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L'ultima ora
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Ebook504 pages6 hours

L'ultima ora

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About this ebook

La ventisettenne Carrie Thompson-Sherman ha la vita che ha sempre desiderato: un dottorato di ricerca, una prestigiosa borsa di studio e un marito fantastico.

La sua vita incantata inizia a crollare quando una collega invidiosa mette in pericolo la sua borsa di studio e un terribile segreto che Ray si è portato dietro dall'Afghanistan viene alla luce.

Un drammatico incidente appende a un filo la vita di suo marito e di sua sorella. Straziata, Carrie si troverà di fronte a una scelta devastante. Una scelta che cambierà tutto.

L'Ultima Ora fa parte di una serie di romanzi incentrati sulle sorelle Thompson. Nonostante i libri ruotino attorno alla stessa famiglia, sono indipendenti l'uno dall'altro e possono essere letti in qualsiasi ordine.

LanguageItaliano
PublisherBadPress
Release dateSep 20, 2016
ISBN9781507155776
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    L'ultima ora - Charles Sheehan-Miles

    Il Primo Minuto

    Bianco(Carrie)

    Mi lascerai da sola?, urlò Jessica alla sua gemella sul sedile posteriore dell’auto. Il principio della fine ebbe inizio con quelle quattro parole.

    Poi, lo stridio di pneumatici alla nostra sinistra. Il camion sul lato del conducente. Ray imprecò, Sarah urlò. La forza dell’impatto fu più forte di qualsiasi altro suono.

    Nei film a volte rappresentano i momenti cruciali al rallentatore, in modo da poter notare ogni dettaglio e stupirsi di fronte alla tragedia o alla suggestione del momento. Nella vita reale non accade così. Succede tutto all’improvviso, velocemente, con i sensi messi totalmente a nudo. Un ammasso di dettagli che accadono contemporaneamente. La mente che viene sopraffatta. Come se si venisse spogliati di pelle e vestiti.

    Dalla radio suonava quell’esasperante canzone di Carly Rae Jepsen che a Ray piaceva tanto. Lui indossava un paio di jeans e una T-shirt grigia con la stampa di un teschio che faceva capolino tra due fucili incrociati, sui quali c’era scritto ‘Fanteria dell’Esercito Americano’. Al polso sinistro portava l’orologio che gli avevo regalato. Si era tagliato i capelli tre giorni prima. Erano rasati sui lati, lui li chiamava ‘alla moicana’. In quel momento stava cantando a pieni polmoni ‘Call me maybe’, stonando e imitando con la mano la forma di un telefono.

    L’orologio sul cruscotto segnava le 11:15.

    Dietro di lui c’era Sarah. Maglietta nera, pantaloni neri, eye-liner nero. Tutto perfettamente abbinato ai suoi capelli neri. Dava le spalle alla sua più convenzionale gemella Jessica, guardando fuori dal finestrino con la mascella serrata. Era infuriata.

    Era un limpido giorno di agosto. Fuori c’erano trentanove gradi, ma in auto l’aria condizionata donava molto sollievo.

    Eravamo sulla Connecticut Avenue, all’incrocio con Tilden, in direzione del National Zoo.

    La vidi all’ultimo secondo. Una Jeep verde cromato, con la targa della Virginia. Brillava al sole, mentre correva a tutta velocità verso di noi. Sulla targa personalizzata c’era scritto ‘Super Papà’.

    Sentii il terrore divorarmi. Il mio stomaco si contorse. La mia bocca si seccò all’istante. La paura cancellò ogni altro pensiero. Non ebbi il tempo di parlare, di urlare, di reagire. Il fuoristrada si schiantò contro la fiancata della nostra auto.

    La testa di Ray rimbalzò contro il vetro e poi contro la parte anteriore del SUV, che entrò parzialmente nell’abitacolo dal finestrino del guidatore. Frammenti di vetro volarono ovunque, colpendomi. L’impatto mi scaraventò sulla destra. Poi colpimmo un’altra automobile, e tutto divenne bianco.

    Bianco.

    Immagini e pensieri senza forma. Ricordi alla deriva. Un’enorme tela bianca.

    Ray nella sua divisa blu notte, con le medaglie luccicanti. Lui che mi sorrideva, mentre Dylan e Alexandra si baciavano nella Cappella Universitaria. Le gemelle, Jessica e Sarah, vestite uguali mentre giocavano a nascondino nella nostra casa di San Francisco. Ridevano insieme, ancora in pace l’una con l’altra. Poi ancora Ray, col braccio destro alzato, gocce di sudore sulla fronte e cerchi scuri sotto gli occhi, mentre giurava di dire la verità.

    Poi il verde di quell’aiuola della Columbia, mentre passeggiavo con mia sorella Alexandra. Era lo scorso novembre. Fu lì che vidi Ray per la prima volta, in uno splendido giorno d’autunno. Era con Dylan. Ray era alto, con i capelli a spazzola e un sorriso aperto. I suoi occhi blu catturarono subito la mia attenzione. Non riuscivo a guardare altrove. Eravamo entrambi timidi e impacciati, ma lui aveva una risata così contagiosa da far sciogliere anche me.

    Mesi dopo, le sue braccia attorno a me. Calde, accoglienti. Io che poggiavo la fronte sulla sua spalla, e lui che sussurrava: Ne usciremo. Non preoccuparti.

