Di Nome Faceva Pietro
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Di Nome Faceva Pietro - Antonio Guzzon
immaginazione.
CAPITOLO I
Il foglietto del calendario appeso con un chiodo alla parete segnava: Martedì, 25 ottobre 1983
.
Pietro vi lesse anche il detto del giorno:
"Alcuni non se ne vanno per sempre. Sappi riconoscerli quando ritornano."
Anonimo
Pensò che la vita è come una ragnatela che lega allo stesso filo tutti quelli che si conoscono: si disse quindi certo di saper riconoscere, al loro ritorno, quelli che se n’erano andati, indipendentemente dallo stato in cui si sono ridotti. Riconobbe la voce della sua segretaria:
«Buongiorno principale, è arrivato più tardi del solito; va tutto bene?»
Anche quella mattina, Adriana entrò sorridente nel suo ufficio spalancando la porta dopo un solo colpetto con le nocche delle dita. Nell’altra mano teneva alcune buste.
Se non fosse stato per quell’alone di totale freschezza e simpatia che la sua collaboratrice spandeva tutt’attorno, Pietro le avrebbe ingiunto di attendere il suo permesso prima di entrare nell’ufficio. Sorridendo, scosse indulgentemente la testa per quella rinnovata intrusione e la osservò mentre gli si avvicinava con passo deciso. La trovò più carina del solito: indossava una nuova camicetta, verde petrolio, che si abbinava alla perfezione con il grigio della gonna, il biondo dei capelli e l’azzurro degli occhi. Il tacco alto delle scarpe magnificava la forma delle gambe. Aveva appena compiuto ventisei anni, quattro meno di lui.
«Salve, Adriana. Abbiamo corrispondenza?»
«Sì, c’è una lettera dalla società di Jeddah. Guardi, principale, per l’incontro con lei gli arabi propongono martedì 15 novembre alle nove del mattino nella loro sede. Ho già controllato la sua agenda, in quella settimana non ha altri impegni di lavoro. Domenica 13 ci sarebbe un volo diretto con la compagnia Volibene. Confermo l’incontro e riservo il volo?»
Pietro intrecciò le mani dietro la testa e adagiò la schiena contro la spalliera della sedia. Socchiuse gli occhi, fissando la riproduzione del dipinto Les coquelicots di Monet, appeso alla parete opposta.
«Sì, provveda pure, Adriana, e prenoti un posto anche per lei sull’aereo.»
«Devo venire anch’io in Arabia?» chiese la segretaria con un’espressione di sorpresa.
«Sì.»
«L’ha cercata sua zia Marta: dovrebbe richiamarla prima di mezzogiorno. Non se ne dimentichi.»
Così iniziarono i primi dieci minuti della giornata di lavoro di Pietro Dall’Arice. Era condirettore alla DALAR-Metallurgica, un’azienda specializzata in leghe metalliche, fondata vent’anni prima da suo padre Ennio, ancora attivo nel reparto della produzione.
A Pietro piaceva quell’attività: gli permetteva di lasciare l’ufficio, di viaggiare, vedere altri luoghi, uscire dai confini del paesello e dai muri della casa dove suo padre riuscì a farci stare tutti. La casetta era cresciuta in altezza e larghezza a mano a mano che nascevano i figli: Pietro per primo, Leandro cinque anni dopo e poi Giovanna, ora di ventidue anni.
Anche la zia di Pietro, Marta, sorella più anziana di sua mamma Pia, viveva in un appartamentino attiguo alla casa. Marta era rimasta vedova già all’età di trentasei anni senza figli e, benché nel seguito abbia parlato con diversi uomini, non si era più maritata. Con gli uomini sicuramente non ci aveva solo parlato, ma quando un uomo e una donna si frequentano, la gente del posto dice che si parlano.
Pietro decise di liquidare subito la pendenza con la zia e compose il suo numero.
«Grazie, Pietro, di avermi richiamato. Devo chiederti un favore; spero che non dirai di no a tua zia che ti vuole tanto bene e ti ha sempre aiutato ad arrangiare qualche scappatella quand’eri ragazzino.»
