchettio, ammoniva: Se nasci allodola non puoi restartene appisolato come i gufi e le civette
. Quel maledetto marchingegno sembrava un insetto intrappolato in una rete, pronto ad esprimere la sua prorompente vitalità appena ne fosse stata preclusa la prigionia. Per evitare che quel fastidio diventasse insopportabile, agguantai la sveglia riponendola sotto le coperte, con la speranza che il rumore venisse attenuato e mi concedesse una tregua di sonno ristoratore. Ciononostante il risveglio era ormai sopravvenuto, anche perché era mia abitudine lasciare le due finestre che si affacciavano in giardino con le veneziane aperte. Amavo svegliarmi con i raggi del sole che lambivano il mio viso, perché infondevano una carica rigenerante che mi avrebbe fatto affrontare la giornata con energia e buonumore; era piacevole anche ascoltare il canto degli uccelli che il professore allevava nella voliera, per lo più fagiani, tortore e quaglie; c’erano anche diversi tipi di passeracei adusi a reclamare il miglio e a starnazzare come oche piuttosto che a rendere sonoro il loro cinguettio, almeno sino a che il contadino che accudiva il giardino non li avesse resi satolli.
Abbassai lo sguardo verso lo specchio dell’armadio posto sul lato libero della finestra che si apriva verso il viale delle Sperandie, la residenza universitaria confinante con la casa dove alloggiavo, e che in passato era stata sede di un convento per suore: ora, come allora, calma e silenzio provenivano da quella direzione e contrastavano con il frenetico risveglio della vita che si percepiva nel giardino e con il subbuglio del mio stato d’animo.
Una strana frenesia aveva reso la mia notte insonne e agitata. Mi sentivo logorato da mille insani pensieri che nemmeno il tamburellare notturno dei contradaioli, alla vigilia del Palio, era riuscito ad allontanare dalla mia mente. La sera precedente, subito dopo cena, ero rientrato nel mio appartamento per rivedere gli appunti da ripetere la mattina. Spesso mi svegliavo quando fuori albeggiava, e ne approfittavo per fare jogging e per caricarmi di energia che mi avrebbe fatto affrontare meglio la giornata. In realtà era più una corsetta sino a fuori Porta San Marco, che all’andata percorrevo di gran lena - perché avvantaggiato dalla discesa - mentre al ritorno faticavo non poco per riconquistare la meta. Il premio era una meritata doccia ritemprante e una abbondante colazione a base di caffèlatte con biscotti. Per concludere quel rituale mattutino - sedata l’ipoglicemia del risveglio - un caffè caldo senza zucchero, da gustare lentamente, era il preludio per una giornata carica di energia che mi metteva nelle migliori condizioni per ripetere a mente fresca e memorizzare meglio. I concetti che avevo così puntualizzato diventavano indelebili e ciò durante gli esami mi aveva sempre arriso grande fortuna. Quella mattina, però, non riuscivo a concentrarmi a causa dei tanti e confusi pensieri che mi avevano indotto a girarmi e rigirarmi nel letto per tutta la notte, alla ricerca di una posizione comoda che inducesse un approdo anche breve nel mondo di Morfeo.
Il giorno prima, al momento del commiato da Sandrina, avevo percepito qualcosa di strano nella sua voce e nel suo atteggiamento, una sensazione a pelle che, pur nella routine di tante altre serate sovrapponibili, mi suonava atipica. Si era rifiutata di uscire per la nostra consueta e breve passeggiata e sembrava turbata dai miei discorsi. Avevo come l’impressione che fosse infastidita dalla mia prolungata permanenza nella sua stanza.
La notte mi ero sorpreso a ripensare proprio a quella camera, posta alla fine del corridoio della residenza universitaria. Da quando lei dimorava in quell’alloggio tutto era stato rivoluzionato: dietro l’armadio, appositamente staccato dal muro, erano adagiati un tavolino e quattro sedie richiudibili. Il letto, che prima occupava gran parte dello spazio libero, era stato incastrato tra finestra e scrittoio; ma la cosa più sorprendente erano i poster di Claudio Baglioni che tappezzavano le pareti. Ricordavo che aveva sempre ascoltato musica, diciamo pure, più impegnata, e non era concettualmente orientata verso cantautori romantici
, ma piuttosto verso quelli che perseguivano tematiche più prettamente rivoluzionarie
. Per questo mi sarei aspettato un arredamento più spartano, con oggetti buttati alla rinfusa, invece di un ordine forzatamente lineare. Fra tutti gli oggetti ben disposti, l’unico angolo dove regnava un anarchico disordine era un settimino posto ai piedi del letto, sul quale era adagiato un registratore con tante cassette il cui cantautore era quasi sempre lo stesso.