    Aprii gli occhi e poggiai lo sguardo su quei due anelli al mio anulare. Un diamante e una piccola fede decorata di zaffiri. Il mio corpo era attraversato da continui spasmi di dolore. Non riuscivo a muovere la testa. Sangue e vetro sul mio grembo, sulle mie mani.

    Non si muova, signora, disse qualcuno. Provai ad urlare che non sarei comunque riuscita a farlo, ma non emisi alcun suono. La paura m’inondò di nuovo. Provai a girarmi per guardare Ray e Sarah, ma qualcuno mi trattenne la testa, mentre qualcun altro mi stringeva qualcosa attorno al collo. Mi tirarono fuori dall’auto e mi sistemarono su una barella.

    Un dolore acuto mi correva nella schiena. Poi venni allontanata dall’auto.

    Ray…le mie sorelle…stanno bene?, provai a gridare, ma non emisi altro che flebili sussurri.

    Ce ne occupando, signora. Stia tranquilla.

    Tranquilla. Come? Respiravo a fatica. Dov’era Ray? E le gemelle? Sentii un tonfo, e mi ritrovai a fissare il soffitto dell’ambulanza. Due paramedici mi controllavano. Uno mi avvolse qualcosa sul polso, l’altro si avvicinò e chiese: Sa dove si trova, signora?

    Lottai per rispondere, mentre la nebbia opacizzava i miei pensieri. Volevo portarmi le mani sulla pancia, ma qualcuno le immobilizzò. Avevo la gola secca. Il mio cervello sembrava lavorare lentamente. Dovetti concentrarmi per comprendere le sue parole.

    Washington, dissi. Stavamo andando allo zoo. Dov’è mio marito? Le mie sorelle?

    Odiavo il lamento che emettevo parlando, ma dovevo sapere se Ray e le gemelle stavano bene. Nessuno rispose alla mia domanda, e questo mi fece ancora più paura. La Jeep ci aveva colpiti sul lato del guidatore. Sarah era seduta dietro Ray. Stava bene? E Ray…la mia mente continuava a tornare all’immagine della sua testa che rimbalzava sul SUV. Volevo urlare. Non riuscivo a pensare. Non riuscivo a respirare.

    Stanno cercando di estrarre gli altri dall’abitacolo. Abbiamo bisogno che lei resti calma, signora.

    Gridai: Dove sono?

    Staranno bene, signora, stia calma. Ci prenderemo cura di tutti.

    Sentii le porte chiudersi. Tutto divenne più buio. Poi il rumore delle gomme correre sulla strada, la sirena che suonava. Dalla mia posizione, stesa sulla schiena, totalmente immobilizzata, non potevo vedere molto. Solo qualche apparecchiatura collegata a un monitor. Uno dei paramedici fissava lo schermo, pronunciando qualche numero ad alta voce. Gli altri scrivevano. L’ambulanza prese una buca, e io mi sentii vacillare. Poi rallentò, ma la sirena era assordante. Mi faceva male la testa. Avevo la nausea.

    Signora, devo farle un paio di domande. Così risparmieremo tempo in ospedale.

    , gracchiai. Cercai il paramedico con lo sguardo. Lo trovai. Aveva la pelle scura, la testa rasata. Indossava un’uniforme verde. Sembrava ottimista.

    Iniziamo dal suo nome.

    Carrie. La mia voce tremava. Carrie…ehm…Thompson-Sherman. Chiusi gli occhi. Dovevo aver sbattuto la testa più forte di quanto pensassi. Sentii di nuovo la paura assalirmi. Come stava Ray? Sarah e Jessica?

    Ok, Carrie. Diamoci del tu. Io sono Jared, disse il paramedico con voce rassicurante. A quanto pare, non sei messa male. Una possibile commozione cerebrale, ma niente ossa rotte, nessuna emorragia. Ti abbiamo immobilizzato il collo per scongiurare qualsiasi possibile lesione alla colonna vertebrale, ma siamo certi che starai bene. Adesso voglio che ti rilassi.

    Provai ad annuire, trattenendo le lacrime. Come diavolo potevano pensare che io riuscissi a rilassarmi? Avevo ancora in mente l’immagine di quell’enorme Jeep verde che si schiantava su di noi. La testa di Ray che sbatteva sul finestrino. I vetri in frantumi, sul mio volto.

    Brava, Carrie. Ora, puoi dirmi quanti anni hai?

    Dovetti pensarci di nuovo. Ventisei. No. Ventisette.

    Prendi medicine? Hai problemi di salute?

    No, sussurrai.

    Puoi dirci chi c’era in macchina con te?

    Soffocai un singhiozzo. Ray. E le mie sorelle. Sarah e Jessica. Erano venute a trovarci. La mia voce si affievolì. Feci una pausa prima di parlare ancora. Sono arrivate qui ieri sera. Da San Francisco. Sta…stanno…stanno bene?

    Tutti staranno bene, Carrie.

    Provai a deglutire. La mia gola era secca, arsa. Prendemmo un’altra buca, e sentii la bocca riempirsi di vomito. Dio mio, sussurrai mentre sentivo la bile impedirmi il respiro.

    Gli altri medici si avvicinarono in fretta, e Jared ordinò: Aspirare.