«Lo so, zia, che siamo amanti e complici di misfatti da lunga data. Un giorno o l’altro finiremo per farci compagnia in galera. Cosa posso fare per te?»
«Non raccontare fesserie! Ti chiedo solo di condurre me e Tina al camposanto di Cortelecchio.
Conosci Tina, vero? È la mamma di Jole: quel gran pezzo di figliola che fa la cameriera al bar del centro. Ha il diploma di maestra d’asilo, ma dice che guadagna di più a servire da bere alla gente.»
«Sì, le conosco, abitano alla Cascina Martinetti. E per quando sarebbe quest’allegra gita?»
«Oggi pomeriggio alle quattro, non dirmi di no perché so che oggi non hai molto da fare in ufficio. Me l’ha riferito Adriana. E mi ha anche detto che hai bisogno di qualcuno che guardi per te; oggi hai messo un calzino blu e uno nero.»
Pietro sollevò le gambe e, guardandosi le calze, rispose:
«Va bene, zia, ci vedremo alle quattro, fatevi trovare pronte.»
Riattaccando si chiese come Adriana avesse potuto distinguere quella quasi impercettibile differenza di colore.
Quando alle quattro del pomeriggio Pietro giunse a casa, non gli parve vero constatare che zia Marta e la sua amica Tina lo stavano già aspettando davanti alla porta d’entrata; parevano due statuette colorate. Una faceva ampi gesti con la mano per cacciare un insetto che insisteva a volare davanti al suo naso e l’altra teneva tra le braccia un grosso mazzo di fiori.
«La ringrazio tanto di essersi reso disponibile, Pietro. Spero che non le sia troppo disturbo. Porto dei fiori freschi al mio defunto marito, non ci metterò molto» gli si rivolse Tina.
«Ma che disturbo… figurarsi. Senza di noi si sarebbe annoiato a morte. Non è vero, Pietro?» intervenne Marta.
«Se lo dici tu, zia.»
Giunsero al cimitero. Pietro arrestò l’auto dinanzi al cancello di entrata e si affrettò ad aprire le portiere alle due signore.
«Pietro, noi entriamo, non sei obbligato a stare qui ad aspettarci.»
«Non preoccuparti, zia, sistemo l’auto che non sia d’intralcio e poi entro anch’io.»
A quell’ora il sole era già basso, le ombre lunghissime. Pietro aprì il cancello del cimitero e non poté far a meno di ammirarne il massiccio chiavistello di antica fattura, stupendosi di come funzionasse ancora alla perfezione. Espresse con la mente un elogio allo sconosciuto fabbro che lo costruì.
Zia Marta e la sua amica erano ferme dinanzi a una lapide e stavano bisbigliando. Pietro ebbe l’impressione che le due donne, più che non voler disturbare il sonno dei defunti, si raccontassero cose e fatti che non dovevano uscire dal mondo dei vivi.
Si addentrò nel cimitero osservando il cielo, tinto di larghe strisce gialle e rosse. Un cane abbaiava in lontananza e l’aria era illanguidita dal tramonto. Vide la bianca scia di un aereo e pensò che da lì a due settimane avrebbe pure lui volato in alto. Una società araba era interessata ai prodotti della DALAR e si prospettavano concrete relazioni commerciali. Assorto in tali pensieri, si era allontanato dall’entrata del cimitero e dalle due donne. Camminò a casaccio e, a un tratto, si rese conto di essersi fermato dinanzi a una tomba. La guardò e si disse che non era in un bello stato: recava i segni del tempo e non c’erano fiori, né veri né finti. Pietro alzò lo sguardo sulla lapide. Non c’era un epitaffio bensì solo il nome e il cognome della defunta.
Rosa Alba
Lusenti
2.VIII.1899
15.IX.1924
Fece mentalmente il calcolo: aveva vissuto solo venticinque anni e si chiese per quale motivo avesse dovuto morire così giovane. Avvicinò il capo al portaritratti ovale, in ottone: il vetro era molto sporco e s’intravedeva solo un’immagine in bianco e nero. Ne pulì il vetro con le dita, aiutandosi con la saliva, fino a quando apparve il viso della donna, dai lineamenti molto belli. Lo sguardo aveva un’espressione serena, dolce e amorevole. Gli parve che lei ricambiasse il suo sguardo.
