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Brodo caldo per l'anima. Angeli tra di noi
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Brodo caldo per l'anima. Angeli tra di noi

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About this ebook

Un argomento inedito e insolito per la serie BRODO CALDO PER L’ANIMA. Gli autori, per la prima volta, propongono storie di persone che condividono le loro personali esperienze di incontri angelici.
«Angelico», «celeste», «ultraterreno», sono tutti aggettivi che potremmo usare per descrivere l’incontro con una creatura di luce, ma qualunque sia il termine impiegato, rimane il fatto che non esiste una spiegazione razionale per ciò che sperimentiamo: in casi come questo, chiaramente, siamo di fronte a una potenza superiore all’opera.
Le storie vere raccolte in questa antologia e vissute da persone «normali», credenti e non, sono testimonanze di speranza, guarigione e soccorso angelico.
I libri della serie BRODO CALDO PER L’ANIMA, bestseller internazionali venduti in più di 40 paesi nel mondo, sono stati definiti dalla rivista Time «il fenomeno editoriale del decennio».
LanguageItaliano
PublisherArmenia
Release dateNov 14, 2016
ISBN9788834435410
Brodo caldo per l'anima. Angeli tra di noi

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    Book preview

    Brodo caldo per l'anima. Angeli tra di noi - Jack Canfield

    autorizzata.

    I.

    Interventi miracolosi

    1.

    Salva per miracolo

    La natura non ha pietà. La natura dice: «Farò nevicare. Se indossi il bikini anziché le racchette da neve, peggio per te. Farò nevicare ugualmente».

    Maya Angelou

    La voce spasmodica di mio padre arrivò attraverso il telefono: «Ho finito le medicine». Da quando era invecchiato, cercavo di ricordargli di non esaurire le scorte di farmaci, ma eravamo alle solite, in un bel guaio. Aprii la tendina della finestra e guardai fuori. Nevicava dalle prime ore del mattino e la mia auto era sepolta sotto almeno quindici centimetri di polvere bianca. Trassi un profondo respiro e riflettei per un istante. «Non preoccuparti, papà», dissi. «Chiamo la farmacia e vado a ritirarle».

    «Stai attenta», mi raccomandò. «Si direbbe che la strada stia diventando scivolosa».

    Non lo stava diventando, lo era già. Dopo aver riagganciato restai alla finestra ancora per un minuto e osservai le macchine che avanzavano lentamente, con gli pneumatici che non facevano più presa sull’asfalto. Non ero impaziente di mettermi in viaggio benché la casa di mio padre fosse a soli due chilometri e mezzo di distanza, con la farmacia lungo il percorso. Indossai vestiti pesanti e presi le chiavi della macchina. Mentre scendevo i gradini davanti al portone, udii la sirena di un’ambulanza che urlava sulla strada principale. Un incidente. Riportai dentro le chiavi e mi strinsi un po’ di più la sciarpa intorno al collo. Meglio andare a piedi.

    Quando il tempo era bello, facevo quella passeggiata con una certa frequenza. Mi piaceva tenermi in esercizio e scambiare quattro chiacchiere con i vicini lungo il tragitto. Ma quel giorno, in quelle condizioni, non ne avevo nessuna voglia. Quando raggiunsi la farmacia, però, capii che uscire a piedi era stata la decisione giusta. Le auto avevano difficoltà ad avanzare, fare retromarcia e fermarsi.

    Mentre affrontavo l’ultimo tratto, alzai gli occhi verso il cielo grigio e recitai una muta preghiera di gratitudine per la mia incolumità. Di lì a poco, la situazione cominciò persino a piacermi. L’aria pungente era abbastanza fredda per essere corroborante e mi ritrovai ad apprezzare le scene e gli odori della recente nevicata. In realtà non mi succedeva da quando ero bambina.