Ciononostante, per buona parte della notte, non ero riuscito a concretizzare nulla di realmente collegabile al motivo di quelle perplessità. L’unica cosa che non mi tornava era che il giorno dopo, in occasione del Palio del due luglio, m’ero reso disponibile per assistere alla competizione delle contrade in Piazza del Campo. Generalmente non ero disposto a farmi distrarre da eventi che esulassero dallo studio e quindi dall’imminente esame, ma in quell’occasione decisi di farlo, certo che avremmo vissuto un’emozione indescrivibile. Mi sentivo abbastanza preparato e avevo pianificato l’esame nel migliore dei modi per cui mi sembrava di darle un piacere inaspettato dicendo che saremmo andati insieme nella bolgia di Piazza del Campo. Non è che mi aspettassi salti di gioia, per carità, ma quantomeno un banale o falso sorriso. Invece ebbi subito la sensazione che la notizia fosse stata accolta con un malcelato fastidio. Anzi, Sandrina, aggiunse che preferiva rimanere nella sua stanza a studiare: Sai bene che se non faccio almeno un altro esame perdo la casa dello studente e mio padre non mi fa continuare gli studi perché non è disposto a pagarmi un appartamento
. Azzardai dicendo: Non ti preoccupare, posso ospitarti io
, ma il suo sorriso forzato fu più eloquente di mille parole: non era certo la convivenza nel mio alloggio che desiderava e ancor meno la mia presenza! Mascherai il mio disappunto cercando di rilassare il viso, che aveva assunto un ghigno sardonico, quindi aggiunsi che le sue amiche non avrebbero accolto benevolmente la notizia visto che, quando ne avevamo parlato, erano apparse frenetiche ed entusiaste per quella loro prima esperienza al Palio.
Le ricordai anche che fino a quel momento non è che avesse perso molto tempo sui libri: Al tuo primo esame, Botanica, ho studiato più io di te, ti ho fatto pure gli schemi e le tabelle mnemoniche per cercare di aiutarti ad affrontare meglio il tuo battesimo con l’università!
.
Quindi, risentito per quel suo inatteso cambio di programma, aggiunsi: L’idea di non andare al Palio mi sembra fuori luogo, anche perché nella residenza universitaria ci sarà un tale trambusto che non riuscirai a concentrarti e comunque, visto che hai preso questa decisione, ti ringrazio di cuore così anch’io potrò studiare
La mattina del Palio mi ero affacciato dalla finestra che dava verso l’ala dell’edificio universitario dove lei alloggiava. Immaginai che fosse stata sempre chiusa da grate, per ovvie ragioni, dato l’ambiente monastico in cui erano vissute le pie donne, quando quel luogo fungeva da monastero. Ciononostante l’inferriata convessa verso l’esterno permetteva comunque l’accesso alla vista verso gli alloggi. Sporgendosi con la testa nella parte concava, era possibile vedere se qualcuno era affacciato alle finestre o se si intravedevano luci accese nel corridoio comune che faceva da disimpegno alle camere. Non ci avevo mai pensato prima di allora, ma non riuscii a fare a meno di immaginare la convivenza stretta tra i confinanti e le inquiline del convento. Sorrisi maliziosamente, anche se quel pensiero mi creò tanta amarezza. Ritornai con la mente a tutti quei momenti in cui avevo sentito provenire della musica dalla sua camera, oppure a quando avevo visto la luce accesa in orari inusuali. Sapevo che non era solita studiare dopo cena per cui, pervaso da un pizzico di curiosità mista a gelosia, mi era venuta voglia di andare a verificare perché fosse ancora sveglia. Tuttavia non mi era possibile entrare nella casa dello studente dopo una certa ora perché i portieri erano intransigenti con tutti, avendo ereditato questo atteggiamento come retaggio del ruolo dell’istituto, quando era sede delle monache Spera in Dio
.
