Discover millions of ebooks, audiobooks, and so much more with a free trial

Only $11.99/month after trial. Cancel anytime.

Una lotta tenace. Storia di una donna e della sua passione
Una lotta tenace. Storia di una donna e della sua passione
Una lotta tenace. Storia di una donna e della sua passione
Ebook244 pages3 hours

Una lotta tenace. Storia di una donna e della sua passione

Rating: 0 out of 5 stars

()

Read preview

About this ebook

Il suo sogno, fin da bambina, era di sedere dietro una cattedra; di avere tanti volti davanti a sé nei banchi, felici di ascoltarla e ben disposti a lasciarsi guidare nella conquista del sapere e nella formazione umana. Maria Rosaria Iorio, tuttavia, presto scopre come fra i suoi ideali e la realtà in cui si trova a vivere ci sia un netto ed insanabile contrasto. È costretta a sostenere dure battaglie per godere di quei beni che aveva conquistato con la sua incessante fatica e coi sacrifici di una vita. Aveva portato a termine gli studi di base in scuole molto serie, affrontato quelli liceali in un Istituto famoso per il suo rigore, il rispetto della legalità e per la profondità del patrimonio culturale che da ai giovani. Con rosee prospettive compie gli studi universitari, pagandosi tasse e libri seguendo privatamente i figli più piccoli di alcuni suoi amici. Ma quando si ritrova in cattedra come docente ordinaria di Lettere nei Licei, inizia per lei una Via Crucis tutta in salita, senza tuttavia smettere mai di sperare che il sole alla fine torni a splendere.
LanguageItaliano
Release dateNov 3, 2016
ISBN9788899906207
Una lotta tenace. Storia di una donna e della sua passione

Related to Una lotta tenace. Storia di una donna e della sua passione

Related ebooks

Comics & Graphic Novels For You

View More

Related articles

Reviews for Una lotta tenace. Storia di una donna e della sua passione

Rating: 0 out of 5 stars
0 ratings

0 ratings0 reviews

What did you think?

Tap to rate

Review must be at least 10 words

    Book preview

    Una lotta tenace. Storia di una donna e della sua passione - Maria Cristina Iavarone

    Mormile

    Dedica

    Dedico questa mia narrazione innanzitutto ai miei genitori: Tammaro Iavarone e Rosa Mele, che mi hanno inculcato nell’animo, fin da tenera età, il senso del dovere, l’aspirazione a conseguire mete sempre più alte lavorando con impegno tenace e spirito di sacrificio, mi hanno dato il chiaro discernimento fra il bene e il male, la fiducia nel prossimo non scissa mai dalla riflessione razionale sui fatti concreti; la dedico poi a quei docenti che pure in tempi difficili non hanno smarrito il senso sacro del dovere e non hanno mai diminuito il loro entusiasmo per la funzione educativa dando alle generazioni la fiducia che nel sapere c’è la fonte dei beni più validi per il vivere umano.

    Prefazione

    Ho trovato interessante questa narrazione di Maria Cristina Iavarone perché mi ha fatto rivivere gli anni della mia carriera di docente. Ho conosciuto tanti colleghi che svolgevano la loro attività professionale senza infamia e senza lode come un mestiere qualsiasi di cui vivere, altri che si lamentavano fino alla noia dello stipendio inadeguato alle esigenze di vita di una famiglia. Questo comportamento m’irritava perché un individuo che era stato libero di scegliere la sua strada non si sarebbe dovuto lamentare del limitato compenso della sua opera. Certamente non poteva essere un modello da imitare per gli alunni che si avviavano per la propria strada un educatore con la sua faccia scontenta; la sua mancanza di entusiasmo avrebbe turbato la gioiosità dell’età più bella di tanti fanciulli. A qualche collega così spento talvolta ho avuto il coraggio di dire che lo stipendio degli operatori scolastici assegnato dal Ministero della Pubblica Istruzione non è lauto, ma egli non lo meritava neanche perché arrecava un danno morale agli alunni. Tuttavia in oltre quarant’anni di attività didattica ho incontrato professori e professoresse che si dedicavano con tanto amore agli alunni che avrebbero svolto la loro opera pure senza stipendio, se avessero avuto propri mezzi di vita. Maria Cristina Iavarone ci presenta una professoressa straordinaria, una donna di profonda umanità che si vota all’insegnamento con tutto il cuore, ma non è dolce di sale: mostra una tempra coriacea, un carattere forte e con chiarezza di giudizio fa solo quello che è il bene degli alunni. Non si ritira dalle situazioni difficili, le affronta con coraggio. E’ rispettosa verso quelli da cui dipende nel suo ruolo, ma non esita a scontrarsi con loro quando per viltà consentono che siano calpestati i diritti e la dignità delle persone che fanno il loro dovere. Se nella Scuola operassero più docenti come Maria Rosaria Iorio, avremmo delle generazioni migliori. L’esempio di una professoressa da 10 e lode potrebbe indurre all’emulazione tanti altri che nel tempo attuale insegnano scontenti e demotivati anche per l’attesa estenuante del posto, spesso precari per anni e anni. Maria Cristina Iavarone ha letto in modo accurato il suo personaggio per renderlo familiare, per farcelo vivere accanto, seguendolo nella sua lotta quotidiana per l’affermazione dei suoi principi. Il suo linguaggio scorre semplice, piano, ma fortemente efficace, direi coinvolgente, perciò la lettura non annoia.

