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Bianco
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Bianco

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About this ebook

Bianco è una raccolta di tre storie che si snodano tra malattia, pazzia e amore. Il primo, con lo stesso titolo, è la storia di una madre. La sua malattia, faticosa e distruttiva, consente alla figlia di avere un tempo lungo per rimettere ordine nei ricordi e scoprire una nuova, intensa relazione. Il secondo, “Dona nobis pacem”, è un racconto tinto di giallo che passa attraverso l’ordinario vivere di una tranquilla cittadina sconvolta da due delitti, uno dei quali commesso nella cattedrale. I personaggi dipanano i fili della storia attraverso il racconto del loro quotidiano, mettendo in gioco quello che sono e quello che avrebbero voluto essere. L’ultimo, “La valigia azzurra”, è una storia d’amore. Un sentimento intenso e faticoso, narrato da un cercatore di parole che sceglie, raccoglie e poi rimette in gioco quelle che permettono ai personaggi di scoprirsi, avvicinarsi, riconoscersi come cosa buona.
LanguageItaliano
PublisherYoucanprint
Release dateSep 6, 2016
ISBN9788892626416
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    Bianco - Claudia Savini

    no.

    giugno 2012

    Anna

    Il mio viso è inclinato sempre a destra, l’angolo della bocca lo segue.

    E’ da lì che il filo di bava procede nella sua ricerca della spalla.

    La protesi dentaria non è più cosa, da un pezzo.

    I miei occhi, di cielo, rimangono bassi sotto palpebre arricciate che spingono verso il sonno leggero e consolatorio.

    Qualche volta, se pronunciano il mio nome, alzo lo sguardo e un sorriso esagerato si apre sulle mie gengive scure e rattrappite modificando, per quell’attimo che dura, la geometria della mio viso.

    Quelle volte riconosco, torno ad essere un barlume di quella che ero, di quella che avrei dovuto essere, se le cose non fossero andate come sono andate…

    Però quel riconoscere non è definitivo, anzi. L’attimo dopo tutto è di nuovo opaco, di nuovo inclinato pericolosamente a destra.

    La mia testa non è ancora riuscita a trovare il conforto definitivo della spalla.

    Tengo la bocca sempre aperta, per l’aria. Anche quando stavo bene faticavo a respirare con il naso.

    E dalla bocca esce un filo continuo di saliva.

    Per questo mi mettono sempre dei tovaglioli di stoffa intorno al collo.

    E dello scottex sopra che viene cambiato in continuazione.

    Anche le spalle sono inclinate, verso il mio sterno.

    La mia testa, pertanto, guarda verso la mia pancia.

    La mia posizione da seduta è improbabile. Ogni tanto qualcuno cerca di spingermi all’indietro, per far riposare il collo.

    Risultato inefficace!

    La sedia a rotelle è tutto quello che resta a separarmi da terra ma non abbastanza da avvicinarmi al cielo.

    Ma sulle gambe ci si punta ancora.

    Braccia forti mi accompagnano in qualche piccolo passo, qualche minuto di diversa altezza.

    Una gamba procede bene, la destra.

    La sinistra, dopo un po’ gioca ad incastrarsi sulla compagna, quasi uno sgambetto.

    E i passi non trovano la via.

    Bisogna che qualcuno si chini, allora, a riportare quel piede dispettoso parallelo all’altro.

    Poi si riprova.

    A volte mi sento sostenere il corpo da dietro, con le braccia sotto al seno.

    Non mi piace, non vedo chi mi sostiene.

    Nonostante lo sforzo, però, che credo di fare, anche questo mio muovermi non dura molto, le ginocchia si piegano a peso morto verso terra e le spalle salgono verso il collo. Per paura di farmi male, appoggiano il mio corpo sulla mia poltrona.

    Dico mia perché è di quelle reclinabili, praticamente la mia seconda casa, dopo il letto col materasso ad acqua, per via delle piaghe.

    Anche il letto si muove a pulsante. Alto e basso, su e giù lo schienale, su e giù la parte in fondo, per via della circolazione delle gambe.

    La mattina, quando gli occhi si aprono, non so che cosa guardare. Rimango ferma come mi hanno sistemato per la notte, non posso fare altro.

    Così qualche volta appare il lampadario blu dipinto da mia figlia o un quadro di una pittrice abbastanza nota, sorella di una mia vecchia amica che mi aspetta in cielo.

    Dipende.

    Ma non da me.

    La prima cosa che percepisco, al mio risveglio, sono le vibrazioni della spalliera del letto tuttofare che si alza.

