Quelli che hanno fatto grande Milano, l'Italia
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Quelli che hanno fatto grande Milano, l'Italia - Bruno Maffeis
Fo
PRESENTAZIONE
Controcopertina Quelli che hanno fatto grande Milano, l'Italia
Il Famedio del Cimitero Monumentale di Milano Nel progetto iniziale questa artistica costruzione era destinata a chiesa per le cerimonie religiose; Ma la sua destinazione è stata ben presto mutata: avrebbe dovuto servire per la sepoltura dei personaggi milanesi illustri.
Milano: sì, è il Duomo, il Castello, la Basilica di Sant'Ambrogio, la Pinacoteca di Brera, la Scala ... Ma non sono questi monumenti, queste raccolte d'arte; non è il tempio della musica milanese a spiegare la grandezza della città. Roma, Londra, Parigi... hanno di più e forse di meglio di Milano; hanno alle spalle secoli, millenni di storia travagliata e gloriosa; hanno condizionato la storia di altri popoli. Milano ha avuto più debole ruolo nella storia italiana, europea.
Allora, perché Milano è grande, tanto da star alla pari di metropoli blasonate?
Lo deve alla schiera di donne e uomini eccezionali che in questi secoli l'hanno abitata, vi hanno lavorato, profondendo le loro doti nel campo artistico, letterario, musicale, scientifico, medico, industriale. Lo deve ai sindaci che si sono succeduti alla guida della città dall’Unità d’Italia, guidandola con saggezza e fermezza verso lo sviluppo industriale, economico, sociale.
E le Amministrazioni Comunali milanesi, consapevoli del debito di riconoscenza nei loro confronti - una riconoscenza che durasse nei secoli - e nell'intento di proporli ad esempio per le generazioni future, hanno voluto ospitare la loro salma nel Famedio, il cuore del Cimitero Monumentale. Primo grande personaggio ad essere tumulato in questo 'Famedio', in questa 'Sede della Fama', è stato Alessandro Manzoni. E dopo di lui decine e decine (ad oggi sono 73, dei quali 63 uomini e 10 donne) di altri cittadini illustri, benemeriti e distinti nella Storia Patria
come dicono le grandi scritte nell'artistica volta del Famedio. Ultimi in ordine di tempo il musicista Giorgio Gaslini e la cantante lirica Magda Olivero, deceduti nel 2014.
Questo volume racconta la vita di tutti con delicato garbo, con empatia, e illustra la loro personalità con abbondante documentazione iconografica (alcune immagini sono inedite).
E dopo aver letto il libro, se vi capita, entrate nel Famedio, soffermatevi davanti a quelle urne, a quelle lapidi; rileggete i loro nomi, ripensate a loro. Meritano il nostro ricordo, la nostra gratitudine.
Nel Famedio la grande squadra sociale che ha costruito Milano
La grande squadra sociale che ha costruito Milano è tutta in questo libro che ci parla dei 71 personaggi che la cittadinanza milanese in quest’ultimo se- colo e mezzo ha voluto onorare tumulan- doli nel Famedio del Monumentale. E c’è un aspetto che salta subito all’occhio: non ci sono differenze tra nativi ed oriundi, tra uomini e donne, tra popolani, bor- ghesi e nobili. Questo libro, quasi come un album della città, contribuisce a riunire simbolica- mente le biografie dei Milanesi migliori che la città ha riconosciuto come parte dei sentimenti della Comunità, accogliendone i resti mortali o, talvol- ta, solo svolgendo un’accoglienza virtuale, al Famedio (‘Famae Aedes’, tempio della Fama). La lettura delle biografie di questi perso- naggi ci permette di rivivere parte della storia della Città, anche per comprender- ne il cambiamento in atto e per accompa- gnarlo al meglio nel corso dei prossimi eventi, a cominciare da Expo 2015. La revisione identitaria che si svolge nel- le Comunità democratiche tende sempre ad includere e ad accogliere sentimenti che dovrebbero prevalere su quelli, pur legittimi, del rifiutare e del