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La ragazza con gli anfibi: E altre storie stupefacenti
La ragazza con gli anfibi: E altre storie stupefacenti
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La ragazza con gli anfibi: E altre storie stupefacenti

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La ragazza con gli anfibi delinea un quadro di quello che sono oggi i consumi di sostanze stupefacenti, senza cadere in stereotipi e pregiudizi, facendo prevalere la storia della persona che consuma droga, il rapporto che si crea con quest’ultima e il ruolo che svolge nella vita quotidiana. Pagina dopo pagina si scopre una visione altra, che non stigmatizza le persone che usano sostanze psicoattive. Far rientrare chi usa sostanze nella retorica e consunta definizione “mondo della droga” è solo un modo per creare pregiudizio e isolamento. Non esiste un mondo della droga da ghettizzare ed etichettare. Esiste una società che consuma “cose” e dove si creano dipendenze di ogni tipo: quello della droga è uno di questi consumi e una delle possibili dipendenze.
LanguageItaliano
PublisherNobook
Release dateSep 19, 2016
ISBN9788898591329
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    La ragazza con gli anfibi - Alessio Guidotti

    La ragazza con gli anfibi

    I

    Gli ingegneri a volte si perdono in un bicchier d’acqua: teoria e pratica dovrebbero sempre camminare mano nella mano. Avevo finito il turno ma in testa avevo ancora l’episodio che ci aveva fatto perdere quasi un’ora di lavoro. Tutti, dai miei colleghi al caposquadra, mi guardarono sconcertati quando dissi con decisione: «È un errore di progettazione».

    Ero negli spogliatoi a cambiarmi e vidi il caposquadra in compagnia dell’ingegnere venire verso il container che è lo spogliatoio di noi operai: subito pensai ad abbassare al punto giusto le maniche della camicia che avevo appena indossato. Al punto giusto per non far vedere i segni sulle braccia. Dopo pensai che sì: il caposquadra aveva riferito all’ingegnere di come eravamo venuti a capo di un problema che si era verificato in fase di montaggio dell’impianto elettrico. Il merito era mio. Avevo fatto notare al caposquadra come, in pratica, si trattasse di un errore nella progettazione. Prospettai anche l’unica soluzione possibile e quando il caposquadra mi disse: «Devo avere l’approvazione dell’ingegnere», il mio primo pensiero fu che, se fosse tornato con una soluzione diversa, mi sarei sentito un coglione.

    Quando dopo la pausa pranzo tornò dicendomi «Luigi, avevi ragione», non fui particolarmente contento: mi sentii come se avessi avuto la normale conferma di quanto già sapevo. Entrarono nel container spogliatoio, l’ingegnere sorridente mi strinse la mano e ci presentammo: io il suo nome lo sapevo benissimo ma lui il mio no.

    «È veramente un piacere lavorare con tecnici svegli e competenti.»

    Lo disse con quell’accento del nord che spesso sembra voglia sottolineare l’assoluta verità di quello che si sta dicendo. Risposi con frasi di circostanza, sempre molto sorridente e cordiale ma in realtà con la speranza che il discorso, che era andato a finire su tecnologia e progettazione di grandi impianti, si concludesse al più presto.

    «Arrivederci e complimenti ancora» mi strinse la mano con vigore.

    «Grazie è un dovere, arrivederci e buon fine settimana». La mia mano cominciava a essere sudata.

    «Ciao Luigi ci vediamo lunedì.»

    Il caposquadra mi diede la solita pacca sulle spalle che non ho mai sopportato più di tanto.

    «Ciao, a lunedì.»

    Velocemente misi il borsone con la divisa e le mie cose sullo scooter e partii allacciandomi il casco. Salutai con un cenno della mano il guardiano, Altin. Tipo buffo: piccolo di statura e pancia sporgente; sia al mattino quando arrivi in cantiere che quando esci il pomeriggio lo vedi che ha in mano un panino o un pezzo di pizza, ti saluta e alza la sbarra di ingresso.

