Helen
By Maxalla
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Helen - Maxalla
INDICE
I - Una nuova vita
II - In vacanza
III - Ricordi
IV - Un incontro
V - Epilogo
VI - Finale alternativo
Nota
HELEN
di MaXalla
Helen
Copyright © 2016 by MaXalla
Tutti i diritti riservati.
Questo racconto è un’opera di fantasia. Parte dei nomi, personaggi, luoghi ed avvenimenti sono frutto dell’immaginazione dell’autore e/o vengono utilizzati in modo fittizio. Ogni rassomiglianza a fatti, luoghi o persone, realmente esistenti o esistite, è puramente casuale.
Capitolo I - Una nuova vita
La pioggia picchiettava insistentemente sul vetro laterale della diligenza. Le gocce rigavano quella superficie lurida, tracciando una linea appena più pulita. Io seguivo quelle particelle d’acqua nella loro corsa verso il retro del veicolo da un po’ di tempo, da quando mi ero stancata di ammirare il lugubre paesaggio che attraversavamo. Il Northumberland¹ non presentava altro che disordinate colline, brulli campi divisi da muretti a secco e sparuti boschetti. Uno spettacolo malinconico, dipinto con i lividi colori di una piovosa giornata autunnale, che lentamente andavano spegnendosi con l’approssimarsi del tramonto: era triste a vedersi, come tristi erano i pensieri che affollavano la mia piccola testa. Era la prima volta che mi allontanavo da casa e quel viaggio poteva essere per me un motivo, se non di gioia, almeno di curiosità, ma la causa di quel trasferimento era dovuta alla mia infelice situazione familiare: mia madre era deceduta il mese precedente, lasciando solo un padre smarrito che non era più in grado di prendersi cura di me e che presto mi avrebbe lasciato.
«Una cosa inevitabile», aveva detto la signora Polley, la donna che mi sedeva accanto e che mi separava dagli altri passeggeri presenti nella sovraffollata vettura: una vecchia e spocchiosa governante, una coppia di giovani ed assonnati sposini, che indossavano ancora gli abiti del recente matrimonio, ed un russante commesso viaggiatore con la sua ingombrante valigia del campionario stretta fra le braccia.
«Manca ancora molto, signora Polley?», chiesi, distogliendo lo sguardo dal finestrino. Le decine di miglia percorse iniziavano a pesarmi, ero ansiosa che quella lunga giornata finisse: la stanchezza mi gravava addosso come un pesante fardello.
La matrona si volse e mi osservò attentamente. Vedevo riflesso nei suoi occhi lucidi il mio misero aspetto e sapevo di causarle una dolorosa fitta al cuore: ero una ragazzina di appena tredici anni, non molto alta ed assai magra, con un delicato viso pallido sul quale risaltavano due vispi occhi color grigio chiaro che, grandi com’erano, attiravano l’attenzione tanto quanto gli indisciplinati capelli rossi, di una tonalità molto vivace, che continuavano a sfuggire dalla dozzinale cuffietta di pizzo bianco da me indossata.
«No, cara... non molto... dovremmo essere quasi arrivati», mi rispose la signora Polley con una voce malinconica che la diceva lunga sul suo stato d’animo. Intuivo che era molto dispiaciuta di non avermi potuto tenere con sé, ma mio padre aveva deciso altrimenti, nonostante ella avesse strenuamente perorato la sua causa: egli era stato categorico ed irremovibile, certo della propria scelta.
Annuii e mi girai nuovamente verso il finestrino stringendomi sulle spalle la mantellina di lana verde, un capo del tutto inadeguato a riscaldarmi, come il mio abito di cotone a quadretti, il migliore che possedessi, non era adatto a quella giornata fredda e umida. L’unico calore su cui potevo contare era quello che emanava il voluminoso corpo della mia compagna di viaggio. Era un tepore confortante che, quando appoggiai la testa sull’angolo del sedile, mi fece addormentare profondamente.