    Anna Esposito

    Docente di Lettere in pensione

    A colloquio con Maria Rosaria Iorio

    Ho letto con vivo interesse il libro Una lotta tenace - Storia di una donna e della sua passionescritto da Maria Cristina Iavarone Mormile su di una professoressa da lei conosciuta e mi sono soffermata a pensare, come se volessi chiedere alla protagonista stessa di parlarmi un po’ di sé. Nel personaggio incontrato non mi ha colpito la professoressa che, insegnando, è passata attraverso bufere in un periodo storico in cui la Scuola diventa il campo nel quale i giovani iniziano a sfogare la loro rabbia per il precario presente e le incertezze del futuro; invece ha determinato in me una sensazione particolare la donna Maria Rosaria Iorio. Dal racconto, sempre molto incisivo, emerge con chiarezza che la protagonista ha sentito in sé una vera vocazione per l’insegnamento, una forte passione, ma sono convinta che se avesse svolto un’altra professione avrebbe combattuto lo stesso le sue battaglie, anche se in un campo diverso. Seguendo le vicende di Maria Rosaria Iorio dall’infanzia con i suoi sogni, nelle varie tappe della sua carriera di docente fino alla sua conclusione, affiora nel personaggio un carattere deciso, una mente chiara; ella sa quello che vuole e come può raggiungere la sua meta. Pare che le occasioni vengano a crearsi a bella posta perché la Iorio abbia un nemico da vincere davanti al quale non si spaventa, ma pone a se stessa una sfida ulteriore: non deve soccombere. Nel libro, che ho letto tutto d’un fiato, ho seguito l’evoluzione dei fatti per leggere in essi la struttura umana di una donna che si impone il coraggio di non avere paura anche quando è assalita dalla paura. Ammiro il personaggio, che appare descritto a tutto tondo, ma rivolgo il mio plauso alla scrittrice che ha saputo esplorare il fondo di una coscienza; è scesa nella psiche del suo personaggio, l’ha rivoltato come un calzino affinché non le sfuggisse nulla della donna Maria Rosaria e della professoressa Iorio.

    A cura di Piera De Lucia

    Prof.ssa di lettere

    Presentazione

    Maria Cristina Iavarone ha ritenuto opportuno dedicare il suo interesse ad una professoressa da lei conosciuta per caso e presa a modello nella sua attività professionale, svolta sempre con impegno e con spirito di sacrificio anche quando si faceva sentire il peso degli anni e le generazioni da istruire e da educare diventavano sempre più difficili da plasmare. Nell’arco di mezzo secolo sono cambiate tante cose e la Scuola ne ha percepito gli effetti attraverso la condizione di malessere dei giovani. La didattica non è riuscita ad adeguarsi al mutamento dei tempi perché l’eterno divenire delle forme di vita ha messo in luce carenze gravi nell’opera della Scuola come se l’Istituzione Scolastica e la società avessero fatto di continuo la stessa gara del pièveloce Achille e la tartaruga. Ogni innovazione è stata salutata come quella giusta per suscitare interesse allo studio e ai valori della vita nelle generazioni, ma spesso il rimedio si è rivelato peggiore del male. Constatiamo che la Scuola ha perso la sua sacralità; molti giovani stanno in essa costretti dai genitori e ne fanno scempio alla prima occasione, altri sono riluttanti ad accettarne le regole perché si sentono senza prospettive per il futuro e non hanno fiducia nelle Istituzioni che danno quotidianamente esempi di inquietante negatività. Tuttavia i docenti che amano il loro dovere e mirano ad una sana formazione dei giovani sanno inculcare in loro quei valori che sono il vero viatico per una vita retta, per una vita di cittadini che sanno seguire la giusta strada anche se infuria intorno a loro la follia umana. Una professoressa come Maria Rosaria Iorio lascia nei suoi alunni un’ impronta tale che essi sapranno vivere bene in qualsiasi campo si trovino ed operare nella loro scelta di vita.