    L’acido inondò la mia bocca, e io vomitai, e vomitai ancora. Tutto ciò che avevo mangiato e bevuto in quel giorno si riversò su di me all’improvviso, mentre uno di loro mi posizionò un tubo in bocca per aspirare il liquido. I conati di vomito non sparivano. Le lacrime mi scivolavano veloci sulle guance. Volevo rannicchiarmi, piangere. Volevo trovare Ray e le mie sorelle. Invece non c’era nulla che potessi fare se non restare lì, immobile, ad annusare l’odore del mio vomito. Girai gli occhi. Quella puzza terribile mi fece vomitare ancora. Come se ci fosse altro da espellere. Poi sussurrai: Credo di aver finito.

    Mi ignorarono. Il paramedico con quella specie di tubo aspiratore continuò a scavarmi nella bocca per qualche secondo. Mi bruciava la gola.

    Jared asciugò un po’ della bile dal mio viso con un fazzoletto, mentre l’altro mi sfilava il tubo dalla bocca. C’è qualcuno che possiamo chiamare? La famiglia?

    Chiusi gli occhi, provando a non lamentarmi.

    Risposi: Per favore…chiamate mia sorella, Alexandra.

    Alexandra era la più vicina a me. Si trovava a New York, a poche ore di distanza. Gli diedi il numero, lui lo scrisse. L’ambulanza vacillò nel prendere un’altra buca. Chiusi gli occhi, provando a ignorare la nausea. Avevo di sicuro un trauma cranico.

    Speravo che chiamassero Alexandra subito. Ti prego, Dio, fa’ che non risponda Dylan. Lui avrebbe saputo come contattare i genitori di Ray, ma non sapevo come avrebbe reagito. Dylan e Ray avevano prestato servizio in Afghanistan insieme, ed erano come fratelli. Più che fratelli.

    Ero così spaventata.

    Stanno cercando di estrarre gli altri dall’abitacolo.

    Cosa intendevano? Quanto erano feriti?

    Non avevo risposte. Sentii il buio avvicinarsi. Avevo tanto sonno.

    Carrie…resta sveglia. Probabilmente hai una commozione cerebrale. Apri gli occhi.

    Provai ad aprirli e a parlare. La mia gola era così secca che non riuscivo a fare altro che gracchiare. Chiama mia sorella. Ti prego., sussurrai.

    Jared mi poggiò una mano sulla spalla. Lo faremo. Lo prometto.

    Grazie, mormorai.

    Fu il viaggio più lungo della mia vita.

    La Prima Ora

    Lei è la moglie? (Carrie)

    Signora, sono l’infermiera del pronto soccorso. Le faremo un rapido controllo, ok?

    L’infermiera era più giovane di me. La sua voce trasudava calma. Il pronto soccorso era pieno, e la barella su cui giacevo era stata affiancata a un muro del corridoio. Le pareti color crema e l’arte astratta erano state concepite per dar sollievo, ma prevalevano le attrezzature che venivano spinte su e giù per il corridoio, gli allarmi, le sirene e la corsa affrettata di medici e infermieri.

    Ho bisogno di sapere dove sono Ray e le mie sorelle.

    Prometto che lo scopriremo. Adesso però voglio che lei stia calma, devo controllare la pressione e i parametri vitali. Ok?

    Annuii. Mi applicò il bracciale dello sfigmomanometro e strinse il velcro.

    Devo farle un paio di domande. Spinse un pulsante sul monitor e il bracciale iniziò ad espandersi, stringendomi il braccio. Sa cos’è successo?

    Incidente d’auto.

    Ok, sa dirmi in che anno siamo?

    Socchiusi gli occhi, poi risposi: 2013.

    Ok, bene. Sa chi è il nostro Presidente?, chiese incrociando il mio sguardo.

    Iniziavo ad essere impaziente. Barack Obama.

    Ha sbattuto la testa, o perso conoscenza?

    Non lo so.

    Ha un paio di ematomi sul volto niente male, disse. Nausea?

    Feci una smorfia. Avevo vomitato in ambulanza, ma non era stata neanche la prima volta in quella giornata. Sì.

    Ok, probabilmente dovremo farle una TAC. Il dottore la visiterà e poi deciderà. Intanto mi faccia controllare gli occhi.

    Ebbi un crampo allo stomaco quando parlò di TAC.

    Puntò una luce nel mio occhio sinistro, poi in quello destro. Sembra che stia bene. Poi auscultò il mio sterno con uno stetoscopio, si assicurò che io riuscissi a muovere braccia e gambe e mi chiese se avevo dolore al collo o alla schiena. Sembrava che stessi bene.

    Si riesce a sedere?

    Lo feci lentamente, preparandomi al dolore. Ma non ne provai.

    Va bene. Verrà visitata dal dottore, ma forse ci vorrà un po’. Hanno la precedenza i casi più urgenti. Posso avere il nome di suo marito e delle sue sorelle? E nel frattempo abbiamo bisogno che si registri anche lei.

    Le diedi le informazioni. Sentii lo stomaco contrarsi e la testa leggera. Volevo subito ricevere notizie su Ray e sulle ragazze, altrimenti mi sarei messa a urlare. Non sapevo neanche se li stessero trasportando nello stesso ospedale. Anzi…non sapevo neanche in che ospedale mi trovassi.

    La risposta a questo arrivò un attimo dopo, quando qualcuno del pronto soccorso si avvicinò con una cartellina piena di documenti da compilare. Iniziai a scrivere, ma il mio sguardo si poggiò presto su una coppia, in fondo al corridoio. Erano seduti insieme su una barella, sostenendosi a vicenda, e la donna aveva del sangue sulla fronte. Parlavano con un’infermiera. Sembravano entrambi spaventati, ed esausti. Devastati.