    Poi, mentre ero immersa in queste riflessioni, sentii una mano che mi afferrava il gomito e mi dava un violento strattone. Incespicai per un paio di metri sul prato di un vicino e vidi un’auto che, sbandando, saliva sul marciapiede e si fermava nel punto esatto in cui avevo camminato fino a poco prima. Sbalordita, mi ripulii e mi voltai per ringraziare chiunque mi avesse allontanata dal pericolo. Tuttavia non c’era nessuno, e sulla neve si vedevano solo le mie impronte. Mentre mi incamminavo nuovamente, recitai un’altra muta preghiera di gratitudine, questa volta per l’angelo che era stato mandato a sorvegliarmi e tenermi al sicuro.

    Monica A. Anderman

    2.

    Una piuma bianca

    Gli angeli custodi della vita volano così in alto da essere invisibili ai vostri occhi, ma hanno sempre lo sguardo puntato su di noi.

    Jean Paul Richter

    Erano circa le dieci di un sabato mattina. Dopo aver cambiato mia figlia Holly, che all’epoca aveva otto mesi, decisi di andare a comprare qualcosa per il pranzo. Vivevamo in un paesino e, anche se occorrevano solo dieci minuti per raggiungere i negozi più vicini, il percorso si snodava lungo diversi sentieri angusti. Abitavo lì da sempre, perciò conoscevo la strada come le mie tasche.

    Legai Holly sul seggiolino e partimmo, ascoltando il suo CD di filastrocche preferito. Arrivammo in centro, andammo nella panetteria e all’ufficio postale, quindi rimisi la bambina in auto e ripartimmo verso casa.

    I sentieri non erano adatti per i veicoli pesanti, ma i camionisti si ostinavano a usarli come scorciatoia per la strada principale. Negli anni avevo firmato molte petizioni proposte da altri residenti, ma il consiglio comunale non aveva mosso un dito. Così guidai con estrema prudenza, specialmente lungo una svolta molto stretta che aveva quasi una forma a S ed era poco più larga di un’auto. Se fosse arrivato un altro veicolo dalla direzione opposta, uno dei due avrebbe dovuto indietreggiare di qualche metro per permettere all’altro di passare.

    Mentre ci dirigevamo verso casa e ci avvicinavamo alla curva, schiacciai delicatamente il freno in caso comparisse una macchina dall’altra parte. Quando superai la svolta, vidi un enorme camion rosso che veniva diritto verso di noi. Data la velocità a cui viaggiava, sarebbe stato impossibile che il conducente frenasse in tempo per evitarci.

    Convinta che ci avrebbe investite in pieno, in una frazione di secondo mi fermai, slacciai la cintura di sicurezza e mi gettai su Holly. Forse se le avessi fatto scudo con il mio corpo, sarebbe sopravvissuta. Si dice che in simili istanti si veda tutta la vita passare davanti ai propri occhi, ma non è ciò che successe a me. Il mio unico pensiero fu: «D’accordo, è arrivata la mia ora». Il mio amato papà amava dire: «Quando la piuma bianca ti sfiora la testa, è il momento di andare». Ricordo di aver pensato solo: «Spero che non faccia troppo male e che mia figlia si salvi».

    In quei pochi secondi chiusi gli occhi e mi preparai ad affrontare il mio destino, dicendo a Holly che la amavo con tutto il cuore. Udii il camion che rombava forte, sempre più vicino.

    D’un tratto scese un silenzio così assoluto che credetti di essere stata travolta e di essere già morta, trasportata in cielo o ovunque si vada dopo il trapasso. Non c’era il minimo rumore. Dopo quella che sembrò un’eternità aprii cautamente gli occhi. Ero ancora stesa su Holly, ancora a bordo dell’auto, e la strada era deserta. Niente traffico, niente camion, niente di niente. Era come se una mano enorme avesse preso la macchina, l’avesse spostata e poi l’avesse depositata di nuovo sulla strada. Guardai nello specchietto retrovisore, ma del camion rosso neanche l’ombra. Era semplicemente svanito nel nulla.

    Tornai a casa tremando. Non incrociai altri veicoli. Quando tirai fuori Holly, trovai una piccola piuma bianca sul seggiolino.

