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999 vite Uniti da un filo di seta
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999 vite Uniti da un filo di seta
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999 vite Uniti da un filo di seta

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About this ebook

“L’incubo era iniziato circa un anno prima, quando Giovanni era partito per lavorare nei boschi…”. L’anima di Lucia si perde tra i fiocchi di neve in quel dannato lontano 29 marzo 1900. Di generazione in generazione, si districheranno segreti e nodi familiari in un susseguirsi di tribolazioni. Edith, uno dei personaggi principali, scoprirà di portare pesi che non le appartengono e che le impediscono di vivere liberamente la propria esistenza, sentendosi costantemente minacciata. Nell’ossessiva ricerca di sé alternerà il lettino dell’analista a terapie di ogni genere, come l’esperienza sciamanica in Messico e l’incontro con un guru in India.
LanguageItaliano
Release dateNov 22, 2016
ISBN9788822868015
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    999 vite Uniti da un filo di seta - Nadia Busato Mogentale

    Nadia Busato

    999 vite

    UUID: 8a75de0e-7875-11e7-bd94-49fbd00dc2aa

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write

    http://write.streetlib.com

    999 vite

    Uniti da un filo di seta

    "Il giudizio spesso distorce

    la verità ultima.

    Ciò che è rimane perfetto

    nell’intento dell’universo,

    perché il bene e il male si compenetrano sempre".

    Nota

    Intorno a noi tutto conferma che stiamo vivendo in un’epoca storica complessa: ogni giorno nascono nuove filosofie, nuovi percorsi spirituali, nuove teorie che invogliano a intraprendere percorsi evolutivi di cambiamento e crescita interiore. L’energia, ossia la forza che muove ogni cosa, si sta espandendo velocemente insieme alle coscienze, opponendosi sempre più all’isolamento sociale presente.

    Il taoismo afferma l’esistenza di due forze contrarie ma complementari, yin e yang, presenti in ogni cosa, le due facce della stessa medaglia. Viviamo tutti ammassati nelle città, dove urtiamo gli uni contro gli altri: nel lavoro, per le strade, nei negozi, quasi a toglierci l’aria, senza nemmeno guardarci in faccia. Questa vicinanza non è però sinonimo di condivisione, di aiuto, di conforto, ma piuttosto di prevaricazione, di oppressione: come in un branco di lupi, dove detta legge il più forte. Vicini ma alienati, condannati alla solitudine, a volte non conosciamo nemmeno il nome del nostro dirimpettaio, o se la signora del terzo piano ha partorito un maschio o una femmina, o se l’anziano che non incontriamo da mesi è morto o è stato trasferito in casa di riposo.

    In quest’affollato deserto privo di comunicazione, dove per assurdo con la tecnologia possiamo parlare con l’altro capo del mondo, vederci in tempo reale a migliaia di chilometri di distanza, non riusciamo più a trasmettere le nostre emozioni, sedotti da una realtà virtuale, bidimensionale, dove non esiste più la tridimensionalità corporea e sensoriale.

    Il nostro individualismo spesso non ci permette di dare e ricevere un vero abbraccio, di scambiarci una calorosa stretta di mano o una pacca sulla spalla; non siamo più in grado di dare sostegno a chi è in difficoltà e non riesce a chiedere aiuto.

    Fiducia e solidarietà risuonano spesso nella società moderna, in realtà sono solo parole.

    Al contempo vi è il forte desiderio di ritornare ai sentimenti veri, alle cose essenziali, liberandoci dai bisogni fittizi; forse più che un desiderio è un estremo bisogno. Ci sentiamo separati dal resto del mondo, pensiamo di essere abbandonati a noi stessi. Avvertiamo l’esigenza di sorridere alle persone che incontriamo e di ricevere il medesimo dono in cambio. Sentiamo la necessità di condividere un pianto perché il nostro vaso è ormai pieno e il cuore spento e provato, ma abbiamo paura di aprirci al prossimo, tanto che ci siamo dimenticati come si fa.

    Se ci soffermassimo a osservare ciò che accade ogni giorno, ci accorgeremmo che gli eventi sono tutti connessi tra loro e che niente succede per caso.