    Tornai a guardare il foglio, ma le mie orecchie sentirono parole che mi paralizzarono.

    Incidente.

    Daniel non aveva la cintura di sicurezza.

    Otto anni.

    Sbattuto fuori dall’auto.

    Rabbrividii.

    Avevo appena ricominciato a scrivere quando le porte del pronto soccorso si spalancarono. Il battito del mio cuore iniziò una folle corsa. Un piccolo gruppo di dottori, infermieri e paramedici entrarono correndo, stretti attorno a una barella. Si diressero in fretta verso l’unità traumatologica. Un solo sguardo, e mi trovai in piedi, stordita. Ray. Li seguii, correndo lungo il corridoio, dietro di loro.

    Di fronte all’entrata del reparto un’infermiera mi fermò. Non puoi entrare qui.

    É mio marito!

    Cedette, spingendomi contro il muro. Però devi restare qui, fuori dai piedi.

    Poi tornò al suo lavoro.

    Si muovevano in fretta. Prima spostarono Ray su un lettino, poi lo attaccarono a una sconcertante quantità di tubi e macchinari. Schermi che controllavano il suo battito cardiaco, la sua pressione e centinaia di altre cose.

    Ha bisogno di un catetere venoso centrale, disse uno dei medici. Un’infermiera gli tagliò la camicia e poi gli spruzzò un antisettico sul collo, vicino la clavicola. Un paio di secondi dopo, due di loro gli inserirono un lungo catetere bianco nel collo.

    Uno dei dottori iniziò a sputare istruzioni a un’infermiera alla velocità della luce, e io non capii nulla. Mi fu chiaro solo: Il dottor Peterson in neurochirurgia.

    Uno dei monitor iniziò a suonare, e l’infermiera disse con tono di voce calmo ma alto: Asistolia!

    La paura mi chiuse la gola quando li vidi iniziare a praticargli il massaggio cardiaco. Ero paralizzata, non riuscivo a guardarlo e non riuscivo a guardare altrove. Mi sembrava di svenire, e iniziai a deglutire per non vomitare.

    Epinefrina, disse uno dei medici, di nuovo con voce calma, anche se tutti non facevano che corrergli attorno.

    Trasalii e poi distolsi lo sguardo. Incrociai le braccia, tremando. Ti prego. Fa’ che Ray si riprenda.

    Trattenni il respiro, provando a non guardare. Ma non ci riuscivo. Il mio sguardo continuava a fermarsi sul suo corpo massacrato. C’era sangue ovunque. Il suo volto era incrostato, gonfio e quasi nero. I suoi capelli erano sporchi di sangue secco.

    Il lato sinistro del suo corpo, dalla gamba al braccio, era storto, come se le ossa fossero state schiacciate.

    Ti prego non lasciarlo morire. Non adesso. Non così.

    Guardavo e aspettavo, ma ogni cellula del mio corpo voleva solo correre verso di lui e stringerlo forte.

    Il monitor suonò, poi suonò di nuovo. I dottori e gli infermieri si fermarono. Si scambiarono un’occhiata e un sospiro di sollievo. Il suo cuore batteva di nuovo. Mi accasciai contro il muro. Nella mia mente non c’era altro che il vuoto.

    La porta si aprì lentamente, e una donna si avvicinò a me. Era di colore, aveva circa quarant’anni. Indossava la stessa uniforme ospedaliera verde di tutti gli altri.

    Signora Sherman?, disse piano. Sono Michelle Bilmes. Assistenza sociale ospedaliera.

    Sbattei le palpebre, ancora tremante e incapace di rispondere. Non riuscivo a distogliere lo sguardo da Ray e dai medici.

    Disse poi: Sono qui per dare sollievo ai familiari delle persone in rianimazione. Ti do del tu, se sei d’accordo. Ti va di fare due passi con me?

    Scossi la testa. Non vado da nessuna parte.

    Mi sorrise. Certo, va bene. Ma comprendi l’importanza del restare accanto alla porta e del non ostacolare l’uscita? Tuo marito è in condizioni gravissime, stanno facendo tutto ciò che possono per salvarlo.

    Non ostacolerò nulla. Sai qualcosa delle mie sorelle?

    Tua sorella Jessica è nella stanza accanto, con Sarah. Aggrottò le sopracciglia, poi mormorò: Anche Sarah è gravemente ferita.

    Chiusi gli occhi. Quanto gravemente?

    É troppo presto per dirlo. Ma stanno facendo il possibile.

    Annuii. Jessica è con lei?

    Sì. Lei sta bene…qualche livido, ma nulla di serio. É venuta in ambulanza con Sarah. Un dottore la visiterà presto, comunque.

    I miei occhi tornarono su Ray. Stavano ancora cercando di stabilizzarlo.

    Io…io ho perso il mio cellulare, dissi. Devo chiamare…la mia famiglia…

    Ho parlato al telefono con tua sorella Alexandra, le ho spiegato cosa sta succedendo. Mi ha detto che avviserà lei il resto della famiglia. E mi ha chiesto di farti sapere che lei e Dylan prenderanno il primo volo.

    Chiusi gli occhi, sollevata. Alexandra e Dylan stavano arrivando. Oh, buon Dio. Sono sempre stata io quella che correva dalle mie sorelle ogni volta che avevano bisogno di aiuto. Non mi sono mai accorta di quanto io avessi bisogno di loro.

    E poi mi sentii confusa, perché mia sorella era nella stanza accanto. Era anche lei in pericolo di vita. Ray invece era davanti a me. Non sapevo che fare. Non sapevo dove andare.

