La Politica estera di Barack Obama
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La Politica estera di Barack Obama - Gabriele Neri
mondo?
Change
Un luogo comune sulla figura politica di Barack Obama riguarda la sua spiccata preparazione in materia di politica estera. Uomo politico progressista dalla storia familiare a vocazione multiculturale, vissuto tra le Hawaii, l’Indonesia e gli States, da Presidente ha affidato il Dipartimento di Stato, ministero centrale in ogni amministrazione, alla sua principale rivale durante le primaries 2008, Hillary Clinton.
Figura pubblica molto amata nel mondo, al punto da diventare un’icona pop, è in realtà assai dibattuta sul fronte interno. Tra le offensive di matrice repubblicana a suo discredito, spicca su tutte l’accusa circa l’effettiva cittadinanza americana di Obama, chiamato a mostrare pubblicamente il certificato di nascita[1] per legittimare la sua prima elezione agli occhi di un elettorato conservatore che arriva a stigmatizzarlo anche come musulmano[2].
Da senatore eletto nello stato federale dell’Illinois, l’attuale Presidente, si è in effetti occupato di relazioni internazionali, come membro dell’omonima commissione del Senato, come presidente del comitato per gli affari europei del Senato e viaggiando con il Senatore Richard Lugar in Russia, Ucraina e Azerbaijan nell’ambito di un programma internazionale per la riduzione degli armamenti non convenzionali.
Ma è proprio nella sua storia personale, nel cambiamento che incarna per appartenenza etnica che probabilmente nasce il mito di Obama come uomo del cambiamento e della speranza, non solo per l’America ma per il mondo tutto. Salutato con giubilo da molti paesi africani e con soddisfazione dall’opinione pubblica dei paesi asiatici, l’Obama del 2008 ha rappresentato la rottura necessaria con le precedenti amministrazioni Bush.
Egli stesso, consapevole della spendibilità della sua immagine nelle relazioni estere, si è affrettato, tra le prime visite di Stato, nel corso dell’estate 2009, a omaggiare il Ghana[3] (elogiato come un esempio di democrazia matura dell’Africa nera) e il Kenya, patria di suo padre, pochi mesi dopo aver visitato l’Egitto in una memorabile tappa nel paese allora ancora governato da Hosni Mubarak.
Spendibilità misurabile più in termini di risultati ottenuti nel corso del primo quadriennio di presidenza che politici. Obama è il presidente che ha posto fine alla guerra in Iraq, catturato e ucciso Osama Bin Laden, appoggiato (ma non sostenuto) la primavera araba. E’ vincitore, il 9 ottobre 2009, del premio Nobel per la pace, a meno di un anno di insediamento alla Casa Bianca: un premio in effetti più agli intenti che tarato su effettivi riscontri oggettivi.
Agli occhi degli americani tutto questo, paradossalmente, non è materia sul quale valutare l’operato del Presidente. L’aveva capito bene Mitt Romney, che nel corso dell’ultimo dibattito televisivo prima delle elezioni 2012 dedicato proprio alla politica estera, lo aveva attaccato a sorpresa dirottando la discussione su occupazione e ripresa economica.
Una sensibilità che il corpo elettorale americano dimostra storicamente, in tempi di crisi, come se il paese – potenza mondiale nel corso di tutto il secolo scorso – si ritirasse davanti alle crisi economiche per occuparsi del suo stato di salute interno.
[1] Durante la campagna presidenziale 2008 lo staff di Obama risponde sul web alle accuse sostenute anche da Donald Trump pubblicando una foto del certificato di nascita del Presidente, rilasciato dallo stato federale delle Hawaii.
[2] Nei primi mesi del 2009 sulla billboard del movimento ultra conservatore Tea-Party (www.teaparty.org) prende vita una campagna mediatica Osama-Obama
col chiaro intento di giocare sull’assonanza tra i due nomi per denunciare le origini mussulmane, e quindi, in ottica W.A.S.P., non-americane del presidente. L’offensiva assumerà toni molto forti al punto da spingere il Presidente in carica a dichiarare pubblicamente la sua affiliazione alla chiesa battista, seppur da non praticante. L’adesione, con battesimo in età adulta, è testimoniato nell’autobiografia edita in seconda edizione nel 2006, due anni prima della prima elezione.
[3] Obama pronunciò un discorso programmatico inserito in un più ampio indirizzo di politica estera preannunciato pochi mesi prima dal Segretario di Stato Clinton, fortemente