cancellare. Anche le storie dolorose sono, e debbono essere, di insegnamento. Rimuoverle, infatti, non ci aiuta a comprendere ed evitare, per quanto umanamente possibi- le, errori e tragedie. Prendere atto del contributo dato, nel tempo, da chi di quella storia è stato protagonista,è comunque un punto di forza. Perché non può esserci innovazione senza tradizione. Qui, dunque, non è solo naturale l’inclu- sione, ma è anche importante ampliare la conoscenza di persone e vicende non sempre note e che, lette nella loro com- plessità, costituiscono un forte messaggio di come si forma, anche con l’impegno ci- vile, una classe diri- gente che attraversa il tempo. È importan- te, per guardare al futuro, il ricordo e la memoria di persona- lità che hanno dato un contributo etico di idee, di valori, spesso anche con alti costi personali, allo sviluppo della città e della società, alle cause di progresso e di libertà, di benes- sere e di riorganiz- zazione del futuro. I Milanesi nativi
, come Alessandro Manzoni o Carlo Cattaneo, convivono nel Famedio (e quindi in queste pagine) con pari diritti di memoria e di riconoscenza dei Milanesi adottivi
, come Giusep- pe Verdi o Arturo Toscanini. La storia moderna e contemporanea ci riconsegna eroi e innovatori, personalità creative e legate al mondo della solidarietà, artisti e figure istituzionali, imprenditori e visiona- ri, sapienti e coraggiosi, figure spirituali e sollecitatori di progresso. Una grande squadra sociale che supera i confini locali e che ci fa riconoscere il genius loci
nel pluralismo delle espe- rienze, delle idee, dei sogni e dei valori dei tanti che hanno fatto grande Milano.
Giuliano Pisapia, sindaco di Milan o
Milano, novembre 2015
Il Famedio: luogo di raccolta delle storie di milanesità
Il Monumentale è paradigma di una città della cultura e dell’architettura, ma anche di una città industriale che, tra l’ '800 e il '900, racconta qui la sua classe dirigente ed al contempo il suo popolo laborioso.
I Milanesi fin dal '700 avevano un’idea un po’ sferzante della loro identità. Diceva Pietro Verri: «Milano è un paese dove chi ha testa cerca di comandare o se ne va». Non sono inclini ad onorare la nobiltà di sangue, ma riconoscono e premiano la nobiltà del lavoro, della intelligenza e della cultura.
Nelle pagine di Alessandro Manzoni la forza terribile del potere e dell’arbitrio viene evocata attraverso la descrizione del villaggio e degli abitanti nel quale sorge il cupo palazzotto
di don Rodrigo, distaccato dal resto dell’abitato da un leggero saliente, a marcare una distanza che è ben più profonda delle poche centinaia
di metri di strada nuda che lo percorre.
In vita come in morte, a Milano non vale invece il criterio della separazione;
classi dirigenti, borghesi, popolo, vivono nelle stesse strade ed in case e palazzi
che stanno vicini: le distanze sociali
non sono certo annullate ma non intercorre nella città quella distanza fisica che si trova nella topografia di altri territori.
Ci sono dei modi di dire – assai noti – che celebrano un po’ l’orgoglio della città, diciamo pure anche una sua certa consapevole sbruffonaggine. Milàn e poe pu
(Dopo Milano nient’altro), Milàn l’è ‘n gran Milàn
ed altri ancora. E la città (detta al maschile) è grande più dei suoi cittadini. È il contenitore che fa grande
i suoi abitanti ed è forse qui che sta
anche un certo spirito di accoglienza e di integrabilità. Chi lo comprende alla fine diventa più assertore di quel primato
degli stessi Milanesi autoctoni. Per questo i Milanesi innalzano il Famedio nella seconda parte dell’'800, concepito all’inizio per ospitare nel 1883, a dieci anni dalla morte e in degna cornice, la tomba di Alessandro Manzoni e l’anno dopo quella di un’altra grande figura della comunità milanese, Carlo Cattaneo.
