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Uccidere richiede tempo
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Uccidere richiede tempo
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Uccidere richiede tempo

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About this ebook

Brooklyn viene sconvolta da una serie di brutali omicidi e di corpi che si accumulano e il Detective Donovan sa cosa sta succedendo. Gli indizi lasciati sulle scene dei crimini indicano che il colpevole è qualcuno del suo vecchio quartiere e la cosa non gli piace.

Frankie ha fatto due giuramenti nella sua vita: quello di difendere la legge, prestato quando era diventato un poliziotto, e quello fatto con i suoi due migliori amici quando avevano otto anni ed erano inseparabili.

Quelle relazioni avevano costretto Frankie a prendere molte decisioni difficili in passato ma ora si trovava ad affrontare la più difficile della sua vita: cinque omicidi da risolvere e uno dei suoi amici era il colpevole. Se tentasse di arrestarlo, romperebbe il giuramento che aveva mantenuto per venticinque anni e rischierebbe anche di perdere la vita.

Nel quartiere dove Frankie Donovan era cresciuto, i giuramenti non si rompevano mai.

LanguageItaliano
PublisherBadPress
Release dateNov 16, 2016
ISBN9781507159613
Uccidere richiede tempo
Author

Giacomo Giammatteo

Giacomo Giammatteo lives in Texas, where he and his wife run an animal sanctuary and take care of 41 loving rescues. By day, he works as a headhunter in the medical device industry, and at night, he writes.

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    Uccidere richiede tempo - Giacomo Giammatteo

    Capitolo 1

    Regola numero uno: uccidere richiede tempo

    Brooklyn, New York - Presente

    Ingoiò l'ultimo sorso di una schifosissima tazza di caffè e fece correre lo sguardo dall'altro lato della strada, su Nino Tortella, il tizio che stava per uccidere. Uccidere era un'arte, richiedeva astuzia, pianificazione, abilità e, soprattutto, pazienza. La pazienza era stata quella più difficile da imparare. Uccidere gli era venuto naturale. Si era maledetto per questo. Aveva pregato Dio ogni notte perché gli desse la forza di smettere. Ma finora Dio non gli aveva risposto e c'erano ancora alcune persone che dovevano essere uccise.

    La cameriera si sporse in avanti per riempirgli la tazza, con l'incavo fra i seni che suggeriva l'offerta di qualcosa di più di un caffè. «Ne vuole ancora?»

    Lui scosse la mano, Nino si stava dirigendo verso la sua macchina. «Solo il conto, per favore.»

    Lei estrasse da dietro l'orecchio una matita gialla, infilata in una crocchia stretta di capelli rossi, poi aprì il blocchetto delle ricevute appuntato alla tasca del grembiule. L’odore di sigaretta traspariva dal suo alito, appena nascosto da quello della gomma che stava masticando.

    Menta, pensò e sorrise. Era anche la sua preferita.

    Aspettò che se ne andasse, controllò il tavolo e lo sgabello, raccolse alcuni capelli dal cuscino strappato e un’unghia tagliata dal davanzale. Dopo averli infilati in una piccola busta di plastica, pulì tutto con un tovagliolo. Il conto era di 4,28 dollari. Estrasse una banconota da cinque e una da uno dal suo ferma soldi e li lasciò sul tavolo. Mentre si avvicinava alla porta guardò fuori dalla finestra. Nino se n’era già andato, ma era giovedì e al giovedì Nino si fermava a prendere la pizza.

    Parcheggiò a tre isolati dalla casa di Nino, trovando un buco dove la neve non era ammucchiata a bordo strada. Dopo essersi calcato sulla fronte un cappello nero di lana, indossò i guanti di pelle, rialzò il bavero del cappotto e afferrò la sua borsa sportiva. Agevolando la gamba sinistra, camminò lungo la strada abbassando lo sguardo quando incrociava qualcuno. L’ultima cosa che voleva era un testimone che ricordasse la sua faccia.

    Mentre camminava contava i giunti nel calcestruzzo. I numeri lo costringevano a pensare logicamente, tenevano la sua mente lontana da quello che doveva fare. Non voleva uccidere Nino. Doveva farlo. Sembrava che avesse fatto per tutta la vita cose che non voleva fare. Scosse la testa e si concentrò di nuovo sui numeri.

    Quando arrivò nei pressi della casa, si lanciò intorno un’occhiata veloce per assicurarsi che non ci fossero le auto dei vicini. Impiegò meno di trenta secondi per aprire la porta. Tenendo sia il cappello che i guanti entrò in cucina e appoggiò la borsa sul bancone. Estrasse un paio di pinze e un bicchierino e li posò sul tavolino. Un’occhiata alla stanza lo portò a raddrizzare i quadri e a mettere i piatti sporchi nel lavello. Un ritratto di una donna anziana lo osservava da una mensola sopra l’estremità del tavolo. Potrebbe essere sua madre, pensò e lo girò gentilmente a faccia ingiù. Tornò in cucina. Aprì la borsa nera ed estrasse due buste più piccole. Ne mise una nel frigorifero e portò l’altra con sé.