    La conservo in auto per ricordare che quel giorno, quasi dieci anni fa, gli angeli hanno vegliato su di noi, e li ringrazio quotidianamente perché ci tengono d’occhio quando andiamo da qualche parte.

    Deborah Durbin

    3.

    L’automobilista divino

    Non guidare mai più velocemente di quanto possa volare il tuo angelo custode.

    Anonimo

    Era una splendida giornata di metà giugno, tredici anni fa. Avevo deciso di andare in spiaggia con alcuni amici. Io, Kristen, Karen ed Eric montammo sulla mia nuova Mazda Protégé rosso ciliegia. Ero emozionata alla sola idea di guidarla. Con i finestrini abbassati, i teli mare nel bagagliaio e il profumo della crema solare che si spandeva nell’abitacolo, imboccammo l’autostrada, diretti verso le spiagge del Rhode Island. Non avevamo impegni, perciò fu l’inizio di una rilassante giornata estiva delle nostre giovani vite spensierate.

    Più ci avvicinavamo alla destinazione, e più il numero di veicoli aumentava.

    «Oh, no! Avevo dimenticato che questo week-end c’è l’Air Show! Il traffico sarà orribile», gemetti.

    Mi riferivo al Quonset Air Show annuale, organizzato dalla Guardia nazionale del Rhode Island. La manifestazione è molto popolare per i suoi spettacoli aerei e le sue attività per famiglie, e attira una folla immensa. Per raggiungere la sede dell’evento i visitatori usano la stessa autostrada che conduce alle spiagge. Quel fine settimana, dunque, il traffico è ancora più intenso del solito.

    «Dovevo scegliere un’altra strada», borbottai.

    «Ma sembra che le auto intasino soltanto l’uscita che porta alla manifestazione», osservò Kristen.

    Quando ci avvicinammo allo svincolo sulla destra, ci rendemmo conto che aveva ragione. Potei procedere a velocità abbastanza sostenuta perché i veicoli bloccavano solo quel tratto. Schiacciai l’acceleratore e continuai a sfrecciare nella corsia di destra.

    Finché…

    Che cosa combinava la macchina davanti a noi? Era ferma in coda, ma iniziò a sorpassarmi. Non riuscii ad accelerare abbastanza rapidamente. Ci saremmo schiantati. Inchiodai. Non mi sarei fermata in tempo. Aiuto!

    Il puzzo di bruciato dei freni, i movimenti al rallentatore, l’altra vettura sempre più vicina, i miei amici che urlavano…

    Mi buttai sulla corsia di sinistra, ma c’era una macchina. L’avremmo centrata in pieno. Gridai.

    Tremavo. Eravamo nella corsia d’emergenza. Ero un po’ confusa. Eravamo salvi. Non eravamo rimasti coinvolti in un incidente. Stavamo bene. Scese un lungo silenzio. Dovevamo capacitarci di ciò che era successo.

    L’automobile che aveva causato l’episodio ci passò accanto lentamente, con gli occupanti che ci guardavano. Non capii se fossero dispiaciuti, confusi, indifferenti o semplicemente ignari dell’errore. Non me ne importava nulla, mi accontentai di restare lì in silenzio.

    «È stato il miglior esempio di guida che abbia mai visto!» esclamò Eric dal sedile posteriore.

    Le sue parole ci strapparono dalle nostre riflessioni. Kristen tirò un sospiro di sollievo. «Ce la siamo vista brutta!».

    «Non posso credere che quelle persone abbiano fatto una cosa simile!» commentò Karen.

    «È stato il miglior esempio di guida che abbia mai visto!» ripeté Eric.

    Non riuscii a parlare. Dovevo dare una spiegazione all’accaduto: non ero stata io a controllare il veicolo.

    Avevo frenato, ma poi non avevo fatto altro a parte urlare. Quando la Mazda si era spostata, non avevo sterzato. L’auto accanto a noi sulla corsia di sinistra era sparita appena in tempo, ma non ero stata io a scegliere il momento giusto per la manovra né a tornare con calma sulla destra quando la via era sgombra e poi a fermarmi sulla corsia d’emergenza. No, non ero stata io. Qualcosa o qualcuno era intervenuto.