    Maria Cristina Iavarone Mormile

    Capitolo I

    I sogni di una bambina

    In una ridente cittadina della nostra Italia, in una regione famosa per i tartufi e i funghi viveva nella più grande gioiosità Iorio Maria Rosaria; fin da bambina sognava di diventare professoressa come una signorina del suo rione che vedeva spesso affacciata al balcone a contemplare il movimento della strada specie in giorni particolari: quando si svolgeva il mercato settimanale, oppure ricorreva la festa patronale con pittoresche scene di vita paesana. La professoressa insegnava all’Istituto Magistrale Statale di un paese vicino; quando ritornava a casa si riposava e poi si dedicava alla cura del giardino della villa in cui abitava con un fratello, aiutata da una dolce e laboriosa ragazza di nome Clorinda, la quale era brava anche nello svolgere le faccende domestiche. La professoressa Buccino aveva sempre un volto sereno, uno sguardo luminoso; sembrava l’immagine della felicità. Andava ad assistere alla messa di mezzogiorno ogni domenica in una chiesa di monaci francescani e dava sempre una lauta offerta per i poveri del paese, quando il frate cercante passava per le file degli scranni con il cestino delle elemosine. Inoltre dava delle monetine a ogni mendicante che chiedeva la carità fuori alla chiesa. Clorinda era figlia di contadini ed era entrata a prestare il suo servizio in casa Buccino quando aveva appena dieci anni. Aveva frequentato solo le prime due classi della Scuola Elementare e poi aveva iniziato ad aiutare i genitori nel lavoro dei campi. Ma il terreno che questi coltivavano come coloni fu venduto ad un appaltatore che aveva intenzione di costruirvi un parco residenziale. Questo fu un brutto colpo per i genitori di Clorinda, i quali facendo economia su tutto, con la collaborazione pure dei figli piccoli, avevano comprato un palazzetto con un ampio cortile nel quale si potevano svolgere facilmente alcuni lavori agricoli, allevare animali utili come anatre, polli, conigli e ricavarne un certo guadagno con poca spesa perché in genere per la loro alimentazione si usavano scarti di frutta e di verdura. Ma era stata data solo una parte del denaro; entro due anni si doveva versare al proprietario dell’immobile il tutto. La famiglia aveva dei risparmi, ma li aveva utilizzati nella ristrutturazione della casa secondo le nuove esigenze: nel cortile era stato costruito un grande pollaio e un forno in cui si potevano cuocere anche venti pezzi di pane per volta. La madre di Clorinda era molto brava a fare il pane; lo impastava con tanta cura che era morbido pure dopo due giorni dacché era stato fatto. Ogni giorno cuoceva un forno di pane, il cui odore si diffondeva intorno alla casa e molte persone andavano a comprarlo. Il guadagno che faceva era notevole ed equivaleva al compenso di una giornata di lavoro in campagna dalle ore 8 alle 18. Il padrone del palazzetto era una brava persona che vendeva la sua proprietà perché si sarebbe trasferito in Svizzera dove vivevano i suoi figli e voleva realizzare del denaro con cui comprare anche un monolocale con accessori alla periferia di Ginevra. Diede un po’ di respiro ai suoi amici perché all’inizio sarebbe stato ospite dei figli, ma anche per umanità nel rendersi conto della dura vita che facevano tutti della famiglia per realizzare il loro sogno. Quando i coniugi D’Auria seppero che entro un anno al massimo avrebbero dovuto lasciare la terra si sentirono buttati in mezzo alla strada. Qualche persona di animo generoso come un’arpia in agguato, conoscendo le condizioni della famiglia, si offrì come benefattrice: era disposta a risolvere il debito, dare un altro po’ di denaro e prendersi il palazzetto che era stato rimesso a nuovo e fornito di tutti i servizi necessari per l’attività agricola. Allora la madre, il padre e i loro figli si strinsero insieme come le cinque dita di una mano decisi a lottare; avrebbero completato i lavori della casa, ma invece di ultimare il capannone per gli attrezzi della campagna avrebbero creato un ambiente per la panificazione con regolare permesso dell’Ufficio Sanitario. Così ogni giorno Concetta la zappatrice, diventata Concetta la panettiera, faceva due forni di pane: uno al mattino e un altro al pomeriggio e lo vendeva appena sfornato a massaie che lo ordinavano il giorno prima. Alcune famiglie avevano problemi particolari per cui nessuno poteva uscire ad una certa ora per andare a prendere il pane, ma queste consumavano oltre tre panelli (pezzi) di pane al giorno e pagavano subito, mentre vi erano clienti che davano il denaro a fine settimana o addirittura alla fine di ogni mese. I figli di Concetta: Clorinda di dieci anni e Matteo di otto anni facevano le consegne a domicilio; il primo figlio Giuseppe di dodici anni aiutava la madre ad accendere le fascine nel forno per riscaldarlo al punto che si potesse cuocere il pane, spaccava la legna e raccoglieva la brace per farla spegnere negli stufaruli (cilindri di stagno con coperchio in cui si spegnevano i carboni ardenti perché fossero utilizzati all’occorrenza) e trasformarla in carbonella. Questa pure dava un certo guadagno perché era comprata dai poveri che si riscaldavano la casa accendendola in bracieri di stagno. Il padre di famiglia coltivò il suo campo finché gli fu possibile, poi iniziò a lavorare come bracciante tuttofare presso chiunque lo chiamasse per guadagnarsi la sua giornata in un modo o in un altro.