    Sparse il contenuto della seconda borsa, capelli e altri articoli, per tutto il soggiorno. La scientifica si sarebbe divertita moltissimo con quelle cose. Fece un controllo finale, estrasse la mazza da baseball dalla borsa e poi si sedette sul divano dietro la porta. La mazza appoggiata sul cuscino accanto a lui. Allungando le gambe e appoggiandosi allo schienale, cominciò a pensare a Nino. Sarebbe stato facile sparargli e basta, ma non sarebbe stato giusto. Renzo aveva sofferto per ciò che aveva fatto e avrebbe sofferto anche Nino. Ricordò Mamma Rosa che lo avvertiva che le azioni compiute tornavano sempre a tormentarci. Nino ora avrebbe pagato il prezzo.

    Un’automobile si infilò nel vialetto d’accesso. Lui si raddrizzò e afferrò la mazza.

    #

    Nino sorrideva e camminava con passo molleggiato. Era solo giovedì e aveva già venduto più macchine di quante gliene servissero per finire il mese. Forse potrei comprare ad Anna quel cappotto che desiderava. Lo stomaco di Nino brontolò, ma aveva una pizza al salame piccante fra le mani e una bottiglia di Chianti infilata nella tasca del cappotto. Aprì la porta, infilò le chiavi in tasca e la richiuse con un calcio.

    C’era una borsa sportiva nera sul tavolo della cucina. Non c’era prima, pensò Nino. Un brivido gli corse lungo la spina dorsale. Avvertì una presenza in casa. Prima che potesse girarsi qualcosa lo colpì alla schiena. Il suo rene destro esplose con dolore.

    «Cazzo!» Nino lasciò andare la pizza, inciampò e cadde sul pavimento. Il suo fianco destro sembrava aver preso fuoco. Non appena la sua spalla sinistra entrò in contatto con il pavimento di legno duro, una mazza lo colpì proprio sopra il polso. Lo schiocco delle ossa risuonò appena prima dell’arrivo del dolore.

    «’Fanculo!» Rotolò sul fianco e tentò di raggiungere la sua pistola.

    La mazza oscillò di nuovo.

    Le costole di Nino si ruppero come ramoscelli. Qualcosa di appuntito lo trafisse fin nel profondo. La bocca gli si riempì di un sapore caldo di rame. Nino riconobbe l’uomo che gli stava sopra. «Tutto quello che vuoi» disse. «Basta che mi uccidi in fretta.»

    #

    La mazza colpì il ginocchio di Nino e lo scricchiolio delle ossa fu soffocato dalle sue urla. L’uomo guardò Nino. Lo lasciò piangere. «Ho preso Renzo il mese scorso. Lo sapevi?»

    Nino annuì.

    Toccò la tasca di Nino con il piede e sentì una pistola. «Se prendi la pistola ti colpisco di nuovo.»

    Un altro cenno di assenso.

    L’uomo si inginocchiò accanto a Nino e prese il bicchierino dal tavolino. «Apri la bocca.»

    Nino sgranò gli occhi e scosse la testa.

    L’uomo afferrò le pinze, ne ficcò un’estremità dentro la bocca di Nino e premette con forza i manici aprendole completamente. Quando ebbe forzato abbastanza l’apertura della bocca di Nino, vi spinse dentro il bicchierino. Era un bicchiere piccolo da shot, ma a Nino doveva sembrare grande abbastanza da contenere tre litri. Nino tentò di gridare ma non riuscì. Non poteva nemmeno parlare con il bicchiere in bocca. La testa di Nino andò su e giù mentre si contorceva. Non riusciva a dire niente ma solo a emettere grugniti e borbottii venati di paura e coperti di sangue.

    L’uomo restò in piedi a osservare Nino, poi afferrò la mazza con entrambe le mani. «Non avresti dovuto farlo.»

    Una macchia scura si allargò sul davanti dei pantaloni di Nino. Il lezzo degli escrementi riempì la stanza. Lui guardò Nino, sollevò la mazza sopra la testa e colpì. Le labbra di Nino si spalancarono, si separarono da entrambi i lati. I denti si frantumarono, alcuni volarono via, altri si conficcarono nella carne delle sue guance. Il bicchierino esplose. Il vetro scavò delle caverne profonde nella sua lingua, tranciandone la punta. Cocci di vetro trafissero le sue labbra e si fecero strada fino in gola.

    Lui fissava la faccia di Nino, le strisce di carne strappata coperte di sangue. Deglutì. Quasi si fermò. Ma poi pensò a quello che Nino aveva fatto e fece oscillare la mazza un’altra volta. Dopodiché Nino Tortella rimase immobile.

    Tornò in cucina e prese una piccola scatola dalla borsa sul bancone, poi tornò nel soggiorno. Dentro la scatola c’erano altri capelli, pelle e altre prove. Li sparse intorno e sopra al corpo e poi fece un ultimo viaggio in cucina per ripulirsi. Si spogliò e infilò i vestiti in una grossa borsa di plastica, la chiuse e la infilò nella borsa nera. Tirò fuori dei vestiti di ricambio, comprese le scarpe e una fodera di plastica per coprirle. Facendo attenzione a non calpestare il sangue, tornò indietro fino a trovarsi sopra il corpo.