    Non potevo lasciare Jessica ad affrontare tutto questo da sola.

    Mi girai verso la signora. Scusami…ho dimenticato il tuo nome.

    Mi guardò con aria comprensiva. Michelle. Non preoccuparti, è normale.

    Posso andare un attimo da Sarah e Jessica?

    Certo…vieni con me.

    In quel momento la porta si aprì, e un uomo entrò nella stanza. Indossava abiti chirurgici e aveva quell’aspetto arrogante che avevo imparato ad associare alle personalità importanti. Si diresse verso il lettino facendosi largo tra gli infermieri. Iniziò dai piedi di Ray ed arrivò alla testa. Era chiaramente qualcuno di autorevole. I dottori e gli infermieri iniziarono a tacere non appena lo videro entrare, continuando il loro lavoro in silenzio. Si avvicinò ancora, puntò una luce sulla parte superiore del cranio di Ray, scrutando attentamente.

    TAC, ordinò. Poi preparatelo per l’intervento, immediatamente. Testa, poi gamba sinistra e braccio sinistro.

    Deglutii. L’uomo si allontanò da Ray, incamminandosi verso la porta. La sua visita era durata meno di un minuto.

    Si fermò davanti a me. Lei è la moglie?, chiese con voce inespressiva.

    Chiusi gli occhi. Aveva un tono imperioso, sicuro di sé, brusco. In qualsiasi altra situazione avrei avuto da ridire, ma lì, in quel momento, volevo solo che aiutasse Ray. Poteva usare la sua maleducazione come e quanto voleva.

    Sì. Sono Carrie Sherman.

    Guardò alle sue spalle, poi di nuovo verso di me. Suo marito è in condizioni molto gravi. Se non operiamo ora, morirà. Capisce?

    Fu come se mi avesse sferrato un pugno nello stomaco. Non riuscivo a respirare, neanche a pensare. Quindi annuii, cercando di trattenere le lacrime.

    Bene. Voglio che si allontani, devono prepararlo per l’intervento. La signora Bilmes le spiegherà meglio cosa sta succedendo, e poi le chiederà di firmare un paio di liberatorie. Suo marito ora è stabile, ma non fuori pericolo. E ancora non sappiamo se è in corso un’emorragia intracranica. Capisce ciò che sto dicendo?

    Sì.

    Bene. Aspetti fuori. Faremo il possibile per suo marito.

    Annuii, cercando disperatamente di mantenere la calma. Poi sussurrai: Grazie.

    Un sogno? (Ray)

    Guardai Carrie parlare con il chirurgo, mentre altri medici si affannavano sul mio corpo devastato, e mi sentii inutile. Non mi sono mai sentito così inutile in vita mia.

    No, non è vero. É successo anche altre volte.

    Avvertii quel senso d’inutilità il giorno in cui Carrie uscì dal National Institutes of Health con un’espressione sul viso a metà tra rabbia e dolore a causa delle accuse che le erano state rivolte. Accuse che minacciavano tutto ciò per cui lei aveva lavorato.

    La collera aveva prevalso. Le sue nocche bianche, tremanti, sul volante mentre tornavamo a casa.

    Mi sentii in quel modo un anno e mezzo fa. Febbraio 2012. Eravamo stati in perlustrazione per tutta la notte. Una perlustrazione da incubo. Non perché gli insorti ci sparassero, ma perché non lo stavano facendo. Non è pazzesco? Sì, lo è. Ma era anche spaventoso. Perché in quel nostro piccolo angolo d’inferno la regola era che se andavi fuori dal recinto, i cattivi ti colpivano. Sempre. A volte era solo lo sparo di un cecchino, altre una bomba in strada. E a volte era qualcosa di atroce, come l’ordigno che uccise Kowalski. Ma non c’era stata una singola notte in cui non ci avessero colpito mentre eravamo in perlustrazione. Mai.

    Ma quella notte tutto era filato troppo liscio. Stavamo tornando alla base operativa quando accadde. Per ironia della sorte eravamo solo a un quarto di miglio dalla base. Il che significava che qualcuno non aveva prestato attenzione, perché gli Haji riuscirono a sotterrare un’enorme e fottuta bomba in quella zona senza essere disturbati. Non ce ne accorgemmo neanche, perché i primi tre Hummer ci passarono proprio sopra. Poi il quarto Hummer, con Dylan e Roberts…fu quello a essere colpito.

    L’ordigno esplose sotto il lato del guidatore. Eravamo immediatamente dietro di loro, e vidi il veicolo saltare in aria. Dalla radio scoppiarono delle voci, tentando di stabilire un contatto. Poi sentii un forte schianto. Poi un altro. Le pallottole colpirono il lato guidatore del mio veicolo.

    Quella era la routine. Scendemmo in fretta, ci nascondemmo e iniziammo a sparare. I cattivi provarono a fuggire, i nostri aerei li inseguirono. Non so cosa sia successo poi con gli insorti, perché vidi Dylan, accanto a ciò che era rimasto del corpo di Roberts. La sua gamba era…maciullata. Il sangue usciva a fiotti. Gridai di chiamare un medico e iniziai a fasciargli la gamba con delle bende che erano del tutto inadeguate alle ferite. Presi il laccio emostatico e glielo strinsi sulla coscia. Dylan non stava urlando. Era cosciente, fissava il cielo.