    Mi lasciai alle spalle il cantiere del mega centro commerciale dove lavoravo come tecnico specializzato in installazione di impianti elettrici, antifurto, reti informatiche, video sorveglianza. Scattante e spedito in mezzo al traffico mi dirigevo a destinazione: sapevo che al campo nomadi avrei dovuto potermi trattenere e non volevo trovarmi fuori dai miei tempi che conoscevo benissimo.

    Il mio orologio interno mi diceva che nel giro di un’ora al massimo dovevo farmi.

    Al campo nomadi le cose andarono abbastanza velocemente: consegnai le schede elettroniche che avevo modificato, cavi vari, lo schema disegnato di come fare gli attacchi e le istruzioni sulla serratura.

    Lavoravo con loro da un po’ di tempo: gli costruivo apparecchiature di qualità per disabilitare antifurti, neutralizzare impianti di sorveglianza. Sono abbastanza bravo anche con le serrature.

    Mi consegnarono i seicento euro pattuiti in comodi pezzi da cento uno sopra l’altro.

    Stanno prendendo tratti di seria professionalità questi giovani nomadi con cui lavoro: agili, svelti, lucidi, ancora un po’ carenti sul piano tecnico ma per quello ci sono io: e mi pagano. Di solito mi portano le foto del posto che intendono attaccare, sanno che devono portarmi foto specifiche: per esempio le telecamere di sorveglianza, il tipo di cancello e altri dettagli. Se proprio è necessario faccio un sopralluogo per conto mio. Molto spesso si tratta di grandi magazzini o negozi di elettrodomestici. Ma io preferisco non espormi direttamente neanche per fare un sopralluogo: sono uscito dal carcere da poco, proprio per furto. Mi presero per il furto nel magazzino a un grossista di alimentari. Due dei tipi con cui organizzai e portai a segno il lavoro erano ex dipendenti del grossista. Io neutralizzai l’impianto d’allarme, quelli addormentarono il guardiano e caricammo due camion tra prosciutti e forme di grana. Presto però le indagini risalirono a uno degli ex dipendenti e quello fece il mio nome. I carabinieri vennero a prendermi a casa, ricordo perfettamente la faccia di mamma e la mia che volevo fare il duro, e lei ancora non stava sulla sedia a rotelle.

    La malattia che le impedisce di camminare è sopraggiunta dopo, mentre ero in carcere.

    La prima volta invece mi presero per le macchine: aprivo le fuoriserie dal Maserati in su. Neutralizzavo allarmi ed ero richiesto da chi era specializzato nel settore auto. All’epoca presi la condizionale ma incominciai a essere conosciuto nel giro come quello degli antifurti. La verità è che l’elettronica, i computer, l’informatica sono la mia passione. Conosco a memoria schema di costruzione, pregi e difetti di quasi tutti gli allarmi esistenti. Mi aggiorno professionalmente, anche perché è il mio lavoro: dalla parte di chi non vuole farsi derubare e dalla parte di chi vuole rubare. È comunque il mio lavoro. Quando ho cominciato a lavorare, legalmente, in questo settore avevo sedici anni e facevo l’apprendista in una ditta che montava gli impianti home video e satellitari. Avevo lasciato il liceo e mio padre, prima che si separasse da mia madre, mi mandò da un suo amico a lavorare per farmi fare qualcosa.

    Dal campo nomadi all’appuntamento con Roberto, il tempo sembrò corrermi dietro: ma dopo che da lui presi la roba e pagai quanto dovuto, sentii meno la pressione dell’orologio interno e mi avviai, senza correre, a casa.

    Mentre parcheggiavo lo scooter mi venne incontro Pietro, il portiere del condominio.

    «Mia madre è uscita?»

    Mi rispose che sì, mia madre era uscita con quelle dell’associazione, lui chiamava così un gruppo di volontariato di cui mia madre fa parte. Lei, pur stando sulla carrozzina è abbastanza autonoma ma ha questo gruppo di amiche con cui fa diverse cose e quando ne ha bisogno le danno una mano.