    Nino giaceva nella propria piscia, merda e sangue, con gli occhi sbarrati e la bocca spalancata.

    Non avresti dovuto farlo, Nino.

    Fece il segno della croce ripetendo la formula trinitaria: «In nomine Patris, et Filii et Spiritus Sancti.» Poi sparò a Nino. Una volta in testa. Una volta nel cuore. Occhio per occhio. E poi ancora.

    Prima di uscire dalla porta, rimosse le fodere di plastica dalle scarpe e le infilò nella borsa, poi chiuse la porta a chiave dietro di sé. Si era alzato il vento da quando era arrivato, portando con sé una morsa di freddo. Sollevò il bavero e incassò la testa nel torace.

    Perdonami, Padre, per quello che ho fatto.

    Aveva già percorso altri due isolati ed era quasi arrivato alla macchina quando un immagine di Donnie Amato comparve nella sua mente.

    E per quello che devo ancora fare.

    Capitolo 2

    Un grosso errore

    Quattro degli uomini di Tony Sannullo aspettavano fuori dal ristorante Cataldi, in allerta per qualunque segno di problemi. Una Lexus dorata si accostò e ne uscì un uomo grosso con addosso un vestito di Brioni. Paulie The Suit Perlano, si raddrizzò la cravatta di seta blu, si passò un pettine sulla testa piena di capelli scuri e poi si incamminò verso i ragazzi radunati vicino alla porta.

    «Ehi, Suit» lo salutò uno.

    «Ciao, Paulie» esclamò un altro.

    «Nessuno lo ha ancora detto a Tony?»

    Quattro teste vennero scosse all’unisono. «Diglielo tu, cazzo» disse uno di loro.

    Paulie si alzò in punta di piedi e sbirciò dalla finestra. Tony The Brain Sannullo sedeva da solo a un tavolo rotondo da sei con la schiena rivolta al muro. Aveva un espresso alla destra di un cruciverba e masticava l’estremità di una penna. Nonostante i consigli che aveva ricevuto durante tutta la sua vita, Tony era una creatura abitudinaria. Ogni venerdì mattina prendeva un espresso e faceva colazione da Cataldi.

    Paulie scosse la testa e salì i tre gradini per entrare. «Non gli piacerà.»

    Anna Cataldi lo salutò: «Buongiorno, Paulie. Bella giornata, eh?»

    «Dipende» rispose Paulie, ma poi rise. Aveva una risata piacevole, frutto di un uso frequente. «Come va, Anna? Come sta il tuo ultimo figlio?»

    «Bene, Paulie. E i tuoi figli?»

    «Eh, Anna, i figli sono figli. Stanno sempre bene. Rompono i coglioni, ma bene.» Mentre camminavano verso il retro, Paulie chiese: «È di buon umore?»

    Anna sollevò le sopracciglia e scrollò le spalle. «È febbraio.»

    «Ah, merda.»

    «Già» disse e fece cenno a Paulie di proseguire.

    Lui si diresse al tavolo di Tony con le interiora che si contorcevano per una combinazione di fame e nervoso.

    Tony stava cancellando una delle ultime risposte dal suo cruciverba quando Paulie arrivò al tavolo. «Quando comincerai a vestirti come gli altri, Paulie? Nessuno indossa più il vestito ormai.»

    Paulie si mise a giocherellare con le sue posate mentre osservava Tony alle prese con il cruciverba. «Ne hai ancora poche da fare, eh?» A nessuno piaceva interrompere il cruciverba di Tony.

    «Hai una parola di sette lettere per raggiante o accecante?»

    «Certo, Tony. Ce l’ho proprio sulla punta della lingua.»

    «Inizia con f

    «Allora, ne ho una: fottutamente, come in fottutamente brillante

    «Questo è il mio amico Paulie. Sapevo che avrei potuto contare su di te.» Tony continuò a masticare l’estremità della penna mentre il cameriere portava un altro espresso per lui e uno per Paulie.

    «Fulgente. Ecco la parola che stavo cercando.»

    Paulie giocherellò ancora più nervosamente. Meglio che sputi il rospo subito. «Ok, Signor Fulgente, se puoi alzare il naso dal cruciverba per un minuto, ho qualcosa da dirti.»

    «Cosa?»

    «Nino Tortella è stato ammazzato la notte scorsa.»

    «Merda!» Tony sbatté una mano sul tavolo. «Come?»

    «Come Renzo.»

    «Sai cosa significa.»

    «Sì, lo so. È impossibile che Nino non abbia parlato. Ci potrebbero essere un paio di ragazzi abbastanza intelligenti da non parlare, ma non Nino.»

    «Qualcuno ha visto Donnie Amato?»

    Paulie sorseggiò il suo espresso. «L’ho chiamato. Non ha risposto.»

    «Manda un paio di ragazzi ad avvertirlo.»

    «Sai che Donnie ha la testa dura. Pensa di potersi arrangiare da solo.»

    Tony ingoiò il resto del suo espresso. «È molto probabile.» Gettò due biglietti da venti sul tavolo. «Devo parlare con Tito. Raggiungimi più tardi.»