I due grandi sono nella sala centrale con un terzo busto che si erge lì a ricordarci un’altra parità di racconto molto milanese tra i nativi (come lo furono Manzoni e Cattaneo) e gli adottivi (come fu Giuseppe Verdi). Il Famedio cominciò ad ospitare i costruttori della modernità, di cui i primi nel '900 furono Carlo Forlanini e l’architetto Luca Beltrami e divenne progressivamente più che un Pantheon dedicato alla grandezza dei pochi, il luogo di raccolta delle storie di milanesità incarnate da coloro che vi sono sepolti o ricordati nelle liste marmoree dei cittadini che hanno illustrato la città
. Il Comune di Milano continua la tradizione di onorare chi con la sua vita ed il proprio esempio ha illustrato la città
attraverso l’iscrizione alle liste del Famedio, ovvero alla sepoltura nella cripta civica.
Considero il compito che mi è toccato in questi anni in qualità di assessore ai Servizi Civici di istruire le pratiche per queste decisioni un onore ed una possibilità irripetibile di contribuire seppur in misura minima a mantenere e ricordare il vero spirito di Milano.
Franco D’Alfonso, assessore ai Servizi Civici
Milano, novembre 2015
Il Cimitero Monumentale
Il luogo degli affetti, della memoria, dell’arte nel cuore di Milano
Fuori, oltre i muri, una città che vive frenetica. Qui un silenzio fatto di ricordi che si ridestano, di sentimenti che si ravvivano
Fino agli inizi del 1800 Milano aveva sei Cimiteri, collocati in corrispondenza delle sei porte d’ingresso alla città. L’Amministrazione comunale, anche in ottemperanza all’editto napoleonico del 1804, ritenne opportuna la realizzazione di un nuovo Cimitero, grande, modernamente attrezzato. Così nel 1838 bandì un concorso per il progetto per una nuova area cimiteriale.
Ma le proposte che arrivarono in Comune rimasero chiuse nei cassetti; non se ne fece niente. Erano anni difficili e turbolenti, quelli; Milano aveva problemi più urgenti ai quali mettere mano; primo fra tutti: i dominatori austriaci in casa.
Cacciati gli Austriaci, fatta l’Unità d’Italia, una delle prime deliberazioni della nuova Amministrazione comunale milanese, nel 1860, è appunto di rifare un bando di concorso per il progetto di un nuovo cimitero. Viene scelto quello dell’architetto Carlo Maciachini; piace per il suo simbolismo e la grandiosità e solennità dell’impostazione planimetrica: quella grande corte d’onore, semicircolare e quell’imponente cupola che richiamano la romana piazza San Pietro sono braccia tese in un invito, in un abbraccio ai Milanesi che vengono a trovare i propri morti.
Maciachini vuole abbandonare i consueti schemi neoclassici, imperanti in quei decenni, e modula le sue strutture in ben riuscite composizioni e in una felice fusione di differenti stili di differenti epoche, dove il romanico lombardo si fonde con elementi del gotico pisano e con richiami bizantini.
Un insieme imponente, elaborato in un complesso eclettismo artistico, ma nello stesso tempo armoniosamente equilibrato e perfettamente funzionale. Il Monumentale rimarrà per l’Italia e per l’estero un modello insuperato di architettura funeraria.
Il nuovo Cimitero ha iniziato ad accogliere le salme nel 1866; il giorno dell’inaugurazione, all’apertura dei cancelli, i Milanesi sono entrati in massa curiosi ed anche orgogliosi di quella grandiosa opera della quale si sentiva tanto il bisogno. Originariamente si estendeva su un’area di 180.000 metri quadrati; nel corso degli anni è stata ampliata (oggi sono più di 250.000).