La luce del giorno era ormai scomparsa quando la diligenza si fermò nei pressi di un’anonima porta scarsamente illuminata da una lanterna di vetro smerigliato. Sembrava l’unico varco attraverso un alto muro di cinta, intonacato e chiazzato di muffa, che si estendeva da entrambi i lati fino a perdersi nel buio. Il nitrito dei cavalli e la brusca frenata mi avevano svegliato. Ero intirizzita, il mio corpo intorpidito da tutti gli scossoni ricevuti durante il lungo tragitto, e mi guardavo attorno con aria assonnata.
«Vieni Helen, questa è la nostra fermata... dobbiamo scendere», mi disse la signora Polley, intercettando il mio sguardo disorientato.
Mi alzai di malavoglia dallo seppur scomodo sedile e raggiunsi la donna fuori dalla vettura. Le ruote della diligenza affondavano, come le mie scarpe, nello spesso strato fango della strada. La signora Polley parlò per qualche istante col cocchiere, poi mi prese per mano, si avvicinò alla porta e tirò energicamente la corda del campanello, che pendeva accanto a quell’angusto ingresso: sentimmo un tintinnio lontano.
Dopo un periodo interminabile, durante il quale rimanemmo sotto la pioggia che lentamente andava scemando, la porta fu aperta da una ragazza incappucciata da uno scialle grigio: aveva l’aspetto di una sguattera. Ella ci guardò con aria torva, poi domandò seccamente: «Lei è la signora Polley?»
«Sì», le rispose la mia accompagnatrice.
«E questa dovrebbe essere la signorina Burns...»
«Esattamente.»
«Bene... se vuole consegnarmi il bagaglio, condurrò la signorina all’interno dell’istituto.»
Intervenne il cocchiere, il quale consegnò alla ragazza una malconcia valigia di pelle marrone appartenuta a mia madre e che ora conteneva il mio scarso guardaroba.
La signora Polley si chinò su di me. Era una donna molto alta, corpulenta e l’aspetto massiccio poteva incutere un certo timore se non fosse stato per il suo carattere gioviale ed espansivo. In quel momento, però, era amareggiata e, quando il suo rotondo faccione fu al livello del mio, mi disse: «Ora segui quella ragazza. Da questo momento tu inizi una nuova vita. Mi raccomando, fai la brava bambina, studia e fai fruttare le quindici sterline della retta che abbiamo investito su di te. Quando sarai diventata più grande, verrò io stessa a riprenderti. Tu sai quanto io...», la sua voce si spezzò, «... ma tuo padre sa essere così testardo... è convinto che qui tu possa stare meglio che da me.»
«No, Emily! Non lasciarmi! Io... io... io non voglio andare lì dentro! Ho paura!», esclamai, abbracciandole le ginocchia. Lacrime di disperazione iniziarono a sgorgarmi dagli occhi ed andarono a confondersi con le ultime gocce di pioggia, che ancora cadevano sul mio viso. Credevo di averle piante tutte alla perdita di mia madre ma, evidentemente, la prospettiva di allontanarmi da un’altra persona cara, l’ultimo legame con la mia casa, mi terrorizzava.
«Non fare la sciocchina, Helen. Non c’è nulla da temere», mi spronò la signora Polley, anch’essa sul punto di piangere, «Se ti comporterai bene, non ci saranno problemi... e se ne avrai, potrai sempre contare sempre su di me. Scrivimi una lettera ed io verrò subito ad aiutarti.»
Non mi aveva molto convinto, ma sapevo di poter contare anche su un altro aiuto... quello di Dio che, come affermava mio padre, era sempre a fianco delle persone rette e vegliava su di loro. Stoicamente, ricacciai indietro le lacrime, mi staccai dalle sue vesti ed annuii.
«Bravissima, io...»
«Possiamo andare ora?», s’intromise la sguattera, impaziente.