    Paulie strinse gli occhi. «Tu non hai niente a che vedere con questo, vero?»

    «Sai chi lo sta facendo.»

    «Non avresti dovuto farlo, Tony. Era sbagliato fin dall’inizio.»

    «Tienimi informato» rispose Tony e si diresse verso la porta. Stanno per morire molte altre persone.

    Capitolo 3

    Legami col Passato

    Il Detective Lou Mazzetti si fermò sul cordolo e scese dall’auto coi suoi mocassini Oxford sgualciti che schizzavano fango sul risvolto sfilacciato dei pantaloni. Si abbottonò il cappotto, posizionò il cappello in modo da coprire il punto calvo e poi si avviò sul sentiero verso la vecchia casa di mattoni. La casa aveva una bella forma, come la maggior parte di quelle del vicinato, composto da una comunità a predominanza italiana e irlandese ma con un buon miscuglio di polacchi ed ebrei. Lou fece un cenno all’agente di polizia che stava di guardia alla porta mentre saliva i gradini. Oggi si sentiva tanto stanco quanto vecchio.

    «Com’è?» chiese Lou.

    «I vicini non hanno sentito niente, ma non sono rientrati a casa fino a tardi.» L’agente scosse la testa. «Sembra identico al primo.»

    Identico al primo. Un pensiero inquietante, ma non appena Lou esaminò la scena capì che era proprio così: maschio morto con un colpo di arma da fuoco alla testa e uno al cuore. E quasi ogni osso del corpo distrutto. Non c’era nessun bossolo e lui era certo che la scientifica avrebbe trovato capelli, sangue, pelle e DNA di un vasto assortimento di persone. Lou rivolse lo sguardo al medico legale, Kate Burns, una bella ragazza con la pelle tanto chiara e piena di lentiggini quanto suggeriva il suo nome irlandese. «Trovato niente?»

    Kate scosse la testa, impacchettò il suo kit e lo infilò in una borsa. «Sono sicura che abbiamo il suo DNA, ma è mescolato con il resto.»

    «Analizza tutto.»

    «Analizzerò tutto ma, a meno che non troviate qualcos’altro, non ne verrà fuori dannatamente niente di buono.»

    #

    Il Detective Frankie Donovan entrò dalla porta e tolse il fango dalle sue Moreschi usando un fazzoletto monogrammato. Si sbottonò il cappotto di cashmere, lo appese a una rastrelliera dietro la porta e poi osservò la scena del crimine con gli occhi nocciola che aveva ereditato dal padre. Voci dicevano che aveva ereditato da suo padre anche la fortuna degli irlandesi, ma qui i doni finivano. La pelle scura, il naso sfrontato e i capelli scuri venivano dalla madre siciliana, insieme alla voglia sul collo che suo nonno giurava rappresentare una mappa della Sicilia. Era un pigmento scuro, quasi nero e si trovava sulla sinistra, appena sotto una mandibola solida e squadrata che pareva essere sul punto di rompersi. Non era stata colpita abbastanza volte da scoprire che non sarebbe successo.

    «Ho appena visto Kate. Ha detto che non abbiamo niente.»

    «Ciao, Frankie.» Lou lo raggiunse e gli diede una pacca sulla schiena. «Mi avevano avvertito che saresti venuto. Qualcuno ti ha aggiornato?»

    «Il tenente mi ha raccontato l’essenziale. Ha detto che ne avete tre ora.»

    Mazzetti annuì. «Sì, tre, ma questo sembra il peggiore.»

    Frankie si mosse verso Lou per raggiungerlo in cucina. «Lou, ascolta, io . . .»

    «Donovan, non preoccuparti. Sapevo che il capitano avrebbe dato il comando a qualcuno e sono contento che sia tu.»

    «Grazie, Lou.»

    «Lascia che ti ragguagli. Il primo era orribile, come questo. Il tizio li fa soffrire. Kate dice che erano già morti prima che gli sparasse.»

    Frankie ascoltò mentre Lou entrava nei dettagli, poi si prese del tempo per guardarsi intorno. Controllò il corpo, osservò la confusione sul pavimento, raccolse qualcosa dalla credenza e poi si diresse in cucina. «Cos’è questo?» domandò, osservando una busta per le prove sul bancone.

    «Merda di ratto.»

    «Hai detto che non c’erano indizi.»

    «L’ho imbustata, no? Ma non è un indizio, è merda di ratto.» Mazzetti rise. «Ne vuoi ancora? Abbiamo trovato peli di gatto nel lavandino, ma lui non aveva un gatto. Probabilmente c’è anche della merda di cane nella stanza da letto oppure, chi lo sa? Magari nel fottuto freezer. Ma non c’è nessun cane. E abbiamo abbastanza DNA da rappresentare metà dei criminali del carcere di Riker.» Mazzetti sollevò la mano in aria, come per arrendersi. «È la solita vecchia merda. Ecco perché non abbiamo nessun indizio dopo tre omicidi.»

    «Mi sembra che ne abbiamo troppi di indizi» disse Frankie raccogliendo un sacchetto di carta marrone dall’estremità del bancone. «Cosa c’è qui?»