    Questo libro, finito nelle vostre mani, in realtà vi ha scelto; forse voleva ricordarvi qualcosa che già conoscevate e che distrattamente, nella fretta, avevate dimenticato. Se qualche nota risuonerà dentro di voi, vorrà dire che ci saremo connessi.

    Mi piacerebbe riuscire ad avvicinare il più possibile realtà e fantasia, affinché le due parti si fondano.

    Tutti noi, almeno una volta nella vita, abbiamo avuto sentore di aver già vissuto in precedenza ciò che ci stava accadendo. Talvolta riviviamo situazioni uguali o simili, persino nello stesso giorno dell’anno. Se dovessimo rovistare nella storia della nostra famiglia, potremmo trovare l’alternanza di eventi negativi e positivi: tragedie, traumi, incidenti avvicendati con nascite, vincite, matrimoni, avvenimenti che si sono ripetuti di generazione in generazione, come se dovessimo portare sulle spalle un destino altrui.

    Alcune discipline studiano questi fenomeni: la psico-genealogia è tra queste.

    Jung parla d’inconscio collettivo. La psico-genealogia indica l’esistenza di una memoria familiare inconscia: il trauma vissuto da un nostro antenato si deposita nell’inconscio familiare.

    Impegni e doveri non conclusi o risolti in malo modo, rimangono nella memoria per essere poi tramandati ai discendenti, ripetuti fino a una risoluzione positiva e consapevole.

    La fisica quantistica spiega in modo scientifico le differenti frequenze che distinguono universi paralleli. Anch’essa si interessa a questi fenomeni e sta sviluppando teorie in proposito, anche se non esistono ancora prove completamente esaustive. Ciclicamente si ripetono eventi traumatici, causando dolore e paura; tutto ciò sembra significare che, in parte, il nostro destino sia già stato scritto e che noi siamo pedine di un gioco incomprensibile.

    Bert Hellinger, negli anni ottanta, elaborò una tecnica chiamata costellazioni familiari tramite la quale si entra in contatto con emozioni ataviche facendo riemergere antiche dinamiche, permettendo di sciogliere nodi e resistenze croniche e di avviare un’opera di riconciliazione con gli altri e con noi stessi, riportando armonia nelle relazioni per riappropriarci del nostro libero arbitrio.

    Chi mai sono?

    Ah, questo è il dilemma!

    Lewis Carroll

    Provo di nuovo ad aprire gli occhi... Non riesco a muovere le palpebre, come se un peso le tenesse chiuse. Ci sono, sì... Sono sveglia, però non riesco a muovermi. Ecco, sento di nuovo quelle voci... adesso più vicine... un attimo e di nuovo lontane, confuse... gente che parla, voci sovrapposte, non capisco cosa dicono... Forse parlano un’altra lingua. Voglio muovere le braccia e le gambe. Non si muovono... Adesso provo a gridare... non ce la faccio, la voce non esce. Mio dio! Sono paralizzata. Che freddo! Ho tanto freddo... Non ricordo nulla... devo capire... devo stare calma, calma. Voglio aprire gli occhi... non riesco... Mi fanno male i polsi. Non può essere! Sono legata... Sì, anche le gambe lo sono, almeno mi sembra... non riesco a muoverle. No!... Sarò impazzita?... Che mi abbiano rinchiusa senza che me ne sia resa conto? No, no, non può essere... Ho freddo... è un freddo gelido, lima le ossa... sto male, mi manca il respiro, sto sprofondando...

    1

    Polvere sei,

    in polvere tornerai,

    non fu detto dell’anima.

    Henry Wadsworth Longfellow

    Quel mattino Lucia si svegliò prima dell’alba.

    Doveva preparare tutto: accendere la stufa che avrebbe scaldato la cucina e l’acqua con la quale avrebbe lavato Maddalena e Raffaele; poi le mucche la aspettavano nella stalla con le mammelle gonfie. Adorava mungerle. Ogni mattina compiva quei primi gesti come un culto, inaugurando il nuovo giorno. Assonnata si appoggiava a loro, il loro tepore era una consolazione, annusava il profumo del latte appena munto. Stella era la sua preferita, l’aveva vista nascere; i suoi occhi brillavano come due astri nell’oscurità, mostravano qualcosa di umano. Lucia le parlava di sé, le raccontava i segreti della sua anima, diluiva il buon latte con le lacrime, si abbandonava e la mucca, quasi a condividere le sue pene, le batteva piano la coda sulla schiena.