    Nel forno c’era spazio oltre che per venti pezzi di pane anche per cinque ruoti, perciò delle massaie preparavano panettoni o pizze, ruoti di pollo e patate o di agnello e patate, chiedevano a Concetta di infornarli e pagavano lo scomodo. Clorinda spesso portava il pane caldo alla signorina professoressa che la guardava con tanta tenerezza, aggiungeva ai soldi per la madre anche una mancia per lei e con un sorriso le diceva di comprarsi quello che le era gradito; ma la bambina faceva cadere queste monetine in un salvadanaio di terracotta che avrebbe rotto a Natale per fare un regalo al papà e alla mamma. Un giorno la professoressa Buccino chiese a Clorinda se le fosse gradito stare nella sua casa l’intera giornata, con l’affetto di una nipotina, non con il trattamento a cui si sottopone una servetta. Ella era sempre sola; il fratello era inesistente per lei, intento al suo lavoro dalla mattina alla sera. La bambina rispose che ne doveva parlare alla madre, ma per conto suo ne era lieta. La professoressa fu accontentata e Clorinda iniziò un nuovo periodo della sua vita che le sembrava un sogno. Non le era dato alcun ordine perché le fatiche della casa erano svolte da un’operaia del calzificio, la quale un giorno alla settimana, quando la professoressa era libera dal suo servizio, rassettava tutta la casa eseguendo i suoi ordini con massima attenzione. Inoltre ogni giorno smetteva di lavorare in fabbrica alle ore 14 invece che alle 16, governava la cucina e andava via. Clorinda iniziava a svolgere lievi commissioni, come andare ad imbucare una lettera, a prendere il pane o comprare qualcosa che serviva per qualche improvvisa necessità. La professoressa provava un grande affetto, anzi una tenerezza quasi materna per la bambina, perciò le propose di lasciarsi guidare da lei e prepararsi per conseguire la licenza della Scuola Elementare. Clorinda veniva a prendere il pane per la signorina Buccino sempre alla stessa ora: quando si sfornava il pane del pomeriggio e passava davanti alla casa di Maria Rosaria che provava per lei una sorta di invidia, senza cattiveria però, perché ella viveva a contatto con la professoressa da lei ammirata. Frequentava la terza classe della Scuola Elementare quando s’incontrò con Clorinda al forno della madre e le chiese se voleva dire alla signorina Buccino che desiderava molto conoscerla; perciò se era disposta a riceverla le sarebbe stato molto gradito andarla a trovare. Fu accordato il permesso dalla madre e la domenica mattina Maria Rosaria, accompagnata da Clorinda, fece visita alla professoressa portandole pure un mazzetto di fiori di pesco. Fu accolta con un sorriso cordiale nella cucina della casa dove era stato preparato un vassoio di biscotti vari e una profumata tazza di cioccolata. La bambina era emozionata: consumò dei biscotti, sorseggiò la cioccolata, ma desiderava vedere lo studio: quella stanza dove c’erano tutti quei libri che l’avevano fatta diventare professoressa delle scuole grandi cioè delle scuole superiori. Giovanna Buccino la introdusse nella stanza-studio dove c’erano librerie per tre pareti intere, che andavano dal pavimento al soffitto, piene di libri disposti con cura. La bambina restò incantata e chiese: «Li avete letti tutti questi libri per diventare professoressa?». La docente sorrise e rispose: «Quasi tutti».