    «Un ratto morto. L’abbiamo trovato nel frigorifero. Cosa ne pensi, uno psicopatico? Pensi che questo tizio li odi?»

    Merda di ratto e ratto morto. «Mazzetti, voglio tutto quello che hai su questi omicidi. Ogni brandello di informazione. Ogni foto.»

    «Te l’ho appena detto. Non abbiamo niente.»

    «Preparami tutto.»

    «Sai qualcosa che io non so?»

    Frankie si ricordava di quella volta che Nicky e Tony fecero irruzione in casa di Billy Flannagan e infilarono un ratto nel suo frigorifero. «Forse sì.»

    «Non pensi che dovresti condividere?»

    Frankie ponderò attentamente la risposta. Alcune cose non si devono condividere nemmeno coi propri partner.

    «Ci penserò.»

    «Di cosa diavolo stai parlando? È così che lavori con i tuoi partner? Starei meglio con Jumbo.»

    Frankie aprì la porta e si voltò verso Lou prima di andarsene. «Credo che qualcuno mi abbia mandato un messaggio. Se ho ragione, tu preferiresti non saperlo.»

    #

    Frankie si infilò in un parcheggio e camminò fino al suo appartamento. Alex e Keisha, due dei bambini che abitavano nell’edificio, erano seduti su un gradino. Lui aveva fretta di salire di sopra, ma trovava sempre del tempo per questi due. Alex aveva dieci anni e, come molti dei bambini di strada, era tutto pelle e ossa. Keisha aveva dodici anni e stava attraversando una di quelle fasi di irrobustimento che le giovani donne odiavano. «Cosa stanno combinando i miei due mocciosi preferiti qui fuori con questo freddo?»

    Alex non si prese la briga di alzare lo sguardo. «Non tutti odiano il freddo come te, FD.»

    «Lo sai perché siamo qui» rispose Keisha.

    Frankie si sedette accanto a loro e rabbrividì quando il suo sedere entrò in contatto col cemento. Si allungò e sfregò la testa di Alex. «Tua madre ha compagnia?»

    Il mento di Alex restò appoggiato sulla sua mano. «Già.»

    «A parte questo, come va?»

    Così ottenne un sorriso. «Non male, FD, e tu? Sempre ad acciuffare brutti ceffi?»

    «Non tanto acciuffare quanto cercarli, ma mi tiene impegnato.» Frankie mise nella voce più entusiasmo che poté. «Devo togliervi da questo freddo. Perché voi due non venite su? Vi preparo la cena.»

    «Ho assaggiato come cucini» rispose Alex.

    «Allora immagino che saremo solo io e la mia fidanzata.»

    Keisha si raddrizzò la gonna, afferrò saldamente la mano di Frankie ed entrò.

    Alex li seguì. «Non ho detto che non venivo. La tua cucina fa schifo, ma è meglio di quello che ho adesso.»

    Frankie mantenne il sorriso mentre salivano le scale. Quello che avrebbe voluto fare era arrestare la madre di Alex e sbattere il suo culo in prigione. E lo avrebbe fatto se fosse riuscito a trovare un modo di tenere Alex lontano dai servizi sociali.

    Quando raggiunsero il secondo pianerottolo, la madre di Keisha mise la testa fuori dalla porta. «Keisha, è ora di mangiare, piccola.»

    «Mangiamo con FD.»

    Lei uscì sul pianerottolo, con le mani sui fianchi e la testa inclinata. «Ragazzina, quante volte devo dirtelo? Il Detective Donovan non ha bisogno che tu e Alex lo teniate lontano dal lavoro. Dio sa quanto abbiamo bisogno che venga arrestata un po’ di gente in questa città. Potremmo far arrestare qualcuno anche in questo palazzo.» E mentre lo diceva lanciò a Frankie un’occhiata con un sopracciglio alzato.

    Keisha protestò, ma sua madre la interruppe. «Non discutere.» Mentre tornava verso il suo appartamento si voltò. «Porta Alex, se vuoi.»

    Alex annusò l’aria e poi guardò Frankie. «FD, credo che passerò il tuo invito. Senti il profumo del sugo dell’arrosto? Sarà mille volte meglio di quello che fai tu.»

    «Non stupitevi se scenderò a mangiare con voi, ragazzi» rispose Frankie e iniziò a salire i gradini che portavano al suo appartamento. Era sollevato di avere la serata libera, ma triste perché i ragazzi non gli avrebbero fatto compagnia. Alcune persone avevano un debole per cani o gatti. Frankie lo aveva per i bambini. Non poteva respingere un bambino in difficoltà. Forse a causa della sua gioventù travagliata o forse era solo che pensava di poter fare la differenza.

    Quando raggiunse la cima delle scale si era già tolto la cravatta e aveva sbottonato la camicia, nonostante il freddo della scalinata. Girò la chiave e spinse la porta, accolto da un immenso vuoto. Una casa vuota per una persona vuota. Questo era quello che Mamma Rosa diceva sempre. Alzò le spalle, come se accettasse l’inevitabile, si avviò verso la cucina, aprì una bottiglia di Chianti e poi si fece una doccia.