    «Questa è per te» mi fece sventolando un foglio che aveva in mano.

    «E che è?» Gli chiesi frettoloso con tutta l’intenzione di salire a casa prima possibile. Mi spiegò che una ragazza era venuta a chiedere di me, quando lui le ha detto che non ero in casa lei ha voluto lasciargli un foglio. Da dare a me.

    «Il foglio non lo aveva, ho dovuto darglielo e pure la penna. Poi scriveva, scriveva e disegnava, però carina, sai, era? Un braccio tutto disegnato aveva…»

    Mentre mi divertivo ad ascoltare Michele con la sua parlata dall’inconfondibile accento sardo capii subito che si trattava di Sara. La ragazza con gli anfibi. Aveva mantenuto la sua promessa. Ringraziai Michele, lo salutai e con il foglio in mano, che era una pagina di quaderno piegata in due, andai in fretta a casa. In ascensore guardai il foglietto senza volerlo leggere, in realtà la cosa mi piaceva, inaspettatamente la novità mi provocava una sensazione gradevole. Guardavo tutte le scritte di traverso, i disegnini: ma non volevo leggerlo per intero. Avevo capito che si trattava di una cosa bella. Mi suscitava curiosità, la scritta in maiuscolo TI ASPETTO, seguita da tanti punti interrogativi, mi aveva fatto sorridere dentro di me e volevo conservare la sensazione per dopo.

    Prima dovevo farmi.

    Ci misi un po’ a scartare l’involucro ma poi bianca e candidamente presuntuosa apparve lei insieme alla conferma della precisione e la correttezza del mio pusher, cinque grammi di bianca thailandese difficilmente trovabile in piazza. La mia scorta. Posso farmela durare anche dieci giorni a volte. Dedicai alla cosa il giusto tempo, mi preoccupai di chiudere la porta, abbassare le tapparelle, mettere i Sonic Youth come sottofondo musicale, e prendere tutto il necessario da uno dei nascondigli nella mia camera.

    La Bianca Thailandese non ha bisogno neanche di essere scaldata, si scioglie nell’acqua senza difficoltà.

    Guardavo l’acqua chiara nella fialetta e mentre la aspiravo con la siringa spostavo lo sguardo al foglietto di Sara. Lo avrei letto non appena si sarebbe concluso il rito che ho nominato il tempo per l’interiorità. Lei si sciolse in me con la stessa facilità con cui si era sciolta nell’acqua poi riconsegnai al nascondiglio tutto il necessario per farmi e ci aggiunsi la scorta settimanale.

    Ora era tutto al sicuro. Mi assicurai che dal braccio del rito non uscisse più neanche una goccia di sangue. Era tutto perfetto e quello che non lo era, andava bene lo stesso.

    La lampada del comodino dava una luce particolare alla stanza che prima non notavo. Era morbida quella luce e serviva anche se adesso fuori c’era ancora la luce del giorno: la stanza illuminata così, in quel modo, la sentivo più mia. Era perfetta per la mia interiorità.

    Abbassai i Sonic Youth ed ebbi forte la sensazione di calore intorno al collo, presi il foglietto e mi misi a leggere, sorridevo anche fuori mentre mi stropicciavo il naso e gli occhi scorrevano morbidi sull’inaspettato. C’era scritto che, come mi aveva promesso, Sara voleva offrirmi una birra perché quella volta che le ho fatto ripartire la Vespa, «mi hai dato una salvata di brutto», c’era pure un disegnino con la Vespa ferma per strada. Nel disegno lei ha i capelli dritti e la faccina incazzata e dalla Vespa esce una nuvoletta di fumo, poi ci sono disegnato io che arrivo con lo scooter e una freccia m’indica: El Salvador.

    Quella volta le cose andarono così, grosso modo. Il disegnino mi faceva ridere dentro e fuori. Poi c’era scritto che l’appuntamento era a un centro sociale, il Sisto V, vicino casa mia. È un posto che non ho mai frequentato. Non frequento centri sociali, non frequento ritrovi collettivi né bar o locali: semplicemente non frequento.