    La primavera tardava, era la fine di marzo e faceva ancora molto freddo.

    Maddalena aveva cinque anni. Silenziosa e introversa, parlava a fatica, ma i suoi occhi scuri esprimevano tutta la sensibilità e il disagio che portava dentro.

    Il più piccolo era nato da poco, al termine dell’ottavo mese. L’avevano chiamato Raffaele, come l’arcangelo della divina guarigione. Un tenero fagottino di ossicini rivestiti di pelle grinzosa. Stentava a crescere, si diceva fosse al mondo per miracolo, una creaturina per non far dimenticare. Il medico aveva detto che difficilmente sarebbe sopravvissuto, si doveva battezzare il prima possibile, così sarebbe stato pronto a unirsi agli angeli con l’anima pulita. E così avevano deciso di fare Lucia e Giovanni. Lo avrebbero battezzato quel mattino, verso le undici, nella chiesetta giù in paese.

    La stufa si era spenta molte ore prima, il respiro caldo inumidiva l’aria fredda della stanza; ma lei il freddo non lo sentiva, ormai da qualche tempo non sentiva più niente.

    Teneva il viso rivolto verso la finestra che dava sul cortile, il sole apriva gli occhi al giorno sollevandosi pigro da dietro la montagna e il chiarore del suo sguardo animava pian piano la stanza infilandosi tra le bianche tende di cotone, al centro delle quali Lucia aveva ricamato due amorini che suonavano la lira. Li aveva scelti perché il loro viso estasiato le dava una sensazione di pace. Per lei quelle tende erano preziose perché le aveva confezionate con la madre e adesso stava insegnando a Maddalena a ricamare quel soggetto.

    Un piccolo topo avanzava cauto lungo la parete davanti ai suoi occhi. Di solito quelle bestiole non passavano inosservate; Lucia si prodigava affinché non albergassero in casa sua. Non le temeva e nemmeno le facevano ribrezzo, si lamentava solo che rosicchiassero tutto senza rispetto, per questo andavano allontanate. Il suo sguardo oltrepassò la trama del ricamo, si perse oltre i fili di cotone, oltre i vetri, oltre il cortile, oltre i tetti, oltre i monti, oltre.

    Era una massiccia dimora, costruita dal nonno con le pietre della Carnia. D’estate i muri spessi la mantenevano fresca, ma era umida e malinconica, priva di pregio, di ornamenti, come sono le vecchie case di montagna. Lei la amava, vi era nata e ogni mobile tarlato e scolorito, ogni secchio di rame, ogni cesto in vimini, ogni ciotola e mestolo di legno, ogni lenzuolo di canapa, fatto con due piccoli teli cuciti insieme, ogni canovaccio assottigliato e ammorbidito dal tempo la riportava ai suoi cari. I muri, quei sassi, parlavano del loro sudore, di sacrifici, di soddisfazioni. Le travi, quei legni resinosi, bisbigliavano i segreti delle loro radici, della montagna, del bosco. Lì, tra le braccia di chi ormai non c’era più, si era sempre sentita bene.

    Con le gambe scoperte penzoloni dal letto, abbassò il capo e sfuocò le mani appoggiate sulle ginocchia. Era dimagrita molto, troppo. Della bella donna che era stata, non rimaneva più niente.

    Tradita e depredata ingiustamente dalla vita, da qualche tempo non faceva che vomitare, il suo corpo rigettava le angherie subite.

    Aveva imparato i dieci comandamenti a memoria, ma a lei non servivano.

    Il bene è il bene e il male è il male, anche un mammalucco li distingue. Le crudeltà verso i più deboli e le falsità sono il pane quotidiano del diavolo, così diceva, questa era la sua bibbia.

    Non riusciva a credere esistessero persone tanto malvagie e bugiarde, continuava a chiedersi come fosse potuto accadere a lei. Lei non sapeva mentire, lei reputava la menzogna il maggiore dei mali, lei avrebbe detto sempre e solo la verità, anche a costo di ferire, di deludere, di soffrire.