    Quando finalmente ci reimmettemmo nel traffico e ci dirigemmo verso la spiaggia, non avevo ancora trovato le parole per descrivere l’accaduto. Mi godetti una bellissima giornata con gli amici provando un nuovo rispetto per la vita, ma soprattutto domandandomi chi o cosa mi avesse aiutato.

    Parlai agli altri di quell’intervento divino solo molte settimane dopo. L’unico modo che trovai per esprimere il concetto fu «non ero io alla guida».

    Oggi racconto ancora quell’episodio a chiunque abbia voglia di ascoltarlo. Lo presento come un dato di fatto. Potrei rilasciare una dichiarazione giurata in tribunale. Non ho il minimo dubbio. Quel giorno un essere angelico salvò me e i miei amici da un terribile incidente.

    Ripenso sempre a quel momento. Lo ricordo ogni volta che vedo qualcosa di bello, scoppio a ridere o abbraccio mio marito. Mi torna in mente ancora più spesso ora che ho due bambini stupendi. Quando penso all’angelo che mi ha aiutata, trovo facilmente le parole da sussurrare: «Grazie. Ti sarò grata in eterno».

    Melissa G. Christensen

    4.

    Il bambino in piscina

    «Se tu puoi! Tutto è possibile per chi crede».

    Marco 9:23

    Era una tipica estate torrida della Georgia e come ogni altro bambino dello Stato avevo voglia di fare una nuotata. La piscina più vicina era nel complesso residenziale sei isolati più in là. Ci passavo davanti ogni giorno quando tornavo a casa da scuola. Rallentavo mentre camminavo lungo la recinzione, e ascoltavo con invidia il crepitio degli schizzi freschi e le urla di gioia dei ragazzini fortunati che vivevano lì dentro.

    Io mi sarei dovuto accontentare della canna di gomma verde agganciata all’impianto d’irrigazione del giardino, ma non era la stessa cosa.

    Cominciai a escogitare un piano in un caldo venerdì pomeriggio mentre passavo accanto alla piscina. Presi da parte mia sorella Joan e dissi: «Ehi, che ne dici se domani ci infiliamo il costume da bagno sotto i vestiti e chiediamo alla mamma il permesso di andare in gelateria a prendere un cono? Potremmo entrare dal cancello come tutti gli altri bambini e nuotare e giocare in acqua per un pochino, rimetterci i calzoncini e lasciar asciugare i capelli al sole mentre torniamo a casa. Ti va?».

    Joan aveva sei anni. Mi guardò con la stima che si prova per il fratello più grande e più saggio, e annuì con entusiasmo. Se ero io a proporlo, doveva essere lecito e, in qualche modo, era come ottenere il permesso della mamma. Così era deciso: il pomeriggio seguente saremmo andati a nuotare.

    Sabato, come programmato, chiedemmo a nostra madre se potessimo andare in gelateria. Quando acconsentì, corremmo dentro, ci infilammo il costume sotto i pantaloncini e uscimmo. Fu allora che incappammo nel primo ostacolo. La mamma era davanti alla porta di servizio con la mia sorellina di quattro anni.

    «Andrea, Renee piange perché vuole venire con voi».

    Sarebbe già stato abbastanza difficile convincere Joan a tenere il segreto. Renee non avrebbe mai capito che doveva tacere, e poi non aveva il costume. Tornai indietro malvolentieri, la presi per mano e mi avviai lungo il vialetto.

    Appena ci fummo allontanati, dissi a Renee: «Andiamo a giocare in piscina per qualche minuto. Se prometti di non dirlo a nessuno, puoi venire anche tu. Okay?». Annuì, contenta di essere coinvolta nei giochi dei grandi. «Puoi nuotare con i calzoncini. Come quando giochi con la canna a casa».