«Pietro! Pietro!»
Sentì sua zia ed ebbe l’impressione che lo chiamasse per riportarlo al presente da un’altra dimensione, un altro tempo.
«Sono qui. Volete andare?»
«Abbiamo visto dove sei, ma è un quarto d’ora che ti aspettiamo. Cosa fai lì? Chi è?»
«Nessuno, zia. Arrivo.»
CAPITOLO II
«Non bevi il caffè, Pietro? Si sta raffreddando» gli disse Ennio, suo padre.
«Ero assente: stavo pensando all’incontro con gli arabi. Se l’affare andasse in porto, avremmo un aumento della produzione di almeno un terzo. Ci servirebbero quattro operai in più. Per i macchinari non ci sono problemi, quelli che abbiamo sarebbero sufficienti.»
«Come staremmo con le garanzie? Gli ultimi eventi in quelle zone, specie in Libano, mi hanno dato l’impressione che possa capitare di tutto da un giorno all’altro.»
«Ti capisco, ho fatto gli stessi pensieri. Comunque mi sono documentato e ritengo che non ci sia motivo di preoccupazione. Fra l’altro, l’Arabia è l’unico paese al mondo che vieta alle donne di guidare veicoli. Se fossimo assicuratori faremmo grandi affari.»
«Ti ho sentito, sai, io guido molto meglio di tuo padre» disse mamma dalla cucina, dove stava rigovernando le stoviglie della cena.
«Scherzi a parte: ieri sono andato in città e mi sono incontrato a pranzo con Pesalli, il direttore del Banco Espanso. Mi ha detto che si occupano di molte transazioni finanziarie con i paesi arabi.»
«Sul serio?»
«Mi ha riferito che in Arabia la quota economica è andata molto in crescendo. Da un regno desertico sottosviluppato, il commercio del petrolio ha trasformato lo Stato in una delle nazioni più ricche del mondo.»
«Ci credo, oggigiorno sembra che vada tutto a petrolio.»
«Tuttavia, da qualche anno a questa parte, il governo spera di sviluppare il settore privato per diminuire la dipendenza dal petrolio e aumentare l’autosufficienza nella produzione di prodotti agricoli e altri manufatti.»
«Non do loro torto: prima o dopo finiranno i giacimenti di petrolio. Bisogna chiudere la porta della stalla prima che le mucche se ne siano uscite tutte.»
«Vero! E qui entra in ballo anche la tua società, papà, con la tua tecnologia.»
«I nostri prodotti, Pietro, la nostra ditta. Non avrei mai immaginato di riuscire ad arrivare a ciò che abbiamo oggi. Dopo l’alluvione del ’51 ho più volte pensato che qui anche per me era finita e di dovermene andare come hanno fatto tanti e tanti altri.»
«Ha inciso così tanto l’alluvione sul destino di queste terre?» chiese Pietro.
«Sì, migliaia di persone hanno abbandonato per sempre casa e terra.»
«Non dev’essere stato facile dover prendere una tale decisione.»
«Molti se ne andarono per il timore che la cosa avesse potuto ripetersi.»
«E tu non avevi di questi timori?»
«Eccome se li avevo. Siamo vivi per puro caso io e tua mamma. Quando l’acqua cominciò a bagnarci i piedi anche al piano superiore della casa, salimmo sul tetto e da lì gettammo voci d’aiuto. Ci salvarono due tipi in barca che passavano per caso lì vicino e ci udirono.»
«Come poteva essere che quei due in barca si trovassero a passare da lì solo per caso?»
«La zona dove abitavamo era stata data per completamente sfollata già da parecchie ore, ma io non volli credere che l’acqua si sarebbe riversata con una tale furia sulle terre. Così ci rimasi e misi in pericolo le nostre vite, la mia e quella di tua mamma.»
«E dopo?»