    Giovanni, il marito, si era innamorato di questo suo carattere genuino.

    Ora non si fidava più. Non le aveva neanche dato modo di spiegarsi, aveva creduto solo alle parole scritte in quella lettera velenosa.

    L’incubo era iniziato circa un anno prima, quando Giovanni era partito per lavorare nei boschi. Lo faceva ogni estate e quella era stata particolarmente torrida, alla fine di giugno già non si respirava.

    Un pomeriggio, quando l’afa toglieva le forze, Lucia aveva pensato di portare la piccola Maddalena giù al torrente. Non poteva immaginare le conseguenze di quella gita, quanto le sarebbe costato in futuro quel po’ di refrigerio.

    Aveva indossato il vestito di seta nero ravvivato di papaveri rossi: le donava, segnava le curve del corpo, faceva risaltare le forme e l’incarnato, se lo era cucito addosso. Aveva paura di sciuparlo, ma sentirlo scivolare sulla pelle, era come stare con il suo Giovanni. Giù al mercato non se n’era mai vista di stoffa così fine e pregiata, e nemmeno se ne era sentito parlare. Era l’unico pezzo, giusto per la sua minuta corporatura. Lei lo aveva sfiorato, aveva chiuso gli occhi, per poi accarezzarlo di nuovo.

    Pura seta, signora, aveva detto il commerciante.

    Giovanni, poi, era rimasto a guardare la stoffa scivolarle tra le mani, la grazia con la quale la toccava. Era costata una fortuna, ma Lucia era speciale e i papaveri erano il suo fiore preferito.

    Aveva raccolto i lunghi capelli neri in una crocchia, preso Maddalena in braccio e canticchiando, perché lei cantava sempre, si era incamminata scalza giù per la valle. Luce, come amava chiamarla Giovanni, adorava andare a piedi nudi. La terra respira, parla e ascolta, è come una grande mamma, conserva nella pancia ogni segreto, diceva.

    Quel giorno Lucia, arrivata al bivio, dove entrambe le strade portavano giù al torrente, non aveva esitato a prendere quella più corta, aveva troppa fretta d’infilare i piedi nell’acqua.

    Magari, se si fosse fermata, la terra le avrebbe parlato, come diceva lei, magari le avrebbe consigliato di prendere l’altra strada. Lucia però non si era fermata, non aveva ascoltato.

    Quante volte poi si disse: Se avessi preso l’altra, se non fossi andata al torrente quel giorno, se Giovanni fosse stato con me.... Troppi se...

    Glielo aveva insegnato la nonna: "Con i se non si va in nessun posto e ciò che è stato non esiste più. Non si può tornare indietro, mai. Per questo motivo ogni scelta va ponderata bene. E poi, comunque, si sa che il destino è il destino e ognuno di noi ha il suo". Era un sermone recitato a memoria.

    E Lucia non aveva mai capito se era questione di scelte o se tutto fosse già predestinato.

    Seduta sul letto, con le mani ancora ferme sulle ginocchia, si chiedeva che cosa avesse fatto di male, dove avesse sbagliato per meritare una simile infamia, quali motivazioni potevano spingere un cristiano a tanto.

    No, non le riusciva proprio di muoversi, qualcosa di terribile stava per accadere.

    Con la mente tornò a quel giorno.

    E via, di corsa giù per il sentiero, verso la casa dei Marmai. Per arrivare dove abitavano i due vecchi, si doveva entrare in un fitto bosco, talmente fitto che il chiarore veniva meno. Raggi di sole intermittenti, sfilavano tra i rami degli alberi; luci e ombre danzanti rendevano il luogo magico. Lì il terreno era più morbido, umido; il profumo di resina, erbe e muschio si sentiva ancora prima di entrarvi.

    Erano due poveri cristi, ormai anziani vivevano della benevolenza altrui. Le anime buone del paese li andavano a trovare con ceste colme di cibo e qualche volta, durante la visita, si fermavano a rattoppare qualche pezzo della loro casa. Il vecchio l’aveva costruita da solo e ora riusciva a fatica a salire e scendere i due gradini di pietra davanti alla porta.