Nell’impostazione del progettista doveva ospitare grande varietà di cappelle e monumenti funerari, con ampia libertà architettonica ed artistica. Ma anche nel massimo rispetto delle fedi religiose: erano previsti un settore per gli acattolici e uno per gli Israeliti. E così i monumenti funebri che via via sono andati arricchendo il Monumentale risentono delle tendenze artistiche che si sono susseguite dall’Unità d’Italia ad oggi in una città-laboratorio d’arte come Milano, sotto l’impulso (ed anche sotto la supervisione) dell’Accademia d’Arte di Brera, vero punto di riferimento per gli artisti di tutta Italia. E con il passare degli anni il nuovo cimitero è diventato un vero e proprio ‘museo a cielo aperto’ ove si possono ammirare opere di grandi architetti e grandi scultori di questo ultimo secolo e mezzo. Ricordiamo che il Cimitero Monumentale è figlio di una Milano che sta scoprendo la sua vocazione a diventare città d’avanguardia nel settore artistico, culturale, ma in particolare nel settore industriale. Sta nascendo una nuova classe imprenditoriale, ricca, che vuole affermarsi economicamente e acquisire prestigio in città. E un modo per farlo era quello di affidare agli artisti più ‘alla moda’ il compito di creare la tomba di famiglia al Monumentale.
Il cammino tra i viali è un suggestivo percorso tra l’architettura neoclassica, il liberty, le espressioni tardo-romantiche e le neo-avanguardie.
L’Associazione Amici del Monumentale è nata per diffondere e promuovere la conoscenza di questo Museo a cielo aperto
e per fare da raccordo tra i cittadini e le istituzioni nell’opera di mantenimento e restauro delle opere d’arte contenute tra i viali alberati di questo grande e splendido ‘giardino della Memoria’.
Famedio del Monumentale: qui riposano i nostri eori
Interno del Famedio, parte centrale; in primo piano la tomba di Alessandro Manzoni;
in secondo piano la tomba di Carlo Cattaneo
La grandiosa costruzione in stile neo-rinascimentale rivestita di marmi e di mattoni dalla quale si dipartono le due gallerie semicircolari il cui insieme costituisce il maestoso ingresso del Cimitero Monumentale è il ‘Famedio’; il nome che deriva dal latino ‘Famae Aedes’ ben ne designa la funzione: ‘Tempio della Fama’; in senso più lato: ‘Pantheon degli Uomini Illustri’. Lì sono sepolti o ricordati con monumenti o anche con semplici iscrizioni I cittadini illustri, benemeriti e distinti nella Storia Patria
. Nel progetto originario, elaborato dall’architetto Carlo Maciachini, quell’edificio era destinato a luogo di culto; doveva essere una chiesa, ma già dopo pochi anni dall’inaugurazione del Cimitero (avvenuta nel 1866) ebbe un’altra destinazione: accogliere - nella parte superiore (quella che avrebbe dovuto svolgere la funzione di chiesa) e nella ‘galleria’ della parte inferiore - le salme dei personaggi più illustri. Il primo ad avere questo onore fu Alessandro Manzoni, le cui spoglie furono qui trasferite nel 1883 in occasione del decimo anniversario della morte; originariamente il grande sarcofago in marmo contenente le illustri spoglie era posizionato lungo la parete di fondo; nel 1958 gli si volle dare una collocazione più degna: il sarcofago venne portato al centro e posto sopra un alto basamento con rilievi in bronzo dello scultore anno successivo vennero poste nel Famedio le spoglie di Carlo Cattaneo (che era deceduto 15 anni prima); sopra il sarcofago un busto dello scultore Metello Motelli. Venne poi tumulato (in una parete) il medico Carlo Forlanini (morto nel 1918) e l’architetto Luca Beltrami (morto nel 1933); accanto al sarcofago di quest’ultimo è posizionato su una colonnina un suo busto, opera dello stesso scultore dei rilievi in bronzo del Manzoni. Negli anni successivi l’onore della sepoltura nella parte ‘centrale’ del Famedio (tumulati entro pareti) toccò a Leo Valiani, Bruno Munari, Salvatore Quasimodo.
