Guimauve
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Guimauve - Paola Farah Giorgi
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CAPITOLO I
La corsia numero sette è all’ultimo piano dell’ospedale, con sette stanze e una lunga vetrata nel corridoio lato sud.
L’architetto Jacques Peyron l’ha progettata così: vista a centottanta gradi sul percorso quotidiano del sole, dall’alba al tramonto.
Anche i tetti della città vecchia sono lì, sotto il suo sguardo, di un rosso mattone annerito a tal punto da sembrare pensieroso. Alcuni svettano sino a forare il cielo, con buffe banderuole a forma di Cupido che, nelle giornate di vento, lanciano dardi all’impazzata.
Un’accozzaglia senza senso.
Nessuna direzione stabilita.
Qui è così, o forse è un’impressione tutta mia. Può essere.
Sferragliate violente e imbarazzanti intorno, come mitragliate, prima di arpionare almeno un cuore.
Eccolo, proprio lì, quello in attesa di scorticarsi di brutto. Il dardo parte senza mira ma il destino lo coglie, e tutto ha inizio.
È la danza lenta o vorticosa di ogni anima fra la nascita e la morte, passo dopo passo, sferzata dall’amore che ne occupa gran parte dello spazio.
È una danza che spesso esce dai vecchi portoni in quel dedalo di strette viuzze incrociate che fa di Sur le Dessus la trama di un tessuto troppo fitto.
Qui è facile perdersi, coi piedi e con la testa, e ci si confonde in
un turbinio di colori troppo accesi, capaci di farti ubriacare.
Le insegne arcobaleno degli antichi bistrò si specchiano nel verde quasi di smeraldo dei canali, con un riflesso che spicca in modo deciso su quello delle altre case.
Il cielo è blu, invece, come il mare profondo, giorno e notte, e sembra di poterlo toccare.
Troppa poesia, lo so.
Il dato di fatto è che uno di questi dardi impazziti mi ha raggiunto e, da quel giorno, ho iniziato a frequentare il Flying Souls’s Cafè senza saltare una sera.
Lì c’è Sarah: a volte canta, a volte mangia un panino.
Ecco la spiegazione alla mia poetica stupidità.
Sì, per le mie serate ho scelto il Flying per vederla, inutile dirlo.
Dopo l’ospedale sono lì, puntuale per la solita birra. La cena è un optional.
Sarah, la mia lei, o qualcosa di simile.
Mi piace la sua voce e come si muove seguendo una melodia interiore tutta sua, anche quando la musica è spenta: dosa i movimenti, si aggira qua e là con indolenza, ti dà il tempo di guardarla, di soffermarti sulle sue forme, sul seno e sui piedi.
È sempre malinconica e finge di essere allegra, non so ancora il perché. A volte si avvicina e a volte mi sfiora passandomi accanto con lo sguardo altrove. Non mi saluta neppure, in quelle occasioni, per essere libera di non parlarmi.
Non so. Temo il peggio: invischiarmi nella sua anima a tal punto da starne male, come il solito del resto.
Le donne troppo facili da capire non m’interessano, neppure quelle con un cuore poco complicato.
Sarah non è così.
È difficile da capire e ha il cuore complicato.
Mi piace per questo.
A volte ho l’impressione di averla già incontrata in passato, o almeno vista, ma non saprei dove né quando e, d’altra parte, so che non è infrequente credere reali percezioni che altro non sono che impasti verosimili di congetture e fantasia.
No, non le dirò che ho questa impressione, sembra una frase fatta di pessima qualità, anche se questa cosa mi gira dentro da parecchio tempo.
Mi sembra che anche lei si chieda la stessa cosa, non so, quando mi scruta da lontano, ma lasciamo perdere. Sono supposizioni vaghe quanto assurde.
Oltre lei, qui mi sento bene perché tutti ormai mi conoscono. Un cenno amichevole quando entro, come fossi uno di casa, anche se sono di poche parole e quasi subito mi rintano nei miei pensieri.
Sanno che lavoro da qualche mese nel nuovo reparto, quello sopra le righe mi piace dire, azzeccato al posto, e che, nonostante il mio riserbo e gli abiti démodé, sono un tipo simpatico, fin troppo alla buona. Il dott. davanti al nome mi sta stretto.
Non ho mai curato l’abbigliamento né il taglio dei capelli e non mi rado di frequente. Quando la chioma mi rasenta le spalle la metto per qualche settimana ancora dietro le orecchie, la sera, e in ospedale la lego con il primo spago o simile che trovo, se ce n’è uno in vicinanza, se no è lo stesso. La sforbiciata arriva quando diventano ingestibili per davvero. Allora vado dal tipo dietro la chiesa, quello che sta in bottega con la radio rovente sul canale della lirica.
Ho il fascino di chi ha superato i quaranta, dicono, ma non sono a mio agio in tanto sex appeal perché faccio colpo anche su donne che non m’interessano. Una rottura e basta.
«Ciao. Sei un artista?» mi ha chiesto Sarah la prima sera.
«Un medico» le ho detto. Una risposta secca, che avrei potuto condire meglio, ma non l’ho fatto.
«Non è possibile» pensava che scherzassi, «non raccontarmi storie.»
Sono rimasto muto e lei si è dileguata subito, ma l’avrebbe fatto anche se avessi parlato di più. Ora lo so.
Ha gli occhi verdi Sarah, limpidi come l’acqua della fontana in piazza, quando arriva l’omino con le narici larghe e getta il retino a raccattare le foglie. Ci si potrebbe vedere il fondo a guardarci dentro, nei suoi occhi, ed è per questo che si allontana subito: per non farmi andare oltre la superficie né accedere al suo cuore.