    Quando arrivammo, si materializzò il secondo ostacolo: la piscina era chiusa e il cancello della recinzione era bloccato da un lucchetto. Ancora una volta, avrei dovuto rinunciare, ma mi ero spinto fin lì e l’acqua era una tentazione irresistibile, così scavalcai e Joan aiutò Renee.

    Ci togliemmo i pantaloncini, li posammo su una sdraio ed entrammo con prudenza nell’acqua azzurra e fresca. Fu celestiale.

    Ci schizzammo e giocammo, e feci attenzione a non lasciare che le mie sorelle si allontanassero dalla parte meno profonda della vasca. Dopo una quindicina di minuti decisi che era ora di uscire e cominciare ad asciugarsi. Quando mi voltai per recuperare i vestiti, udii un sonoro splash. Renee era sparita. In preda al panico, scrutai la piscina e vidi la sua testa appena sotto l’acqua, proprio sotto il trampolino.

    Vorrei poter affermare che furono il coraggio e la preoccupazione a spingermi a tuffarmi per salvarla, ma la verità è che non potevo tornare a casa e dire alla mamma che avevo lasciato annegare la sua bambina. Così mi buttai senza riflettere, senza considerare che nessuno dei due sarebbe stato in grado di uscire perché io non sapevo nuotare meglio di lei.

    Agitando la mano sott’acqua, finalmente trovai Renee. La tirai su per permetterle di respirare. Naturalmente, allo stesso tempo trattenni il fiato e sprofondai a mia volta.

    Quando ebbi la sensazione che i polmoni stessero per esplodermi, mi sforzai di tornare su mentre lei affondava ancora. La strinsi con una mano, sapendo che se l’avessi lasciata andare forse sarebbe caduta sul fondo e non sarei più riuscito a raggiungerla.

    Quando riemersi per prendere fiato, allungai il braccio verso il trampolino. La mia unica speranza era aggrapparmi a qualcosa per tirare fuori entrambi, ma i miei sforzi furono vani. A malapena sapevo restare a galla, ed era ancora più difficile con una mano sola. Ricaddi in acqua e spinsi su Renee per consentirle di respirare.

    «Dio, aiutaci. Annegheremo», pensai. Quando mia sorella scom­parve di nuovo, intuii che le forze mi stavano abbandonando e che probabilmente quella era l’ultima possibilità di raggiungere il trampolino. Feci appello a tutte le mie energie per aggrapparmi al bordo della tavola, ma invano.

    Quando abbassai il braccio, d’un tratto sentii qualcuno che mi afferrava il polso. Scioccato, alzai gli occhi e vidi la faccia di un bambino non più grande di me.

    Non disse una parola. Non sembrava turbato né spaventato. Era steso sul trampolino, chino in avanti, con le mani avvolte strettamente intorno al mio braccio. Non tentò di tirarci fuori. Mi aiutò soltanto a raggiungere la tavola.

    Una volta attaccato a qualcosa di solido, mi issai e guadagnai il lato della vasca. Con un ultimo sforzo uscii dall’acqua e, abbracciando Renee, mi lasciai cadere sul cemento caldo. Eravamo terrorizzati ed esausti. All’improvviso ricordai il ragazzino. Lo cercai con lo sguardo, ma non c’era più. L’avevamo visto tutti e tre, ma nessuno si era accorto che era arrivato o che se n’era andato. E il cancello era ancora chiuso.

    Io e mia sorella siamo vivi grazie a quel bambino misterioso. Ho sempre pensato, e oggi ne sono ancora più convinto, che l’unica spiegazione logica sia un intervento divino.

    Andrea Peebles

    5.

    Non fare il furbo con noi

    Perché egli parla e tutto è fatto, comanda e tutto esiste.

    Salmo 33:9

    Scrutando le facce ostili intorno alla sua auto, capì di aver preso la decisione errata. Mio figlio si era avventurato in una zona isolata accanto alle rotaie dove sapeva che ogni tanto si tenevano delle feste. Era stato lì altre volte, perciò sperava di trovare qualche amico.