Qui sono ricordati - anche se sepolti altrove - personaggi che hanno reso grandi servigi alla Patria. Troviamo un busto di Giuseppe Mazzini (opera di Montegani), che è sepolto a Genova; un altro busto, opera di Quadrelli, ricorda Giuseppe Verdi che è inumato nella Casa di Riposo per Musicisti da lui fondata, a Milano. Sulle pareti lapidi di marmo riportano centinaia di nomi di uomini e donne (non solo Milanesi, ma di tutta Italia), sepolti in altri cimiteri, alle quali la città di Milano, la Nazione tutta devono onore e gratitudine. In un angolo sono collocate tre alte stele di bronzo con incisa una lunga serie di nomi. Sono i nomi di persone altamente benemerite, che hanno avuto stretti rapporti con la città (la maggior parte native di Milano; ma ci sono anche tanti ‘non milanesi’ di nascita). Le loro spoglie giacciono nei ‘colombari’ collocati nella Cripta sottostante il corpo centrale del Famedio.
In queste pagine presentiamo sintetiche biografie di tutte le personalità sepolte nel Famedio, sia nella parte superiore, sia nella Cripta della parte inferiore.
Biografie che hanno lo scopo di tener desto il ricordo di quanto questi uomini e queste donne hanno fatto per Milano, per l’Italia.
La 'Galleria' del Famedio
Giovanni Battista Monteggia
Laveno, agosto 1762 - Milano, gennaio 1815
Giovanni Battista Monteggia
Medico, chirurgo, anatomista; ha onorato la classe medica milanese facendo della medicina, delle ricerche anatomiche e chirurgiche e della botanica, scienze al servizio del malato, non scienze accademiche. Ha trasmesso le sue approfondite conoscenze in numerose pubblicazioni
ancor oggi basilari negli ambienti medici (in particolare quelle sulla traumatologia). Ha speso tutta la sua vita nella cura dei malati e nell’insegnamento della medicina.
E questa dedizione totale lo ha portato a gravi malattie per contagio; una di queste è stata per lui fatale.
La 'Ca' Granda', l'ospedale milanese nel quale Monteggia ha prestato per tanti anni generoso servizio
Giovanni Battista Monteggia nasce nel 1762; la sua infanzia e la sua prima giovinezza le trascorre sulle rive del lago Maggiore, a Laveno, ove il padre ha un importante ruolo statale nel settore acque e strade. Compie gli studi liceali nella cittadina di Pallanza.
I genitori, che hanno già un figlio medico (un terzo è sacerdote), vorrebbero anche per Giovanni Battista un futuro da chirurgo, così lo iscrivono, diciassettenne, alla Scuola di Chirurgia dell’Ospedale Maggiore di Milano (la Ca’ Granda
, voluta da Francesco Sforza nel 1456). Così il ragazzo si trasferisce nella grande città ove vivrà poi per tutta la vita.
Giovanni Battista è convinto che l’identificazione e la cura delle malattie e un corretto esercizio della chirurgia sono strettamente legati ad una profonda conoscenza del corpo umano; così si dedica agli studi anatomici frequentando assiduamente la sala mortuaria ove gli è concesso praticare incisioni; è convinto anche che la Natura stessa ha nascosto nelle piante, nelle erbe, nei minerali sostanze che possono aiutarci a guarire dalle malattie; così integra i suoi studi (del resto compiuti sotto la guida di alti luminari) con una parallela personale preparazione botanica e chimico-farmaceutica. Da sottolineare anche un’altra caratteristica di questo giovane studente, rivelata dai suoi colleghi: nei momenti di libertà dalla scuola si reca nelle case dei quartieri poveri per visitare i malati; è per lui un’altra preziosissima scuola dove può impratichirsi, fare esperienza; ma è anche una benedizione per quei malati che diversamente non avrebbero potuto permettersi la visita di un medico.
Monteggia per tutta la sua vita ha sempre un’attenzione particolare per i poveri ai quali dedica gratuitamente la sua assistenza, anche quando avrà raggiunto grande fama e sarà oberato di richieste.
Nel 1781 (ha 19 anni) presso l’Università di Pavia sostiene l’esame per la libera pratica in Chirurgia; sei anni dopo ottiene l’abilitazione all’esercizio della professione medica.