    Lucia aveva rallentato il passo e ascoltato; non avvertendo la familiare mano benevola sui capelli, aveva chiuso gli occhi qualche secondo, cercava di capire. Lei conosceva bene il bosco, ne subiva il fascino e non aveva paura del lupo, ma un pericoloso animale era in agguato. Il male indossava vesti difficili da smascherare, irriconoscibili persino a un occhio guardingo.

    Maddalena si dimenava, chiedeva con il suo modo senza parole di scendere, voleva camminare, muoversi, ma Lucia l’aveva stretta più forte a sé e aveva iniziato a raccontare storie di folletti.

    Ecco, Furbino birbante! Si è nascosto tra i cespugli, guarda com’è cresciuto, adesso è grande come una mela. Stai attenta che ne vediamo un altro, magari Ciccino birichino. Ogni due per tre, dalle sue labbra ne usciva uno nuovo, nuovi vestitini, nuovi cappellini.

    Aveva sentito delle voci: sul tetto della casa dei giovanotti mettevano a posto i coppi. Due di loro le sembravano più vecchi di lei, mentre il terzo, a petto nudo, doveva avere all’incirca la sua età.

    Una sferzata di piacere colpì Rodolfo. Era la sua occasione, poteva finalmente dimostrare ai compagni le sue doti di conquistatore.

    Ma quali ragazze! Le capre conosci, e forse neanche quelle, stai buono lì e lavora. Quei due si divertivano così. Passavano le giornate a pungolarlo. Lui stava zitto, aveva venticinque anni compiuti e non aveva ancora odorato un fiore.

    Era arrivato il suo momento, un fischio fece volare alti gli uccelli, in un paio di balzi, felino, scese dal tetto.

    Si schiarì la gola: Cosa ci fa una bella mora nel bosco?. Lucia sorrise.

    Attenta che tra gli alberi si nasconde il lupo cattivo....

    Lei, con l’imbarazzo sul viso, abbassò lo sguardo e tirò diritto. Lui la seguì e le si parò davanti bloccandole la strada.

    Lasciala in pace gridò uno dei due dal tetto.

    A gambe larghe stava con le mani in tasca e il mento alzato.

    Lucia fece un passo indietro, si sentiva minacciata, ma ebbe comunque il coraggio di fissarlo dritto negli occhi.

    Oh! Che bel vestito, che bei papaveri... Mi piacerebbe coglierne uno....

    Non aveva mai subito una simile villania. Le tremò il labbro inferiore, ma la voce le uscì forte e chiara: Stupido!.

    A quella parola, rimbombanti risa riempirono il bosco.

    Rodolfo serrò la mascella spostandosi di lato: Questa la paghi, bella. Poi le si avvicinò di nuovo tendendo il braccio, le dita le sfiorarono il mento con fare minaccioso.

    Lei non ebbe il coraggio di ribattere, teneva Maddalena in braccio, e proseguì per la sua strada.

    Tutto qui. Era andata così, non era successo altro.

    Aveva ripreso a scendere lungo il sentiero. Avrebbe schiaffeggiato volentieri quell’insolente, non aveva potuto fermarsi a salutare i due vecchietti, sentire come stavano, se avevano bisogno di qualcosa.

    Quella notte Lucia si era addormentata subito. Era rimasta a lungo al torrente, l’acqua fredda l’aveva fiaccata.

    Aveva sognato di fare l’amore con Giovanni, improvvisamente, con il cuore che batteva forte, si era svegliata. Era tutto nuovo. Il calore si espandeva in mezzo alle gambe, era bagnata, un liquido vischioso aveva inumidito le cosce e persino il letto.

    L’unico piacere fisico che si era permessa di provare, fino a quel momento, era stato quello di avere Maddalena attaccata al seno. Un piacere forte, intenso, a volte doloroso fino a farle scendere le lacrime.