La signora Polley si rimise eretta e la squadrò con tanta durezza che ella fece un passo indietro.
«Sì, è ora che ti lasci andare», disse nuovamente rivolta a me, poi passò la mia mano in quella della sguattera cui chiese, con tono burbero: «Come ti chiami?».
«Lucy», sussurrò la ragazza, timorosa.
«Ebbene, Lucy, tratta bene questa bambina... se non vorrai incorrere nella mia ira.»
«Sì, signora.»
La sguattera mi prese in consegna e fissò, con una certa soggezione, la signora Polley.
«Addio, Helen.»
«Addio, signora Polley», la salutai. Le lacrime minacciavano di spuntare nuovamente, ma riuscii a frenarle.
L’imponente figura della mia conoscente tornò a chinarsi su di me, le sue grosse mani calde avvolsero il mio viso e mi diede un bacio in fronte. Fatto questo, si sistemò l’enorme palandrana scura in cui era avvolta, si volse e risalì sulla diligenza. Il cocchiere fece schioccare la frusta e i cavalli si misero in movimento.
«Vieni!», ordinò Lucy, strattonandomi e facendomi varcare la soglia di quel nuovo mondo. Mentre la ragazza chiudeva la porta, intravidi la diligenza partire ed essere inghiottita dalla notte, lasciando dietro di sé solo alti schizzi di fango.
Lucy mi trascinava, nelle tenebre, attraverso quello che sembrava un vasto giardino. Sentivo l’odore dell’erba bagnata e lo scricchiolare della ghiaia sotto le mie scarpe. Dopo la comparsa della luna, fra le nuvole diradate dal vento che si era alzato, potei vedere il largo viale sul quale camminavamo. Quest’ultimo conduceva a una serie di nere costruzioni che si stagliavano sullo sfondo e, più precisamente, ad un’altra porta, illuminata anch’essa da una lanterna.
Quando la raggiungemmo, la ragazza spalancò l’uscio, prese un’esile candela di midollo di giunco, che era appoggiata su un tavolino, e mi condusse attraverso una successione di corridoi. La luce giallastra rischiarava a malapena il percorso per cui non ero in grado di notare alcun particolare di quel dedalo interno all’edificio. Giungemmo velocemente ad un’erta rampa di scale, la salimmo e, infine, Lucy aprì un’ennesima porta che dal pianerottolo ci introdusse in un enorme stanzone avvolto nell’oscurità. Il rumore di respiri regolari, qualche colpo di tosse e lievi cigolii mi fecero capire che quello era un dormitorio.
«Togliti gli abiti bagnati! Metti questa! Stanotte avrai un posto tutto per te, domani vedremo con chi abbinarti», ordinò Lucy, mentre illuminava un lettino e mi tendeva una camicia da notte di tela grezza che aveva estratto dalla cassettiera sistemata al fondo della branda.
Obbedii. Sfilai le scarpe infangate e le spinsi di lato, lasciai scivolare il mio fradicio vestito a quadretti sul pavimento, lo raccolsi e lo appoggiai sul mobile. Tolsi bustino e la sottoveste umida, indossai la camicia da notte e m’infilai nel letto. Il materasso era deformato, le lenzuola gelide e ruvide, il cuscino maleodorante... senza alcun dubbio, una scomoda sistemazione. Lucy non disse altro, fece un cenno d’assenso col capo e se ne andò via, portandosi dietro la candela. Rimasi sola a contemplare il buio, che mi sovrastava, e a riflettere sul mio incerto futuro. Dopo alcuni minuti, m’addormentai. La fatica del viaggio vinse le mie angosce e il disagio che provavo nel dormire in un giaciglio estraneo.
Quello, fu il giorno del mio arrivo all’istituto di Lowood.
- - -
Il penetrante suono di una campanella mi destò bruscamente: fu traumatico. Ero abituata all’argentino gorgogliare del ruscello, che scorreva nei pressi della mia casa, e al morbido bacio di mia madre sulla