È del 1789 la sua prima opera medica, in latino. In essa si delineano la sua vasta conoscenza clinico-anatomica ed anche le sue doti di divulgatore di conoscenze all’epoca troppo ignorate. Con l’abilitazione e con la pubblicazione di quest’opera inizia la folgorante carriera medica di Monteggia nell’ambito dell’Ospedale Maggiore di Milano. È nominato chirurgo aiutante, poi incisore anatomico (dai resoconti ospedalieri dell’epoca veniamo a sapere che la direzione aveva assegnato a Monteggia una camera proprio attigua alle sale mortuarie, così da assicurare un suo intervento immediato in caso di bisogno, ed anche per agevolare la sua risaputa passione per gli studi anatomici). La direzione dell’ospedale, contando sul suo spirito di abnegazione, sulla sua passione per la medicina, ma forse anche abusando della sua disponibilità, lo incarica di dare a titolo gratuito lezioni di chirurgia ai giovani chirurghi ospedalieri.
Gli vengono affidati anche incarichi molto onerosi all’esterno dell’Ospedale: è nominato medico-chirurgo dei detenuti delle Carceri e del Foro Criminale di Milano. Questa mansione lo porta a stretto contatto con il mondo della prostituzione e con una delle malattie ad essa collegate, molto diffusa e che all’epoca non aveva rimedi scientifici: la sifilide. Traduce dal tedesco e dà alle stampe un Compendio sulle malattie veneree, utile per aiutare i medici a diagnosticare i sintomi di queste malattie molto diffuse. A quest’opera, di semplice traduzione e divulgazione in Italia, segue tre anni dopo un’altra opera sullo stesso argomento, frutto però delle ricerche, delle analisi e delle osservazioni fatte da lui stesso; vi espone una dettagliata casistica raccolta nel corso della sua lunga esperienza diretta, a contatto con carcerati e prostitute; tra l’altro, dal saggio emerge una sua particolare attenzione a quella che potrebbe essere definita ‘polizia medica’. Un’opera accolta con grandi encomi dai medici italiani e stranieri che potevano finalmente disporre di un trattato scientifico su una malattia diffusa, ma clinicamente poco conosciuta e considerata addirittura incurabile; è un’opera che conferma la fama di questo giovane e promettente medico milanese.
Erano anni, quelli, nei quali non era ancora salvaguardato il diritto alla privacy: le cronache dell’epoca riferiscono che anche il potente duca milanese Francesco Melzi d’Eril, che sarà eletto vicepresidente della Repubblica Italiana nel periodo napoleonico, fa ricorso al Monteggia perché lo guarisca da fastidiosi sintomi di una malattia venerea. Il nostro medico riusce nell’intento, con grande sollievo dell’illustre paziente il quale metterà a sua disposizione un assegno vitalizio (somma che il medico userà per i poveri).
Nel 1794 Monteggia sposa Giovanna Cremona, una giovane di Novara, dalla quale avrà cinque figli (due moriranno in tenera età). L’anno successivo è nominato professore di Istituzioni di Chirurgia all’Ospedale Maggiore. Gli vengono affidati anche importanti incarichi pubblici nella Sanità; grazie all’autorità che gliene viene, può istituire scuole di insegnamento medico in vari ospedali nel nord Italia. Tra le altre incombenze a lui affidate: deve esaminare gli aspiranti chirurghi dell’esercito.