    Sara l’ho conosciuta un paio di mesi fa, era giugno ed iniziava a fare caldo. Una domenica pomeriggio io ero fatto più del dovuto e stavo andando a piedi a casa. Avevo preso la roba insieme a qualcuno, una cosa organizzata di corsa, probabilmente non avevo potuto prendere la mia scorta da Roberto, e ci eravamo fatti in giro da qualche parte: farmi per strada, da solo o con altre persone, è una cosa che non sopporto. Evidentemente però quella volta non avevo scelta. Stavo molto fatto e mi misi a bere alla fontanella. L’effetto culla della roba mi portava a sonnecchiare mentre bevevo, quindi, chi mi vedeva notava il mio strano dondolio come fossi indeciso tra alzarmi o continuare a stare piegato a bere.

    Quando sto fatto in quel modo, che quasi non mi reggo sulle gambe, la sensazione mi piace perché posso fregarmene anche del giudizio di chi guarda. In quei momenti mi sembra una cosa terribile guardare qualcuno travestito dai suoi usi e costumi. Mi sembra invece più facile poter guardare tutto e tutti per quello che sono e vorrei, anzi pretendo in quei momenti, che gli altri lo facciano con me: però mi dà fastidio farmi vedere in giro fatto in quel modo, insomma, è una cosa che evito.

    Il dolce dondolio fu però interrotto da una voce chiara e infastidita.

    «È una cosa che dura molto?»

    La voce spezzò l’incantesimo e mi sforzai di aprire gli occhi e alzare lo sguardo. A mano a mano che riacquistavo la posizione verticale vidi in ordine: un paio di anfibi neri slacciati dai quali uscivano gambe lunghe di pelle liscia e chiara interrotte all’altezza delle ginocchia da un paio di pantaloncini neri, poi iniziavano due mani con diversi anelli e una delle due braccia aveva un tatuaggio coloratissimo che finiva sulla spalla. Conquistata la posizione verticale, la visione si completava con un collo che spuntava dalla scollatura di una canottiera nera e sul quale trionfava un viso bellissimo, occhi scuri e capelli neri mossi con alcuni boccoli. Una ciocca colorata di blu. Non sorrideva.

    «Ammazza quanto sei bella».

    «Ammazza quanto stai fatto».

    Furono le prime cose che ci siamo detti.

    «Posso?»

    Continuò con la voce indispettita continuando a non sorridere e indicando la fontanella. Senza attendere la mia risposta si mise a bere. Ero coraggioso, quasi spavaldo, senza la mia solita timidezza. Con le gambe che non mi tenevano dritto in piedi e gli occhi semichiusi. Continuavo a guardarla: mentre beveva, si teneva i capelli con una mano da un lato. Le guardai l’orecchio che aveva tanti piccoli orecchini e da uno un po’ più grande scendeva una catenella che si agganciava a un altro più piccolo. La guardai bella per come mi si presentava davanti. Si tirò su lasciando i capelli che come per magia ridiedero forma all’immagine originale.

    «Ce l’hai una sigaretta?»

    Sfrontata, mi guardava fisso e credo di aver provato come la sensazione di essere invaso, aggredito. Forse un attimo di soggezione nonostante avessi il coraggio da derivato dell’oppio.

    «Sì, ecco».

    Non potevo e non volevo mentire, il pacchetto di Marlboro faceva mostra di sé nel taschino della camicia. Mi sforzavo di tenere gli occhi aperti. Le chiesi se volesse accendere e mi misi una sigaretta in bocca anch’io. Lei continuava a stare lì: visione inaspettata davanti ai miei occhi.

    «Perché non ti metti seduto? Sciacquati il viso, no?»

    Evidentemente, nonostante lo sforzo, gli occhi continuavano a chiudersi, oppure le ginocchia mi si piegavano.

    «Tranquilla… guarda che sto bene…»

    «Ci credo stai benissimo, una favola, cerca di non cadere…

    Non so se la immaginai o la sentii realmente premurosa e interessata. Qualcosa mi spinse a farle un sorriso anche fuori.