    Poi si abbassa la parte in fondo.

    Due mani afferrano le mie gambe nude e mi ritrovo seduta.

    Le facce davanti a me sorridono.

    Io non posso.

    Dal letto alla carrozzina per il bagno.

    E’ aperta al centro ed è munita di un secchietto che si aggancia da sotto. Così è più semplice.

    Ho usato il verbo dire, qualche riga fa, a proposito della mia poltrona ma in realtà io penso soltanto in quanto è da un po’ che non riesco più a parlare.

    Perciò mi affido solo ai miei pensieri, quando riesco a trovarli nella mia mente e a liberarli dalla confusione in cui sono accartocciati.

    E anche lo sforzo di cercare i pensieri dura poco, sfugge.

    Dato che non posso dare consistenza ai pensieri attraverso le parole, devo lasciarli andare senza averli interamente trasformati in qualcosa di accessibile.

    Niente di tutto quello che riguarda il mio stato di vita attuale dura abbastanza da essere colto, in realtà, perché niente più mi sostiene,

    quello che accade perdo,

    quello che sento resta confinato,

    quello che faccio è stabilito da mani e voci, occhi gentili e premurosi dei miei figli.

    Ne ho avuti quattro e ora sono diventati madre e padre, chi l’avrebbe mai detto!

    Questa sono.

    Anna.

    Su di me si è intestardito il morbo di Alzheimer otto anni fa.

    Una vita.

    Ho cominciato a perdere pezzi di parole, sillabe. All’inizio sembrava irrilevante.

    Poi le parole scivolavano fuori dalle loro frasi, a volte con grazia improvvisa, a nascere dal nulla e senza una ragione, altre volte impuntandosi nella mia testa ad intrecciare le corde vocali disarmate e inermi davanti a ordini contorti e senza senso.

    Pensare e sentire pronunciare il pensiero tradotto in parole di senso compiuto non era più un evento concatenato.

    Perdevo in grammatica e in senso.

    E pensare che la mia vita me la sono giocata sulle parole!

    Ne ho avute per tutti, e molte.

    Le parole, di conforto o di accompagnamento, di saluto o di semplice chiacchiera sono state la mia forza, il mio vessillo.

    Così come la bici.

    Sono andata dappertutto in bicicletta, anche lungo la salita infinita che porta al cimitero dopo che una nuvola bassa ha portato via mio marito.

    E mi sono fermata innumerevoli volte a chiacchierare con le persone, durante i miei giri.

    Anche per ore potevo stare ferma, ad ascoltare la strada attraverso le parole.

    Per cui perderle è per me non solo irragionevole, disarmante.

    E’ già morire.

    La prima visita in un centro specializzato ha diagnosticato la malattia.

    Un nome per me poco chiaro inserito nel panorama infinito di tutto quello che l’alzheimer può scatenare.

    E sono cominciati visite e controlli per definire la terapia e rallentare il processo di distruzione anticipata delle mie cellule.

    La dottoressa ogni volta ripeteva le stesse domande; il mio nome e quello di mio marito, i miei figli e il mio indirizzo…

    Questa era la parte più semplice.

    Tanto che le prime volte mi arrabbiavo pure!

    Come si possono ripetere domande così stupide che sono, in realtà, tutto quello che sei?

    Poi richieste di spiegare le sensazioni che provavo, le fatiche, i ricordi più lontani, la mia infanzia i nomi degli angeli che speravo vigilassero sulla mia vita dal cielo.

    E ogni volta rispondere era più dura.

    Le cellule del mio cervello si andavano frantumando una contro l’altra in un percorso di autodistruzione.

    Ho provato vergogna, le prime volte, davanti alla dottoressa. Non sapevo dove appoggiare gli occhi e non c’era niente da toccare sul piano di formica verde chiaro di quella stanza al terzo piano dell’ospedale Monteluce, a Perugia.

    Altre volte mi sono rifiutata di rispondere, guardavo la dottoressa e poi mia figlia nella speranza che capissero che dovevano lasciarmi stare, che le richieste in quel momento, erano troppo alte e troppo amare.

    Amare e velenose perché non riuscivo a ricordare cose senza le quali si scompare a se stessi.

    E i buchi nei quali scomparivo venivano attappati da pillole di diverse dimensioni.

    Fino a che ho smesso di parlare.

    Durante l’ultima visita la dottoressa, una ragazza giovane con i capelli lunghi e ricci e gli occhi sorridenti, mi ha messo in mano una penna e dettava delle parole che io dovevo scrivere su un foglio.