Mi accontento ogni volta di guardare il fondo della fontana qui davanti, che sta lì senza scappare, e penso a lei. Poi ci cade una foglia, un puff senza rumore né movimento.
È tornata dopo qualche canzone, la prima sera.
«Sei sposato?»
«No» ho risposto, preso alla sprovvista. Non pensavo mi tornasse vicino. Non pensavo fosse così diretta.
«Questa volta sei sincero, lo so, ma come medico non mi convinci.»
Schiatto d’imbarazzo.
Quando esco dal bistrò, ogni sera, il suo sguardo rimane impresso sulla mia retina e si pone sopra ogni altra immagine come un marchio. Lo porto con me nella notte. Passeggio. Passeggio ancora. Cerco di distrarmi pensando ad altro, contando i passi o le sbarre delle ringhiere sui canali, ma non c’è verso, non si cancella.
Malinconico anche se finge allegria. Mi spiazza ogni volta. Lo sogno anche il suo sguardo, all’improvviso fra altri sogni; s’intromette dappertutto. Un brivido di ermetica purezza. Ciao. Che ci fai lì?
Soltanto quando torno in corsia si affievolisce, per ovvia necessità, fino a sparire.
Non posso distrarmi lì.
Loro non brillano di felicità e io devo farci qualcosa.
Con loro non sono tanto un dottore quanto un tipo che li ascolta, ma non mi sento sminuito per questo, non più. Orgoglio zero. Un tempo sì, qualche ambizione l’avevo. Adesso non m’importa e sento che questo poco che faccio è ciò che devo fare. Nient’altro. Se non avessi quel dott. davanti al nome starei meglio, questo sì.
Insieme a me lavorano Brognet, il dermatologo amico, così minuto che gli occhiali che indossa sembrano enormi, e alcune assistenti tuttofare talmente precise, professionali e ben sincronizzate fra loro da sembrare invisibili. Per il resto, dall’esterno si direbbe un va e vieni continuo di gente un po’ strana, non tutti. Alcuni piuttosto nella norma, altri estrosi e stravaganti.
Tanto per dare l’idea, un nuovo gruppo è arrivato da qualche giorno, perché qui si va a gruppi, in linea di massima.
Arrivano insieme e insieme vengono dimessi, salvo eccezioni di ripensamenti repentini il giorno dopo l’arrivo, vere e proprie fughe di soppiatto. Direi che ne sono fuggiti quattro da quando sono qui, un numero esiguo, mentre gli altri hanno superato lo sbigottimento iniziale senza farsi troppe domande.
Si riesce sempre a fare un buon lavoro, anche quando sembra impossibile.
Ci riuscivo anche nell’altro ospedale, quello che ho lasciato da qualche mese a un tipo ambizioso con le guance scarne, un gallo cedrone che mi ha spodestato ovviamente con la massima facilità.
Qui a Sur le Dessus è il quinto gruppo per me e ho iniziato a conoscerli da poco.
CAPITOLO II
Arrivo sempre in ospedale alle otto e quaranta.
Pedro e gli altri sono lì, intenti a gustare il profumo del pane croccante, spalmato con quella crema di burro che scivola per niente dalle fette abbrustolite e appiccica le dita in modo alquanto fastidioso. Una vera specialità della casa in quanto a fluidità e quantità spropositata di zucchero.
Per tirarli su dicono in cucina, come fosse zabaione bello carico, anche se la fluidità a questo fine non dovrebbe c’entrarci affatto.
Quando ne cade una goccia nel caffè, e spesso succede, galleggia come una zattera senza guida lasciando scie a ghirigoro che hanno un non so che di artistico molto bello a vedersi, questo sì.
Per presentarmi in modo informale, come piace a me, il primo giorno mi sono seduto a tavola con loro. Si sono stupiti. C’era la tovaglia rosa delle grandi occasioni, quella ricamata e che si macchia per niente, viene nominata così.
La prima impressione è importante anche se una colazione insieme e basta è la regola, per non rischiare di essere presi poco sul serio. Lo ha stabilito Brognet, che ogni tanto mi mette i paletti.
La colazione è il momento che ritengo debba essere di massima piacevolezza nella sua ritualità pura e semplice. Alcuni se lo godono per davvero, altri meno. Dipende dalla complessità delle situazioni personali.
Prima d’indossare il camice mi fermo a osservarli da lontano, anche se fingo di non guardarli, perché mi piace analizzare i loro gesti quotidiani, quelli minimi, quasi insignificanti, e la prima mattina è l’ideale.
Pedro, fra una fetta di pane e l’altra, rimescola più volte il caffè; non vuole lasciare zucchero sul fondo, neanche un granello. E lo fa in serietà, apparentemente concentrato, mentre dà corso invece al suo continuo monologo interiore: si fa domande e si risponde, tutto da solo, e spesso fa strane facce, soprattutto di dispiacere e di rammarico, tutto da solo. Non ha pace.
Non riesce a capacitarsi di quello che è successo nella sua pasticceria.
Chiamarla pasticceria è dir poco, ovviamente.
Per Pedro è la vita, con l’iniziale maiuscola che è meglio: la Vita.
Punto e basta. All’orizzonte non c’è nulla e nulla esiste per lui anche prima dell’orizzonte.
Sì, si sovrappongono, lui e la pasticceria, esattamente come due cialde fatte con lo stesso stampino fra le quali c’è uno strato di crema.
Pedro, la crema, la pasticceria.
Pedro appiccicato alla pasticceria tramite uno strato