    Andrà tutto bene, continuavo a ripetergli. Lui non rispondeva. Rimanemmo lì, immobili, ad aspettare il soccorso medico, che tardò tantissimo. Non c’era nient’altro che potessi fare per lui se non continuare a somministrargli la morfina e sperare che quel dannato elicottero arrivasse.

    Ci vollero settimane prima che sapessi qualcosa di lui. Girava voce che si fosse salvato, ma nient’altro…tutti sapevano che era probabile che perdesse la gamba. Quindi fu una specie di miracolo quando qualche mese dopo, di punto in bianco, ricevetti una sua email.

    Dylan non lo ha mai saputo, ma le sue email sono state per me un’ancora di salvezza. Mi ero intenzionalmente isolato, dopo aver visto i miei amici morire o restare gravemente feriti, e dopo averne persi alcuni per pura crudeltà. A quel tempo stavo scrivendo un diario, facendo foto, documentando tutto. Così, per precauzione.

    Ero felice che fosse riuscito ad andarsene prima che le cose peggiorassero.

    Prima di quel momento non avevo mai avvertito quel senso d’inutilità, ma da allora ne ho avuto da vendere. Quando l’esercito mi richiamò e dopo, durante il processo, ho odiato il fatto di non poter far nulla per Carrie. E lo odiavo anche e specialmente in quell’istante.

    Avrei voluto raggiungerla, stringerla a me e proteggerla. Avrei voluto dirle che tutto sarebbe andato bene, anche se non era vero. Ma era palese che non potessi fare nulla. Nessuno rispondeva alle mie domande, ed era chiaro che il mio corpo non facesse altro che restare lì, sdraiato su quel lettino, intubato.

    Gli infermieri stavano per rasarmi la testa. Operazione al cervello? Dio, speravo di no.

    Era successo tutto così in fretta che ancora non riuscivo a rendermene conto. Perché non si era fermato? Sembrava andare sui novanta, prima di schiantarsi contro di noi. Stava litigando con qualcuno al telefono? Era ubriaco? Non stava facendo attenzione alla strada? Chissà se i suoi bambini in quel momento erano a casa ad aspettare il loro ‘super papà’.

    Mi avvicinai a Carrie, la guardai negli occhi. Sembrava…persa…come se i suoi piedi non toccassero il suolo. Le sfiorai il braccio con la mano sinistra. Tremò. I suoi occhi sembravano cercare qualcosa nella stanza.

    Non torturarti.

    Sussultai nel sentire quella voce. Mi voltai di colpo.

    Mia cognata, Sarah, era accanto alla porta. Stranamente non indossava il suo solito nero. Aveva addosso un abitino rosso a pois bianchi, sui suoi fianchi scendeva morbida una cintura con un cuore scintillante. Non era decisamente da lei. Di solito Sarah propendeva per pelle, chiodi e teschi.

    Sarah? Non ho sentito il rumore della porta.

    Ovvio. Ci sono passata attraverso.

    Sentii una forte angoscia attanagliarmi il cuore.

    Suppongo che sarebbe stupido chiederti come stai.

    Alzò le spalle. Stanno preparando anche me per l’intervento. Stavo cercando di consolare Jessica, ma sarebbe inutile anche se questo non fosse un sogno. Comunque non riesce a sentirmi.

    Un sogno?

    Alzò un sopracciglio. Che altro potrebbe essere?

    Aveva ragione. Ma quello non assomigliava affatto a un sogno. Era diverso, era così amaramente reale. Sì, credo di sì. Sembra reale, comunque. Io vorrei solo poter fare qualcosa per Carrie.

    Sarah si avvicinò a me e osservò Carrie. Anche io. Sembra che stia malissimo. Non l’ho mai vista così.

    Uno dei dottori si rivolse a Carrie. Signora Sherman, ora lo portiamo in sala operatoria.

    Sarah disse: Dovrebbe chiamarla Dottoressa Sherman, non signora. La guardai. Da un lato aveva ragione, ma dall’altro non era proprio il momento di fare cavilli sui titoli.

    L’assistente sociale, o qualsiasi cosa lei fosse, disse con tono calmo: Carrie, ora dobbiamo andare in sala d’attesa. Avremo da compilare un paio di moduli, e poi accompagnerò te e Jessica davanti la porta della sala operatoria. Ok?

    Carrie sembrava essere intrappolata in un mondo tutto suo, come se non riuscisse a sentire nessuno. Come se fosse più fantasma di me. Dopo molto tempo, rispose: Ok.

    Volevo abbracciarla, consolarla. Volevo esserci, per lei.

    Pochi attimi dopo, guardai i medici che trasportavano il mio corpo fuori dall’unità traumatologica. A quello avrei pensato dopo. In quel momento volevo solo stare con Carrie.

    La Seconda Ora

    Non c’è da scherzare (Carrie)

    Jessica stava iniziando a crollare.

    Riuscivo a leggerglielo negli occhi. Sedeva accanto a me, mi guardava compilare i moduli dell’assicurazione. Le mani le tremavano sul grembo, i suoi occhi erano vitrei. L’infermiera del pronto soccorso parlava con la donna seduta dietro la scrivania, che nel frattempo raccoglieva i nostri moduli. Poi alzò lo sguardo verso di noi.

    Dobbiamo fare una visita completa anche a voi.

    Mi immobilizzai e guardai Jessica.

    Possiamo aspettare? Stanno per operare nostra sorella e mio marito.