    Ma le lettere non si incastravano tra loro, lo spazio bianco era infinito, non c’era nessun destinatario per quel messaggio.

    Mittente disarmato.

    I farmaci mi hanno aiutata.

    Non lo so, da quel momento in poi, per arrivare a oggi, il mio corpo e la mia testa hanno attraversato paesaggi di deserto.

    Sento la stanchezza arrivare, qualcuno cerca di farmi bere.

    Adesso chiudo di nuovo gli occhi, un attimo soltanto, nella speranza che un bel ricordo bussi alla mia mente.

    Le porte, tanto, sono sempre aperte.

    giugno, 1935

    ameba

    La villa aveva un grande portico sostenuto da colonne e ricoperto da migliaia di fili di glicine che scioglievano il loro viola sul pavimento. Quando c’era vento i fiori attraversavano silenziosi le porte finestre che si affacciavano in salotto e in biblioteca.

    Qualche fiocco viola, dispettoso, finiva anche in cucina, una stanzona lunga e stretta che si affacciava sul retro della casa.

    Quelle stanze sembravano enormi o forse ero io ad essere piccola.

    La più piccola di tre.

    L’unica femmina.

    La stanza che preferivo era quella del pianoforte. Un pianoforte a mezza coda nero, appoggiato sopra ad un tappeto che richiamava geometrie rosse e gialle, intrecciato con cura e sbattuto fuori al sole due volte a settimana da Annetta.

    Lei era il mio angelo e anche quello di tutta la casa.

    Viaggiava veloce attraverso le stanze levigando coi passi le assicelle di legno indiano montate a lisca di pesce su tutto il piano terra.

    Volava sullo scalone a curva, come lo chiamavo io, fino alle stanze da letto con le tappezzerie a fiori grandi color carta da zucchero.

    Dello stesso tessuto erano i copriletto e le tende pesanti.

    Mia nonna Giuditta, che aveva arredato quella casa, aveva gusti sobri e poche idee.

    Del resto era lei a mandare avanti la casa dopo la morte di mia madre.

    Io avevo diciotto mesi quando lei se n’era andata in cielo.

    I miei due fratelli erano più grandi, andavano già a scuola.

    Sicuramente loro hanno sentito di più la sua mancanza in quel momento.

    Io non ho grandi ricordi.

    Se non quelli legati ad un’assenza definitiva che mi avrebbe accompagnato durante tutta la mia vita.

    Nonna Giuditta era severa, questo me lo ricordo bene.

    Era madre e padre insieme perché mio padre era un ingegnere e lavorava in paesi lontani con lo zio.

    Tre nipoti probabilmente erano troppi, anche per una forte come lei, sicchè i primi due, dopo la morte della mamma, finirono in un collegio a Roma.

    Il collegio era un luogo che mi spaventava solo a sentirlo nominare.

    Immaginavo la vita d’inferno che i miei due fratelli dovevano affrontare tutti i giorni, le punizioni con la bacchetta e le ore sui libri.

    Immaginavo maestri terribili e preghiere ripetute, notti insonni pensando a casa, al giardino dei giochi, alle farfalle di glicine in primavera.

    In realtà era un buon posto.

    Non accadeva niente di terribile.

    Si stava soli ma questo accade in tanti luoghi, anche pieni di gente.

    Io e la nonna, insieme ad Annetta, siamo rimaste a presidiare la casa, in attesa dei ritorni di papà dalla Francia o dall’Africa e delle vacanze che riportavano i miei fratelli a giocare con l’acqua della grande fontana che occupava il piazzale davanti all’ingresso.

    Anch’io sarei andata in collegio un giorno, come tutte le ragazzine della buona società che si affacciavano sulla soglia degli anni ’40.

    Però non lo sapevo ancora.

    Ma sto dimenticando di raccontare un sacco di particolari su quel primo pezzo della mia esistenza.

    Per esempio dimentico la cantina.

    Ci si accedeva dal retro, da una scala che era di fianco alla cucina ed era grande quanto tutto il primo piano.

    Era un luogo pieno di tesori, bauli da viaggio perché la mia era una famiglia nomade che attraversava latitudini spostandosi da un casa all’altra.

    C’era una cassapanca di metallo grigio più alta di me che sapeva di polvere. Non riuscivo ad aprirla da sola ma sapevo che conteneva tappeti arrotolati.

    E c’era lui.

    Appoggiato su un vecchio cassettone sgangherato.

    La faccia enorme e tutti i denti a vista, quasi volesse ancora respirare, i lunghi peli marroni e

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