    In effetti era in corso una festa ma, avvicinandosi, aveva visto visi sconosciuti e astiosi. L’unico conoscente che aveva incontrato gli aveva detto chiaro e tondo che doveva andarsene, altrimenti ne avrebbe subite le conseguenze. Alcol e droga sono fonte di pericolo in ogni situazione, perciò aveva deciso di allontanarsi.

    Mentre si affrettava verso l’auto, aveva udito un rumore di passi dietro di sé. Un gruppo di ragazzi l’aveva seguito.

    A quel punto, era chiuso in macchina, ma il motore non partiva. Gli altri avevano attorniato la vettura e iniziato a schernirlo.

    In quel momento comparve dal nulla un gigantesco pickup. Si fermò, ma il motore e i fari restarono accesi. Smontarono due tipi nerboruti, e tutti videro le doppiette appese al sostegno dentro l’abitacolo. Gli uomini si diedero un’occhiata intorno e i ragazzi minacciosi si rifugiarono nel buio, osservandoli.

    Uno dei due fece la guardia mentre l’altro parlò a mio figlio.

    «Serve aiuto?».

    «Non riesco ad accendere il motore».

    «Riprova».

    Lo sconosciuto fece un passo indietro e lo guardò girare la chiave. Di lì a un istante l’auto rombò.

    «Grazie, adesso è tutto a posto».

    «Okay». Il gigante s’incamminò, seguito dal suo amico.

    Non fecero commenti sulla festa né ordinarono ai ragazzi di tornare a casa, bensì si avviarono a passo deciso verso il pickup.

    Mio figlio li guardò salire sul veicolo, quindi partì. Sulla strada, si stupì di non vedere il furgone da nessuna parte. Non c’era nemmeno una scia di polvere. I due omoni erano spariti. Accelerò per raggiungerli, ma invano.

    Quando, scosso, arrivò a casa, mi chiese di sedermi a fare quattro chiacchiere. So che i ragazzi non ci raccontano sempre ciò che fanno, soprattutto se sanno che non approveremmo, ma voleva farmi un resoconto completo di quella serata inquietante.

    Mentre lo ascoltavo, tremavo al pensiero che avrei potuto ricevere una telefonata dall’ospedale o dall’obitorio a notte fonda, invece di essere seduta a chiacchierare con mio figlio. Lui espresse stupore per la comparsa del pickup e per il modo in cui si era materializzato in quel luogo sperduto. Non c’erano strade battute laggiù. Da dove erano arrivati i due uomini? Perché il motore si era acceso dopo il loro arrivo, e che fine avevano fatto? Non c’erano strade laterali in cui potessero aver svoltato; erano svaniti nel nulla.

    Benché ci fossero dei minorenni che bevevano e si drogavano, non erano parsi interessati alla festa, ma a proteggere mio figlio.

    Alla fine del racconto smisi di trattenere il fiato e sorrisi, sollevata. Capii che i due sconosciuti erano angeli mandati da Dio in risposta alle preghiere incessanti con cui chiedevo protezione per i miei figli. Se avevo avuto qualche dubbio sull’efficacia di quelle suppliche, quella notte non ne rimase traccia.

    Mio figlio sarebbe rimasto scettico, ma io avevo una mia teoria.

    «Devo dirti una cosa; quei due uomini erano angeli».

    Sorprendentemente, rispose: «Lo so, mamma. Sono sbucati dal nulla e sono scomparsi quando il pericolo era passato».

    Riflettemmo con riverenza sulla presenza onnisciente di Dio e ringraziammo quegli angeli meravigliosi che erano andati in aiuto di mio figlio a bordo di un enorme pickup.

    Diane Marie Shaw

    6.

    Un angelo al mercato

    Come può essere bella una giornata quando è sfiorata dalla gentilezza!

    George Elliston

    «Vado all’Highway Market. Vuoi venire?». Accettai l’invito perché c’erano poche distrazioni nei dintorni del campus universitario. Essendo studenti,

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