    «Ma… come ti chiami?»

    «Sara, e tu?»

    Decisa, non perdeva un colpo. Feci in tempo a dirle il mio nome.

    «Sara andiamo sbrigati che quelli se ne vanno.»

    Solo in quel momento mi accorsi della tipa su un motorino che la stava aspettando. Aveva degli occhiali a specchio blu e uno strano cappellino in testa. Sara le rispose girando la testa verso di lei con un ecco urlato, ma rimanendo la visione che era ferma davanti a me. Restammo in due silenzi vicinissimi, e i nostri corpi separati da una fontanella. Poi uscì dal silenzio in cui forse era entrata senza sapere neanche lei il perché. Mi ringraziò per la sigaretta ed io risposi con un sorriso. Fuori. Probabilmente, allora, dentro dovevo averne parecchi.

    «Ciao Luigi» e si avviò verso la tipa in motorino.

    Io continuavo a guardarla, a un certo punto si girò verso di me.

    «Mica ti metti a guidare adesso vero?»

    Me lo chiese mentre continuava a camminare, stavolta all’indietro però, verso la sua amica. M’indicava con il dito quasi ad accusarmi se la risposta fosse stata positiva.

    «No, no, vado a piedi…»

    Sorrise e divenne più bella.

    Poi si voltò, salì sul motorino e scattarono via lei e la sua amica con gli occhiali blu e il cappellino. Rimasi a guardarle fin quando non girarono l’angolo. Con molta calma, le ginocchia morbide e le palpebre calanti, mi avviai verso casa. A ogni passo i miei sorrisi dentro diminuivano. Quello fuori invece era sparito insieme alla visione. Nei giorni seguenti ogni tanto mi capitava di pensarci, mi venivano in mente gli anfibi, il suo viso la ciocca di capelli colorata e il suo sorriso, ma poi ero preso dal lavoro. Dai miei schemi elettrici e non elettrici. Dalle mie frequenze musicali e le mie non-frequentazioni…

    Un pomeriggio, erano passati tre o quattro giorni dalla visione, mentre tornavo dal lavoro mi fermai a un bar per prendere un caffè e le sigarette. Uscii dopo alcuni minuti e vidi al bordo della strada due ragazze imprecare e agitarsi vicino una Vespa che non riuscivano a far ripartire. Mi accesi una sigaretta guardai meglio ed ebbi la conferma che sì, erano loro. Sara e la sua amica dagli occhiali blu. Quando mi avvicinai, pensai che Sara non ricordasse neanche il mio nome.

    «Hoy… ma sei capace a farla partire?»

    La sua amica mi salutò con un bella e un cenno del capo. Era molto rigida, dietro gli occhiali blu e la Ceres che sorseggiava in continuazione. Sara invece era accovacciata davanti al motore della Vespa e lo guardava cercando di capire qualcosa. Faceva caldo, quando mi abbassai all’altezza del motore anch’io, sentii forte l’odore di erba e birra: ma su Sara era come un aroma che dissolveva possibili mie resistenze.

    «Ha incominciato ad andare a scatti, poi si è proprio fermata.»

    Continuava a fissare il motore, poi si voltò a guardarmi.

    «Luigi ma tu ci capisci qualcosa?»

    Si ricordava il mio nome. Nera, bella, vicina. Per un attimo tutto il resto, dalla strada alle macchine, al cielo e al sole che picchiava sopra di noi, mi sembrò un sottofondo. Solo lei era messa a fuoco e appariva distaccata da tutto il resto. Ora eravamo accovacciati vicini uno a fianco all’altra, ci stavamo guardando.

    Il tempo di una domanda e di una risposta.

    Oltre che bella, vista così da vicino, era anche più interessante. Sotto il sole, l’aria mossa dalle macchine le faceva smuovere i capelli che ricordandoli mi sembrava fossero più ricci del solito. Il viso era semplicemente spettacolare e i suoi occhi parlavano di altri luoghi. Luoghi dove è possibile ancora immaginare.