    L’infermiera sospirò. Tu puoi aspettare, anche se non ti consiglierei di farlo. Ma tua sorella non è maggiorenne, e a meno che i vostri genitori non chiedano diversamente, lei ha bisogno di essere visitata ora. Capisco la vostra preoccupazione, ma nessuno dei due uscirà dalla sala operatoria prima di…molte ore. Dovete prendervi cura anche di voi stesse.

    Inspirai e annuii. Va bene.

    Da questa parte.

    Presi Jessica per mano e la guidai verso l’ambulatorio. Lei mi seguì, ma con poca energia. Credo che stesse iniziando a metabolizzare l’incidente. Mi venne in mente un episodio accaduto molto tempo prima. Papà aveva terminato il suo anno da ambasciatore in Russia, e l’intera famiglia tornò a San Francisco. Tranne Julia, che frequentava il college a Boston. Avevamo trascorso pochissimo tempo a San Francisco sino a quel momento, forse giusto nei periodi di vacanza. Quella casa aveva bisogno di tanto lavoro. Gli operai rimasero lì dentro per settimane, riparando muri, tubature e chissà che altro. Oltre a scompigliare le nostre vite, tutto quel trambusto stressava mia madre da morire. E l’unico posto in cui non volevamo trovarci quando mia madre era stressata era proprio accanto a lei.

    Io avevo diciassette anni, e mi preparavo a iniziare l’ultimo anno delle superiori. La mia età a volte mi rendeva la babysitter delle mie sorelle, altre la capobanda. Quel giorno volevo fuggire dal continuo martellare, inchiodare, sbattere…quindi decisi di portare Alexandra e le gemelle a fare un giro al parco giochi del Golden Gate Park. Era agosto, ma l’aria era fresca. Quella mattina aveva piovuto e la nebbia era ancora densa. Le gemelle indossavano delle carinissime giacche viola. All’epoca erano inseparabili, si tenevano per mano ovunque andassero.

    Parcheggiai vicino al Bowling Green Drive, e trascorremmo l’ora successiva a rilassarci nel parco, giocando sulle giostre e mangiando gelati. Successe mentre tornavamo all’auto. Sarah inciampò e cadde con le mani tese in avanti. Su una bottiglia rotta.

    Urlò fortissimo, e io corsi verso di lei. La presi in braccio, poi notai che uno sporchissimo frammento di vetro le si era conficcato nel palmo della mano destra. Era pallida, con gli occhi spalancati. Fissava la sua mano. Si calmò all’istante, nonostante la ferita.

    La guardai negli occhi. Starai bene, scimmietta.

    Sarah si avvicinò la mano agli occhi, studiandola. Carrie, puoi tirarlo fuori?

    Certo. Sanguinerà un po’, ok? Forse più di un po’. Sei pronta?

    Annuì. Le presi la mano. Un paio di passi più in là Alexandra stringeva la mano di Jessica. Jessica era pallida, con gli occhi umidi. Tremava. Come se fosse lei a sentire il dolore.

    Guardai Sarah e dissi: Ok, chiudi gli occhi.

    Scosse la testa. Voglio guardare.

    Come vuoi. Quindi, senza esitare, afferrai il pezzo di vetro nella mia mano sinistra e lo estrassi. Jessica storse il naso. Venne fuori subito, e il sangue, una grande quantità di sangue, iniziò a scorrerle lungo la mano.

    Fatto. Adesso andiamo a casa, ok? Hai bisogno di un cerotto.

    E di acqua ossigenata?, chiese speranzosa.

    Sì, anche di acqua ossigenata.

    Ahia!, disse Jessica.

    Sarah si voltò verso la sua gemella e disse: Va tutto bene. Non fa male.

    Presi un paio di fazzoletti dalla mia borsa e glieli passai. Tienili premuti contro la ferita.

    Annuì, prese i fazzoletti, li posizionò sul taglio e strinse il pugno. Poi allungò la mano sana verso quella di Jessica. Jessica si calmò all’istante.

    Io finii per ricevere la sfuriata di mia madre, ma riuscii a fare in modo che ad Alexandra e alle gemelle non toccasse la stessa sorte. Ero un’irresponsabile. Avevo messo in pericolo le mie sorelle, e non meritavo fiducia. Avevo già sentito quelle parole, quindi lasciai che mi scivolassero addosso. L’importante era che non se la prendesse anche con le mie sorelle.

    Quella non era la prima volta, e non sarebbe stata l’ultima, in cui Jessica sembrava avvertire il dolore di Sarah. E questo mi preoccupava molto, in quel momento. Perché non sapevo come avrebbe reagito all’intervento di Sarah. O…no. Quel pensiero era impronunciabile. Non avrei perso nessuno, in quel dannato giorno. Ray e Sarah sarebbero stati operati, e poi si sarebbero ripresi.

    Quando entrammo nell’ambulatorio, lei era pallida e tremante. Si sedette sul bordo del letto. La guardai negli occhi e le accarezzai le spalle.

    Ehi, Jess, Sarah starà bene. Ok? Starà bene. Respira. D’accordo?

    Chiuse gli occhi e sembrò calmarsi.

    L’infermiera mi sorrise, poi disse: Signora Sherman? Venga nella stanza accanto, il dottore vi visiterà entrambe tra pochissimo.

    Jessica, sono nella stanza accanto. Ok? Se hai bisogno, chiamami. E ricorda, Sarah starà bene.