È del 1796 l’opera che suggella la sua fama; è in latino, ma viene presto tradotta in italiano: Osservazioni anatomico-patologiche, un prezioso manuale per tutti i medici o aspiranti medici. È successivo di pochi anni un altro manuale utilissimo perché all’epoca il settore ginecologico, della gravidanza, del parto era poco trattato nella letteratura medica italiana. Traduce dal tedesco L’Arte Ostetrica, e vi aggiunge molte annotazioni personali in particolare sui parti laboriosi e sulle regole da seguire durante la gravidanza e il puerperio. Ma l’opera alla quale è legato il nome di Monteggia è Istituzioni chirurgiche, un testo redatto per accompagnare le lezioni all’ospedale. La prima edizione, che ebbe numerose ristampe a Milano, Napoli, Pavia, è uscita in cinque volumi; ma Monteggia ne cura subito una seconda, rivista e ampliata, che esce qualche anno dopo in otto volumi. In questo suo corposo trattato, molto utilizzato per la formazione degli studenti, Monteggia approfondisce gran parte delle patologie conosciute all’epoca e spiega le varie tecniche chirurgiche. In particolare fornisce preziosi contributi descrittivi alla patologia dell’apparato locomotore, soprattutto per la parte riguardante la traumatologia. È il primo a studiare e a descrivere i vizi dell’andatura; rende più semplice la tecnica della medicazione delle ferite e delle piaghe e perfeziona gli apparecchi in uso per curare le fratture e le distorsioni; è il primo anche a descrivere la poliomielite. Sta lavorando al nono volume delle sue Istituzioni chirurgiche (che sarebbe stato dedicato ad argomenti veramente innovativi, quali elettricità, vaccinazione, farmacopea chirurgica) quando viene colpito da fortissime febbri intermittenti, causate dalla ‘risipola’ all’orecchio destro. Nonostante lo stato debilitato, il dolore, Monteggia non vuole interrompere le sue prestazioni ai malati. Ma la malattia avanza: si sparge per tutto il viso. A nulla valgono le cure dei colleghi: Monteggia muore la notte del 17 gennaio 1815, nel letto della sua casa milanese, in via Sant’Antonio (scelta per essere più vicino al suo ospedale). Il poeta dialettale Carlo Porta, suo contemporaneo, gli dedica un commosso sonetto. Il Policlinico di Milano nel 1929 intitola a questo straordinario medico il padiglione di chirurgia.
Le caratteristiche del chirurgo Monteggia che maggiormente colpiscono colleghi e alunni suoi contemporanei sono la sua indefessa attività e la sua disponibilità e generosità; oltre all’insegnamento, che già gli ruba tante ore, passa molto tempo a curare e ad assistere i malati, non solo in ospedale, ma anche nelle case private. Accorre sempre quando è chiamato; soprattutto quando i malati sono poveri; con discrezione provvede a fornire loro le medicine adeguate; in molti casi provvede anche al vitto. Un’altra caratteristica contraddistingue Monteggia: la sua meticolosità nello studio delle malattie; ogni caso che gli si presenta è per lui un banco di prova che gli serve per rafforzare la sua esperienza. Passa molto tempo anche nello studio del corpo umano, sezionando i cadaveri e studiando in particolare la muscolatura, le articolazioni, i visceri per carpire i segreti delle malattie e le possibili cure. Ed è in queste delicate operazioni autoptiche che Monteggia si è più volte ferito, rischiando infezioni; le cronache dicono che a causa di un’infezione ha rischiato di doversi far amputare il braccio sinistro; un’altra volta è rimasto infettato da miasma petecchiale, infezione per la quale ha rischiato addirittura la morte.
Ma oltre che per la totale dedizione alla professione medica, Monteggia ha lasciato un profondo ricordo nei Milanesi per l’esemplarità della sua vita, come uomo, come padre di famiglia. Le cronache del tempo lo descrivono come persona dai modi gentili, frugale nell’alimentazione, modesta nel vestire, spartana, incurante delle comodità delle quali avrebbe potuto godere; profondamente religioso; spirito libero; in nome della sua libertà personale rifugge dagli onori; Al favore dei grandi preferisce la propria libertà
. In lui è sempre vivo il culto religioso e il pensiero di Dio nel quale ripone le proprie speranze
, hanno scritto di lui.
Luigi Cagnola
Milano, giugno 1764 - Inverigo (Como), agosto1833
Luigi Cagnola, da una stampa dell'epoca
Il volto urbanistico di Milano deve molto a Luigi Cagnola, e giustamente il Comune ha voluto che le sue spoglie riposassero nel Famedio. Architetto di vasta cultura classica, elaborava nella sua mente grandiosi progetti che poi metteva su carta, anche se sapeva che non sarebbero stati realizzati perché utopistici, costosi, in dissonanza con il contesto urbanistico, o troppo moderni (o troppo antichi, secondo il punto di vista). E così, appunto, poche le sue opere che restano in Milano e in altre città lombarde. Ma quelle poche ci bastano per darci una misura del suo genio.