«I due uomini ci portarono all’asciutto, sulle alture. Poi fummo accolti da una famiglia per tre mesi, tanto durò finché l’acqua se ne andò del tutto. Ci trattarono con molta gentilezza e carità.»
«E poi ritornaste a casa. Com’era la situazione?»
«Indescrivibile: abbiamo ripulito la casa da metri di fango, detriti e cadaveri di bestie. Ma il peggio venne quando giunse il tempo della semina e ci accorgemmo che nei campi non cresceva più niente: c’era troppo fango, frammisto alla terra, che al sole si trasformava in cemento e soffocava i semi.»
«Non c’erano rimedi per evitarlo?»
«Certo, ma non realizzabili in poche settimane. Così altra gente abbandonò i luoghi.»
Afferrando le tazzine vuote del caffè per portarle in cucina, mamma Pia disse:
«Sempre quando vengono le prime piogge d’autunno racconti questa storia. Sembri un disco rotto, sembri.»
«Papà, ho ancora qualche settimana di tempo per prepararmi all’incontro con gli arabi. Spero di avere calcolato tutto, anche il margine di guadagno, casomai dovessimo concedere degli sconti.»
«Hai carta bianca; mi fido di te.»
«Non ho fatto tutto io, è stato prezioso l’aiuto del ragioniere Orazio. Ma ora vado nella mia stanza. Buonanotte.»
Pietro si era procurato un elenco telefonico della regione. Lo sfogliò cercando il nome Lusenti, ma non lo trovò. Continuò così a fare supposizioni, congetture sul passato e destino di quella giovane donna, Rosa Alba, seppellita a soli venticinque anni. Forse era una persona di passaggio, vittima di un incidente e, non potendo risalire al suo luogo d’origine, venne sepolta qui. Ma scartò subito quella ipotesi perché, in tal caso, non ci sarebbe stata una fotografia che la ritraeva da viva. Forse era orfana e lavorava come cameriera o badante presso una famiglia agiata del posto. Oppure figlia di un console: ai consoli vengono assegnate provvisoriamente diverse circoscrizioni. Pietro trovò questa supposizione la più verosimile.
Sentiva di provare dell’affetto per quella sconosciuta e si chiedeva come ciò fosse possibile. Probabilmente si trattava solo di un sentimento di pietà e costernazione di fronte a un tale destino. Diverse volte si era innamorato di una ragazza e sapeva come ci si sente. E infatti si sentiva proprio così. Quel che però tormentava la sua mente era il fatto, come apprese da sua zia Marta, di essere stato dinnanzi a quella lapide per circa mezz’ora e di non avere avuto percezione di tutto quel tempo. Nonostante questi pensieri, riuscì infine a trovare sonno e si fece mattino.
«Adriana, mi devo assentare dall’ufficio. Se qualcuno mi cerca riferisca che ritorno nel pomeriggio» disse Pietro, cercando nelle tasche della giacca le chiavi dell’automobile.
«Se chiedono dov’è, cosa rispondo?»
«Dica che non lo sa.»
«Non mi crederebbero.»
«Sì, ma in compenso non dovrà mentire.»
Lei si voltò verso Pietro con sguardo apprensivo.
«Se non me lo vuol riferire, allora è qualcosa di cui si vergogna. Ha forse l’intestino indisposto e deve appartarsi?»
«Adriana, lei è formidabile, adesso però dovrà mentire se le chiedono dove sono. La saluto, ci rivediamo nel pomeriggio.»
Pietro le sorrise e uscì.
Adriana lavorava da tre mesi per la DALAR. Con il costante aumento dell’attività aziendale era divenuto indispensabile assumere del personale per l’amministrazione. Pietro la preferì alle altre candidate per il portamento, il modo gentile di esprimersi e anche per una luce particolare nel suo sguardo. In tale frangente, Adriana lo informò di essere stata abbandonata appena nata davanti alla porta di una chiesa e poi crebbe in un orfanatrofio. Infatti, nel suo curriculum vitae non aveva indicato i genitori. Il nome Adriana le venne dato dalle suore del brefotrofio e il cognome Cardellini lo ricevette da un incognito benefattore che le lasciò pure una cospicua somma