    Lo affermai con sicurezza. Come se sapessi che sarebbe stata bene davvero. Che Ray sarebbe stato bene davvero. Che tutto sarebbe andato bene davvero. Non avevo quella sicurezza. Giuro che guardai Jessica dritto negli occhi, ripetendole di non preoccuparsi. Ma la verità era che la paura mi stava consumando.

    Seguii l’infermiera.

    Si accomodi, ci vorranno solo un paio di minuti.

    E così aspettai. La paura cresceva. Poco lontano da lì, Sarah e Ray erano sotto i ferri. Avrei dovuto essere lì, non seduta su quel maledetto lettino a girarmi i pollici. Non ero mai stata una nullafacente. Avevo sempre avuto bisogno di fare qualcosa. Leggere, studiare, scrivere, qualsiasi cosa. E in quel momento? Proprio quando qualcuno aveva bisogno di aiuto? Non poter fare nulla mi faceva impazzire.

    Quando la porta si aprì, sussultai. Un giovane medico entrò con dei fogli in mano. Carrie? Sono il dottor Chavez. Come stai?

    Può immaginarlo. Ho solo bisogno di andare davanti alla porta della sala operatoria.

    Annuì. Tuo marito e tua sorella sono in buone mani, Carrie. Nel frattempo dobbiamo assicurarci che tu stia bene. Non ci vorrà molto.

    Va bene.

    Prese uno sgabello e si sedette, poi si avvicinò. Fammi dare un’occhiata alla tua testa. Mi toccò la fronte.

    Sembra che qui stia per venirti un bel bernoccolo. Hai sbattuto contro il vetro?

    Sì. Ma non tanto forte.

    Hai perso conoscenza?

    Deglutii. Decisi di mentire. No. Mi sentivo solo un po’ stordita.

    Sei sicura?

    Sì.

    Continuò la visita, auscultandomi il petto, tastandomi i lividi. Ne ero piena. Mal di testa? Nausea?

    Un po’. A dire il vero, avevo un’emicrania accecante.

    Avverti dolore quando muovi il collo? Iniziò a muovermi la testa da una parte all’altra, delicatamente.

    Sono un po’ indolenzita, tutto qui.

    Il dottore sembrò perplesso. Temo un eventuale trauma cranico. Chiederò una TAC.

    Mi si attorcigliò lo stomaco. Voglio scendere in sala operatoria. Posso farla dopo?

    Mi guardò. Va bene. Ma se dovesse tornarti la nausea, o se il mal di testa dovesse peggiorare, facci sapere. Non c’è da scherzare con un trauma cranico.

    Mille volte peggio (Ray)

    Io e Sarah sedevamo l’uno accanto all’altra su un paio di sgabelli di plastica, a pochi metri di distanza da Jessica e Carrie. Sarah sembrava nervosa e annoiata. Continuava a giocherellare con una ciocca dei suoi capelli.

    Allora? Quando hai conosciuto Carrie?, chiese.

    Non avevo una gran voglia di parlare, specialmente del passato. Ma poi pensai a Sarah…diciassette anni. Non sapeva cosa stesse accadendo, non più di quanto ne sapessi io. E forse chiacchierare, di qualsiasi cosa, sarebbe stato meglio che restare seduti lì a rimuginare e a preoccuparsi.

    Quindi decisi di parlare. Di tenerla occupata, di non pensare a cosa stavamo passando. Era a San Francisco quando conobbi sua sorella, e con lei avevo trascorso solo qualche sporadico momento durante il concerto di Capodanno, e poi al matrimonio di Alex e Dylan. Comunque, mi sorprese il fatto che Carrie non le avesse raccontato del nostro primo incontro. Ma non ero sicuro di volerne parlare, quindi cambiai argomento.

    Come mai quel vestito?, chiesi. Non ti ho mai vista indossare qualcosa di colorato.

    Alzò le spalle. Ho chiesto prima io.

    Io sono più grande di te.

    Alzò gli occhi al cielo, poi scosse la testa. Sul serio? Ho quasi diciott’anni!

    Sorrisi. Tra quanto? Undici mesi circa?

    Mi ci sto avvicinando.

    Allora?

    Scosse la testa. Non so. Non indosso più roba del genere. Si guardò l’abito. Comunque io conosco questo vestito…e non ha senso, perché non dovrebbe entrarmi più.

    Alzai un sopracciglio. Lei sorrise. A mamma piaceva vestirci uguali. Sempre. Mi mandava fuori di testa, perché insisteva nel farlo anche quando andavamo alle medie. Ci aveva comprato questo abito per il Natale della terza media. Naturalmente uno per una.

    Quindi…non ho capito.

    Neanche io. Perché lo portai in garage e ci rovesciai sopra un litro di candeggina.

    Cosa?

    Mi lanciò uno sguardo triste. Mamma diede di matto.

    Ci credo, aveva ragione!

    Provaci tu a crescere senza una tua identità.

    La osservai. Prima di quel momento avevo visto Sarah solo due volte. Era sfrontata, decisa, un po’ cinica. Mi ricordava tanto un paio di ragazze Goth che avevo conosciuto al liceo. Tutto il contrario di Jessica, che era molto più riservata.

    Non fraintendermi, ma tu un’identità ce l’hai eccome!

    Scosse la testa. Solo perché ho cercato di farmela da sola. Ora sono intrappolata in questo sogno, o qualsiasi cavolo di cosa sia, e sembro Jessica.

    Non preoccuparti, Sarah. Presto finirà, in un modo o nell’altro.

    Restò in silenzio, poi chiese: "Secondo te

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