    Quando uscì, con indosso un paio di pantaloncini e una maglietta, si versò un bicchiere di vino e si sedette alla scrivania. Scrivere gli apriva la mente e lo portava a pensare in modo diverso. Ripensò alla giornata e alla scena del crimine. Merda di ratto e ratto morto. Il ratto aveva un significato speciale. Per qualunque altro detective non avrebbe significato niente, ma per Frankie significava molto. Se qualcuno del suo vecchio quartiere era coinvolto, questo riduceva la lista dei sospettati da milioni di persone a una sola manciata. In cima alla lista c’erano due persone: Tony Sannullo, capo di una cosca della famiglia Martelli, e Niccolò Fusco, altrimenti noto come Nicky il Ratto.

    Premette il pulsante della sua penna a sfera, estrasse un bloc-notes a righe dal cassetto e cominciò. Frankie usava il computer quasi per tutto, ma preferiva scrivere alla vecchia maniera, con una penna e un foglio. Si sentiva a casa con una penna in mano.

    Persino le suore alla scuola elementare gli dicevano che sarebbe diventato uno scrittore un giorno.

    Chiunque abbia una calligrafia come la tua imparerà a scrivere. Questo è ciò che gli diceva Sorella Mary Thomas. Forse il suo stimolo lo aveva fatto rimanere quando avrebbe voluto andarsene. Frankie sorseggiò il vino, posò la punta della penna sul foglio e scrisse:

    Questa storia ha avuto inizio circa trent’anni or sono, a Philadelphia. Ma è tutto molto lontano e sono passati molti anni. Nonostante ciò i miei ricordi sono ancora limpidi, come vi starete chiedendo, ed è semplice per me. Tony, Nicky e io eravamo migliori amici. Perciò, come hanno fatto Frankie Donovan, un Detective di Brooklyn, Tony Sannullo, un boss della mafia e Nicky il Ratto Fusco a diventare migliori amici?

    Frankie posò la penna e si appoggiò allo schienale della sedia. Non sentiva che non era giusto raccontare questa storia. Forse era per quello che non riusciva a iniziare. Si dice che il passato custodisca la chiave per il futuro. Frankie non sapeva quanto ci fosse di vero in questa frase, ma sapeva che qualcuno del vecchio quartiere era coinvolto in questi crimini. Se sperava di risolverli doveva capire dove qualcosa era andato storto. Frankie si mise le mani dietro la testa e sollevò i piedi. Se c’entra qualcuno del vecchio quartiere, allora è veramente la storia di Nicky. Forse dovrei raccontarla.

    Capitolo 4

    Insieme alla vita arriva la morte

    Wilmington, Delaware. Estate – 32 anni prima

    Mia madre si chiamava Maria Fusco. Si diceva che avesse avuto difficoltà con la gravidanza e che i primi otto mesi le erano sembrati più di diciotto. Il malessere del mattino era durato quattro mesi, poi erano arrivati i mal di testa, mal di schiena, crampi allo stomaco; tutte le cose che lei non voleva, specialmente con il suo primo figlio. Rosa Sannullo, la sua vicina e migliore amica, diceva che era un segno e non era buono. Problemi durante i primi mesi significavano che il bambino avrebbe potuto avere mal di denti o aria nella pancia. Nei pochi mesi seguenti, che avrebbe avuto una gioventù problematica. Ma problemi durante tutta la gravidanza solitamente significavano avere un bambino cattivo, era il segno che il diavolo era al lavoro. Rosa si faceva sempre il segno della croce mentre diceva queste cose e portava sempre con sé un cornetto, un amuleto che serviva a tenere lontane le presenze maligne, in modo da poterlo mettere al bambino non appena fosse nato.

    Rosa stava con mia madre tutto il giorno, tamponandole la fronte con le pezze fredde quando le veniva la febbre e imboccandola con cucchiai di pastina quando si sentiva venir meno. «Mangia, Maria.»

    «Non ho fame» mormorava. «Dov’è Dante?»

    «Dante sta ancora lavorando. Ma ascoltami. Io ho avuto quattro bambini e ho sempre preso tra gli otto e i dieci chili, e sto per averne un altro. Hai bisogno di mangiare per il bambino. Lui ha bisogno di forze.»

    La risata di Maria era debole e forzata. «Continui a dire lui. Come sai che non è una bambina?»

    Rosa si schernì. «Una bambina non causerebbe mai così tanti problemi. Le bambine aspettano finché non sono cresciute. Allora cominciano a causare problemi.» Sollevò la testa verso il cielo e sospirò. «Dio santo. Non ti piacerebbe sapere i problemi che causano dopo.»

    Rosa strofinò la pentola in cui aveva cucinato la pastina, poi la ripose ad asciugare mentre finiva i piatti. «Inoltre, tu hai bisogno di avere un maschio, così può giocare con Antonio.» Si accarezzò il ventre rigonfio e sorrise.

    Maria scivolò sul fianco tenendosi la pancia. «Forse dovrei andare.»

    Rosa si chinò e posò la mano sulla pancia di Maria. «Le acque non si sono rotte, ma sta scalciando forte. Questo è un buon segno.» Rimase in piedi a pensare. «Ma se ti fa male, forse dovremmo andare. Vado a chiamare Dominic.»