L'Arco della Pace, a Milano, una delle opere più pregevoli che Cagnola ha donato a Milano
Luigi Cagnola: una vita intensissima, animata da un’unica passione: progettare costruzioni nuove: palazzi, chiese, archi di trionfo, ... Centinaia e centinaia di schizzi, bozzetti, rilievi, progetti dettagliatissimi sono usciti dalle sue mani. Ma solo una piccola parte è stata realizzata ed oggi è qui, a Milano, o si trova in altre città lombarde. quale testimonianza del suo genio creativo; il resto giace in qualche archivio.
Cagnola lavorava per ‘hobby’, potremmo dire con terminologia moderna. E poteva permetterselo. Proveniva da una famiglia ricca, con rendite e con un titolo nobiliare (era marchese), e non aveva bisogno di un ‘salario’, di un compenso per i suoi progetti. Inseguiva gli ideali di architettura che aveva assimilato e perfezionato nel corso delle sue lunghe permanenze a Roma per studiare il classicismo romano e greco, nel Veneto (Verona, Venezia, Vicenza ...) per capire i canoni architettonici del Palladio. E metteva su carta queste sue idee, anche se era consapevole che nessuno (neanche il Comune di Milano o la Reggia Imperiale d’Austria) le avrebbe realizzate perché utopistiche, costose, in dissonanza con il contesto, o troppo moderne. E così, appunto, poche le sue opere che restano in Lombardia; ma quelle poche ci bastano per darci una misura del suo genio.
Giovanissimo, aveva presentato all’Amministrazione cittadina (allora Milano era sotto il dominio austriaco) una proposta per la progettazione della nuova Porta Orientale. Piacque molto, ma venne scartata perché la sua realizzazione sarebbe costata troppo alle casse municipali. Stessa sorte toccò a tanti altri suoi progetti.
Luigi Cagnola era nato a Milano nel 1764 (secondo alcune fonti: nel 1762) da famiglia appartenente alla più antica nobiltà milanese. I suoi genitori, il marchese Gaetano ed Emilia Serponti, volevano che si avviasse verso una carriera diplomatica: lo mandarono a Roma per i primi studi letterari, poi a Pavia ove si laureò in diritto civile (siamo nel 1781; aveva solo 19 anni). Dopo la laurea fu ammesso nell’Amministrazione pubblica austriaca; constatata la sua abilità nel disegno tecnico, fu assegnato all’ufficio che si occupava dei confini di Stato. Ma i suoi interessi erano ben altri.
In questi anni giovanili c’è solo un interesse che lo distrae dall’architettura: la passione per la grande novità dell’epoca: i palloni aerostatici; aveva 19 anni quando l’Europa si esaltò alla notizia che i fratelli Montgolfier erano riusciti a far sollevare da terra un grande pallone riempiendolo di aria calda. Il resto: solo architettura. A 22 anni elabora il progetto di una grandiosa università. Negli anni successivi mette su carta vari progetti di edifici sacri (chiese a una navata, a tre navate, a pianta circolare) e di edifici ‘profani’ (casini di caccia, un rivoluzionario padiglione per giardino a pianta triangolare). Propone all’Amministrazione austriaca progetti per nuovi caselli per la Porta Orientale, e alla Veneranda Fabbrica un progetto per la facciata del Duomo. Progetti rimasti sepolti negli archivi. Maggior fortuna come architetto l’ebbe con l’arrivo dei Francesi di Napoleone che presero il posto (per pochi anni …) degli Austriaci. Rapidamente divenne uno degli architetti ufficiali, mentre venivano messe in ombra figure molto influenti sotto il precedente regime (come il Piermarini, il Pollack). Nel 1801 finalmente (ha ormai quasi quarant’anni...) un suo progetto è accettato a Milano, preferito ad altre