    Maria Rosaria disse che voleva studiare tanto per essere pure lei una professoressa, però non sapeva se i genitori le potevano comprare tanti libri. La signorina Buccino la rassicurò: «I libri si comprano via via: è necessario studiare bene i libri scolastici di anno in anno e questi non costano troppo, però gli alunni molto meritevoli sono premiati con borse di studio cioè con l’assegnazione di un premio in denaro per affrontare le spese scolastiche l’anno successivo, nel corso dei loro studi». Maria Rosaria era raggiante di gioia e asserì che voleva studiare tanto da ottenere la borsa di studio ogni anno, così il papà e la mamma avrebbero risparmiato i soldi per lei. Si era al mese di marzo e la bambina, che già aveva riportato buoni voti nel suo profitto, affermò che avrebbe studiato tanto da meritare lodevole cioè 10/10 in tutte le materie scolastiche. La professoressa con disponibilità e dolcezza le disse che era lieta di vederla di tanto in tanto e se avesse riportato lodevole in ogni disciplina le avrebbe regalato un bel libro. Erano trascorse come un soffio due ore in casa Buccino e Maria Rosaria fece ritorno a casa piena di entusiasmo per quell’incontro. Faceva ogni giorno tutti i compiti con massima attenzione, leggeva i libri di favole delle sorelle maggiori e le esponeva alla madre per diventare più capace di esprimersi in lingua italiana corretta: infatti nella famiglia si parlava dialetto ed ella faceva un grande sforzo quando doveva sostituire l’italiano al dialetto. Spesso le capitava di capire il significato di una cognizione e di non saper trovare le parole adatte per esporla. Il papà e la mamma usavano in genere l’espressione dialettale, ma riuscivano pure a parlare nella lingua nazionale senza difficoltà, perciò Maria Rosaria si metteva accanto alla madre che sferruzzava, raccontava episodi che avvenivano a scuola, descriveva scene a cui aveva assistito per la strada e le chiedeva di correggerla se sbagliava nel parlare. I coniugi Iorio avevano frequentato le scuole elementari che allora erano di sei anni ed avevano arricchito la loro cultura leggendo libri vari e giornali, presi in parrocchia, in tutti gli spazi di tempo libero. Inoltre si sentivano obbligati ad usare l’Italiano nei loro rapporti con amici di condizione sociale più elevata, quasi tutti impiegati statali forniti di un titolo di studio di grado superiore.

    Giorgio Iorio era applicato di segreteria in una scuola di avviamento professionale di indirizzo commerciale, ma coltivava pure un bel giardino che sembrava un prodigio della natura in ogni stagione dell’anno. In esso si vedeva frutta stupenda, dalla primavera all’autunno, crescevano ortaggi rigogliosi e tanti fiori; venivano allevati conigli, oche, anatre, galline e colombi. Alcuni docenti e colleghi di segreteria avevano figli quasi coetanei di quelli di Giorgio Iorio e spesso nei giorni non lavorativi li conducevano a giocare con questi nel loro giardino incantato. In questi incontri tutti si esprimevano in una forma linguistica un po’ addomesticata, ma non nel gergo dialettale. Il papà di Maria Rosaria gradiva molto che tutti i figli respirassero l’aria della cultura comunicando con queste persone amiche perché aspirava a vedere laureate o almeno diplomate anche le sue tre figlie. Perciò portava a casa i giornali che arrivavano a scuola per gli alunni e prendeva alla parrocchia periodici adatti ai grandi e ai piccoli affinché nascesse in ogni

    Enjoying the preview?
    Page 1 of 1