Per fortuna la mia mente scivolò verso altri rivoli e mi sorpresi a pensare con nostalgia ai sacrifici che aveva fatto la mia famiglia per permettermi di studiare. Ripensai alle campagne di proprietà dei miei genitori, che avevano venduto a malincuore per darmi la possibilità di realizzare i miei sogni e quindi il mio futuro, e di quando aspettavo per ore nella sede SIP in attesa di una chiamata da casa. Con un nodo in gola ricordai la volta in cui il vaglia con la mensilità mi arrivò in ritardo e io, senza una lira in contanti e dopo aver fatto la fila alla mensa universitaria, trovai una scusa per andar via senza pranzare: per quel mio maledetto orgoglio non chiesi agli amici nemmeno un piccolo prestito per un frugale pasto.
Mi ritornò in mente anche quella Toscana scoperta il primo giorno in cui ero arrivato a Siena, diretto in pullman verso Sovicille, dove l’amica Rosanna mi aveva trovato il primo alloggio. Rimasi subito soggiogato da quella regione per la fusione di elementi naturali e antropici: querceti e faggete incastonavano pascoli e praterie che a loro volta si alternavano a terre rosse e apparentemente brulle, dalle quali si estraevano le famose crete senesi. Pregiate ceramiche prendevano origine da quei territori, tanto che amici e parenti mi avevano consigliato di comprarle per suggellare un legame con una tradizione artigianale che aveva origini antiche e intramontabili. Ma ancora più sorprendenti erano ville e poderi fortificati che davano l’impressione di essere immersi in pieno Medioevo!
Dopo aver visto l’indicazione per Lecce pensai che alla prima occasione sarei tornato a casa con l’autostop perché quella giornata grigia e piovosa mi aveva messo addosso la nostalgia del sole e del mare che avevo lasciato nel Salento. Rimasi deluso, perché il giorno dopo capii che il segnale in realtà indicava Lecceto
, e comunque il tempo era migliorato e anche il mio umore, per cui mi sentivo pieno di vitalità come si conviene quando si affronta un nuovo impegno. Quella sensazione di voler fuggire diventò prepotentemente viva col tempo perché nell’aria si percepiva sempre una forma di chiusura da parte dei senesi verso i forestieri; Siena - terra nobile e di cultura, città dove si studia bene e si possono coronare sogni e speranze - mi sembrava un ambiente così chiuso ed ermetico, come dire, campanilistico.
Quei ricordi nostalgici erano stati tenuti a freno per anni da una incomprimibile speranza di riscatto, ma quella speranza ora rischiava di infrangersi contro una realtà che all’improvviso appariva senza possibilità di futuro, e per questo quei pensieri mi pesavano come macigni. Pensavo che il mio domani
fosse stato ineluttabilmente pianificato con Sandrina, o almeno credevo che fosse incanalato in una certa direzione con lei, e senza di lei mi sembrava che non potesse esserci una stagione nuova. Non c’erano stati preludi che facessero presagire un epilogo nefasto, ciononostante mi trovai a pensare che la nostra storia fosse giunta ai ferri corti: quella strana sensazione che provai a pelle si era fatta prepotentemente viva più volte nel corso della notte e aveva indotto un doloroso ricordo simile al bruciore provocato dal sale su una ferita.
Ancora una volta un bagaglio di ricordi si intrecciò alla realtà fuggevole che si manifestava in quei momenti.
Da piccolo avevo vissuto quasi sempre con i nonni materni, accanto ai quali viveva una famiglia le cui figlie erano state appellate col nomignolo Le femmine
. Con i miei fratelli spesso le insediavamo e loro, per non essere molestate, una volta ci aizzarono contro il loro cane, uno Yorkshire terrier vivace e peperino, di nome Puccy. Nella fretta di dare la possibilità al resto della combriccola di dileguarsi, sbagliai il nome del cuccioletto e cominciai a gridare Il Curci delle femmine, il Curci delle femmine
. Naturalmente mia nonna mi sentì e, pensando che avessi detto una parolaccia, non si lasciò sfuggire l’occasione per spedirmi nella vicina chiesa del Rosario, se