    «Penso di sì… ora vediamo».

    Avevo la sigaretta tra le labbra e smaneggiavo sulla pipetta della candela. Verificavo se il problema fosse la corrente che non arrivava proprio alla candela. Probabilmente le avevo trasmesso sicurezza perché si girò verso la sua amica. La rigidona con gli occhiali blu.

    «Forse lui ci riesce.»

    Ma quella sorseggiava la Ceres e rispose con un bella.

    Andai nel mio scooter prendere la chiave per smontare la candela. Mentre svitavo, sentivo loro due che parlottavano, ma Sara aveva un tono di voce non proprio tranquillo. Non era più accanto a me a contemplare il motore. Mi dispiaceva non respirare il suo odore di erba e birra. Ora parlava animatamente con la sua amica, cercai di capire qualcosa ma sentii solo la voce di Sara.

    «Perché me l’hai fatta girare un’altra canna se poi devi fartela prendere a male con la tua paranoia di merda?»

    E la lascio lì, rigida appoggiata alla macchina e con la Ceres in mano.

    Era di nuovo accanto a me: aroma di erba e birra con capelli neri mossi con ciocca colorata di blu, pantaloncini corti, maglietta bianca con scritta The Clash il tutto su anfibi neri. Slacciati.

    «Ci riesci?»

    Sorrise. I suoi denti erano bianchi, perfetti tra le sue labbra come sono perfette certe strade che s’infilano nell’orizzonte di un paesaggio.

    Ogni volta che la vedevo da vicino notavo qualcosa che la rendeva più bella. Le persone che passano ore e ore a osservare le stelle, oppure chi coltiva fiori e dedica il suo tempo a curarli deve provare una sensazione simile.

    «La candela era sporchissima, gli ho dato una pulita ma è ridotta male.»

    Al terzo colpo di pedalina il motore partì, diedi un po’ di gas.

    «Tra qualche chilometro sta punto e a capo e si riferma, dovete cambiare la candela.»

    «Quanto costa? Stiamo scannate senza un soldo…»

    Mi guardò le mani sporche che cercavo di pulire con un fazzoletto. La tipa dietro gli occhiali blu aveva abbandonato la posizione appoggiata e lanciò la Ceres ormai vuota dentro il grande prato che costeggia il viale.

    «Senti, al box di casa mia posso cambiartela io, sto qui dietro se vi va…»

    Non ci pensò nemmeno un attimo e lo impose alla sua amica.

    «Andiamo qui vicino da lui ci cambia la candela sennò si riferma tra un po’.»

    Quella le abbozzò un sorriso e le andò incontro. Quando furono una di fronte all’altra, si abbracciarono. Ora la rigida con la sua presa a male era con la testa appoggiata alla spalla di Sara e le diceva qualcosa che non riuscivo a sentire. Mentre indossavo il casco e accendevo lo scooter, Sara sorrideva e le dava dei baci sulla guancia. Poi salirono sulla Vespa e ci avviammo al box sotto casa.

    È il mio laboratorio, ordinatissimo, una serie di cacciaviti, chiavi inglesi e a brugola, attrezzi speciali, saldatrice a stagno, un infinità di componenti elettroniche usate, rotte o da aggiustare: c’è un piccolo capitale qui dentro.

    Sara si guardava intorno curiosa mentre io provvedevo a cambiare la candela e la sua amica era seduta per terra a fumare.

    «Ma che lavoro fai te?»

    Allungava il braccio tatuato e prendeva degli attrezzi, poi rimetteva apposto. Curiosa. Sara in mezzo a tutto quell’oceano di ferro e tecnica che è il mio box mi sembrava ancora più bella.

    «Impianti elettrici» le risposi senza stare troppo a spiegare.

    «Ho finito, ora avete la candela nuova, tienila da conto questa Vespa che sta messa bene è una cosa rara, vale pure un po’ di soldi.»

    «È di mio padre

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