    #

    Rosa parlò per tutta la strada fino all’ospedale e per tutto il tempo tenne la mano a Maria. «Betty McNulty ha chiesto di te. E anche quella Snyder giù a Chestnut Street.»

    Maria annuì. «È simpatica. Come sta la sua piccolina? Non ha avuto problemi alla nascita?» Le mani di Maria corsero alla pancia. Le sue ginocchia si sollevarono. «Rosa.» Strinse i denti e corrugò la fronte. «Oh Signore. Fa male.»

    Rosa dava dei colpetti alla testa di Maria mentre lei le stringeva la mano. «Andrà tutto bene. Tieni duro.» Si sporse verso Dominic e sussurrò: «Sbrigati

    «Mi sto sbrigando, Rosa.» Dominic spinse sull’acceleratore, ma a ogni incrocio Rosa gridava di più. Meno di un chilometro più tardi le gomme stridettero mentre si infilava nell’entrata dell’ospedale. Balzò fuori, spalancò la portiera posteriore e tirò fuori Maria, portandola in braccio.

    Rosa tenne aperta la porta e gridò: «Fate venire un dottore. Questa donna sta per avere un bambino. E sta sanguinando.»

    Un assistente venne loro incontro con una sedia a rotelle. Tolse Maria dalle braccia di Dominic e la portò di corsa in sala operatoria. Rosa afferrò un dottore che stava parlando con un’infermiera. «Dottore, vada dentro con Maria. Quella donna sta per avere un bambino. Sanguina. Sta sanguinando.»

    Stavano aspettando da cinque o dieci minuti quando Rosa si ricordò che nessuno aveva avvertito Dante, marito di Maria da dieci anni. Era difficile dire chi dei due amava di più l’altro. Lui stravedeva per lei e lei lo aspettava come se quello fosse il suo unico scopo nella vita. «Che Dio mi aiuti! Dominic, non abbiamo avvertito Dante!»

    «Calmati, Rosa. Sai dove sta lavorando?»

    «Da qualche parte . . .» Si grattò la testa. «Dalle parti del lungomare. Giù su Front Street.»

    Dominic annuì. «Conosco il posto.»

    Mezz’ora dopo, Dominic era di ritorno con Dante, il cui volto era segnato dalla preoccupazione. Lui corse da Rosa e la abbracciò.

    «Come sta lei?»

    «Aveva molto dolore.»

    Per più di un’ora rimasero seduti, camminarono su e giù e si preoccuparono. Mentre Rosa pregava con il suo rosario, Dante si alzò per la terza volta. Camminò un po’. Si torse le mani secche. «Cosa può essere andato storto?» Il suo volto era un miscuglio di rughe.

    «Ti prego, siediti» disse Rosa. «La preoccupazione logora il cuore.»

    Dante tornò al divano e si sedette. «Non possiamo perdere questo bambino. È tutto ciò per cui Maria ha vissuto.»

    Rosa lo guardò negli occhi e gli prese il volto fra le mani. Dante Fusco era un tagliapietre, un uomo forte. Ma ancor più, era un uomo rispettato. Lei lo abbracciò ancora e poi fece segno a suo marito di lasciarli soli. «Andrà tutto bene, Dante. Cerca di non preoccuparti.»

    Alcuni minuti più tardi un dottore si diresse verso di loro attraversando le doppie porte della sala d’aspetto. Si guardò intorno mentre si toglieva la mascherina verde dalla faccia. «Signor Fusco?»

    Dante balzò in piedi e corse verso di lui. «Sono io Dante Fusco. Come sta Maria?»

    Il silenziò parve durare un anno. Quando il dottore cercò la mano di Dante, Rosa si balzò in piedi e corse da lui.

    «Mi dispiace, Signor Fusco» disse il dottore. «Non abbiamo potuto salvarla.»

    Dante ascoltò le parole e comprese il loro significato, ma non riuscì ad accettarle. Qualcosa si attorcigliò dentro di lui. Scattò. Si ruppe. Fissò il dottore. Nessuna lacrima. «E il bambino?»

    «Avete un bel maschietto sano.»

    Dante annuì, poi si voltò e se ne andò. Oltrepassò Rosa che lo stava aspettando per consolarlo. Poi oltrepassò Dominic che stava tornando col caffè. Uscì dalla porta e per tutta la strada verso casa non si fermò mai per niente, non pensando ad altro che a Maria. A tutta la vita che non avrebbero mai avuto insieme.

    #

    Tre giorni dopo, Rosa si recò con Dante a prendere il bambino. Dominic guidava.

    «Dante, un bambino non può rimanere senza nome per così tanto tempo. Altrimenti perderà la sua anima.»

    «Quando lo avrò portato a casa gli troverò un nome.»

    «Mi è sempre piaciuto Gianni» disse Rosa. «O Vittorio.»

    «Ci penserò, Rosa.»

    Rosa si fece il segno della croce. «Pensa a quello che vuoi, ma dagli un nome prima che lo faccia Satana.»

    Mentre si avvicinavano a casa, Rosa si allungò e benedisse il bambino. Gli aveva già legato il cornetto intorno al collo. «Dovrebbe essere allattato al seno. Due isolati più in giù, la vicina della Snyder ha appena avuto un bambino. Potrebbe allattarlo lei. E quella ragazza irlandese in Maryland Avenue. Camille, credo, suo figlio ha solo tre mesi. Dovrebbe avere un sacco di latte. Quelle irlandesi hanno sempre latte buono.»

    Rosa si appoggiò allo schienale, accarezzandosi la pancia ingrossata. «Questo piccolino sta scalciando. Credo che abbia vogli di uscire a giocare.»

    «Come sai che è un bambino?»

    «Perché è una strega» rispose Dominic dal sedile del guidatore.

    Rosa si sfregò le mani. «Perché ho già avuto quattro maschi e ho la stessa sensazione che ho avuto con loro. Devo aver fatto qualcosa di veramente sbagliato se Dio mi punisce in questo modo» e fece il segno della croce mentre lo diceva. «Dio santo. Scalcia ancora. Forse non avremo bisogno di quella ragazza irlandese. Pare che Antonio arriverà prima di quanto creda il dottore.»

    Dante le diede un colpetto sul braccio. «Sei una donna buona, Rosa. Grazie per il tuo aiuto.» Si appoggiò e disse: «e grazie anche a te, Dominic. Apprezzo quello che tu e Rosa avete fatto.»

    «Non dimenticare quello che ti ho detto riguardo all’allattamento. Sembra già magro.»

    Dante sospirò. «Rosa, so come ti senti, ma i bambini crescono bene anche col latte artificiale.» Lui mantenne una presa solida ma morbida sul bambino, avvolto in una coperta fatta a maglia da Rosa. Osservò i suoi lineamenti contorti, la faccina rosea, i piedi arricciati. "Non è stato un bello scambio per Maria. Non è stato un bello scambio per niente."

    Mio padre non mi diede un nome finché non ebbi cinque giorni. Rosa lo aveva avvertito di non aspettare, perché Satana avrebbe potuto reclamarmi.

    Niccolò Conte Fusco. Questo è il nome che mi diede. Immagino che sia opinabile se me l’abbia dato in tempo oppure no. Alcuni, come Rosa, giurano che lo fece; altri . . . beh, altri potrebbero dire che aveva aspettato troppo a lungo. Davvero troppo.

    Capitolo 5

    Monetine

    Wilmington – 26 anni prima

    Mi svegliai felice il giorno del mio sesto compleanno. Io ero nato il primo di agosto, ma Mamma Rosa mi faceva celebrare due compleanni: il giorno in cui ero nato e il giorno in cui papà mi aveva dato il nome, nel caso in cui i santi li mescolassero.

    La scuola era finita già da un mese, perciò avevo un sacco di tempo per fare cose. Un sacco di tempo per mettermi nei guai, diceva mio padre. E di solito aveva ragione. Tony, Frankie e io gestivamo il quartiere, almeno nei nostri sogni. Avevamo sei anni, ma andavamo per gli otto e desideravamo averne dieci.

    Fumare sigarette era una vecchia abitudine ormai. Una delle cose per cui vivevamo. Ogni volta che eravamo abbastanza lontani da casa o dagli occhi indiscreti di un vicino, c’era una sigaretta che penzolava dal lato sinistro delle nostre bocche. Doveva essere per forza il lato sinistro. Non so da dove veniva questa abitudine, ma qualcuno che avevamo visto e che ammiravano doveva averla tenuta in quel modo.

    Stavo ancora sdraiato pigramente nel letto quando si aprì la porta di casa. Io sentii il rumore di piedi che battevano sugli scalini.

    «Alza il culo, Nicky.» Tony entrò, seguito da Frankie.

    Il vero nome di Frankie era Mario, il nome del suo nonno materno, ma non gli piaceva il modo in cui Mario suonava vicino a Donovan, così prese il suo secondo nome. Se volevamo farlo incazzare lo chiamavamo Francis. Funzionava ogni volta.

    «Cristo santo, se n’è già andata mezza giornata» disse Tony. «Andiamo.»

    Io saltai fuori dal letto e iniziai a vestirmi. «Che fretta c’è?»

    «Voi ragazzi dovete aiutarmi a pulire.»

    «Che coglione» disse Frankie e fece la lotta con lui sul letto.

    Ridemmo tutti, poi corremmo su per la collina verso casa di Tony. La collina su cui abitavamo era ripida, non ripida come quelle di San Francisco, ma il tipo di collina ideale per fare le corse con le barche fatte di bastoncini del gelato nei canali di scolo dopo un temporale estivo, oppure per farsi dare un passaggio sul paraurti delle auto quando nevicava. Ad ogni modo, eravamo bambini e correre su per la collina era divertente.

    «È meglio che non ci mettiamo troppo» disse Frankie.

    «Finiremo in men che non si dica.» Quando Tony aprì la porta di casa, l’odore dolce dell’aglio mi colpì. Ero già affamato prima ancora che la porta sbattesse chiudendosi.

    «Buongiorno, Mamma Rosa.»

    «Cosa fate, ragazzi?» Spense l’aspirapolvere portatile ed estrasse uno straccio per la polvere da una tasca del suo vecchio vestito scozzese

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