    Era appena tornata dai campi, dove aveva girato il fieno con nonna Pina e nonno Gigi. Davanti allo specchio in camera aveva sfilato l’abito inzuppato di sudore e aveva notato un rigonfiamento nella parte destra del petto. Aveva solo nove anni, portava ancora i calzettoni alle ginocchia e le uniche mammelle che conosceva erano quelle delle mucche e delle capre. Lo stava tastando, quando all’improvviso la nonna aveva spalancato la porta: Mah! Mi tocca vederne altre! Che cosa stai combinando? Che ci fai nuda?... e perché ti stai toccando? Rivestiti immediatamente... Non te l’ha insegnato tua madre che il corpo va toccato solo per essere lavato?.

    Lucia era impallidita, aveva lasciato andare le braccia lungo il corpo e chiudendo le manine, pian piano le aveva portate dietro la schiena.

    Nonna Pina sbraitava con voce sempre più aspra: Non vorrai diventare una sporcacciona, eh? Sai dove finiscono quelle? All’inferno finiscono. Sì, all’inferno! Ora via, vestiti in fretta... fila a lavarti le mani. E aveva aggiunto categorica: Sabato vai a confessarti. Gli occhi accusatori schiaffati sulla sua pelle nuda avevano avuto l’ultima parola.

    Le guance si erano infiammate, tremava, le era salita la febbre ed era rimasta a letto per due giorni. Non alzava più gli occhi alla presenza della nonna, non aveva capito il senso di quelle parole. E nemmeno la curiosità del prete, che aveva insistito a lungo nel chiederle dove si era accarezzata, se le era piaciuto, se lo aveva fatto spesso.

    Non lo aveva più fatto, da allora toccava il corpo solo per lavarlo, proprio come le aveva detto la nonna.

    Rannicchiata su se stessa, aveva abbracciato il cuscino, ascoltato il corpo, affondato il viso sotto le lenzuola, c’era un buon odore. Era piacevolmente turbata. Aveva sentito di nuovo il calore avvolgerle il basso ventre, si era lasciata prendere da quel desiderio di piacere.

    Le proteste di Falco le parevano lontane. Il cane del vicino abbaiava alle furberie di un gatto, correva qua e là, costretto da una catena agganciata al filo di ferro che attraversava il piccolo cortile.

    Lucia aveva sempre provato compassione per Falco, ma negli ultimi tempi la infastidiva, lo ignorava di proposito. Non faceva altro che abbaiare e dimenarsi in quei pochi metri. Quella era da anni la sua prigione.

    Una mattina, stanca di sentirlo abbaiare, mentre il padrone era nei campi a falciare l’erba, aveva deciso di regalargli la libertà.

    Era stata una decisione improvvisa. Stava rassettando il letto e senza riflettere aveva seguito l’impulso. Scendendo le scale veloce, era uscita in cortile, aveva trovato il cane sconsolato, i soliti occhi tristi. Lucia aveva sganciato il collare, lui era rimasto là, senza muoversi.

    Non credeva ai suoi occhi: Dai Falco, vai, alzati su, via, lo aveva spinto dapprima dolcemente, senza ricevere risposta. Poi lo aveva cacciato decisa. La bestiola aveva piantato il sedere per terra, con le orecchie basse strisciava, ma non si muoveva. C’era stato un attimo di silenzio in cui i due si erano studiati, occhi negli occhi, un sortilegio li aveva pietrificati. Il cane aveva rotto l’incantesimo con un guaito. Quell’urlo supplichevole le era arrivato al cuore, la pregava di lasciarlo in pace, al sicuro, attaccato alla sua catena. Lei voleva vederlo correre lontano, scodinzolare libero per i campi, rincorrere nuvole e farfalle. Invece non aveva mai lasciato il cortile. Con il tempo alcune anime si rassegnano anche alla più infelice delle situazioni. Aveva avuto l’occasione di fuggire, per paura se l’era lasciata scappare. Avvilita, aveva riagganciato il collare ed era rientrata in casa.

    Intravvedeva in Falco lo specchio nel quale scivolava la sua stessa natura e forse, più di lui, aveva paura della libertà.

    Rodolfo quella notte non riusciva a dormire, si girava e rigirava nel letto, inzuppando le lenzuola di sudore. Non trovava pace. Più passavano le ore, più la rabbia montava, non digeriva il modo in cui quella presuntuosa lo aveva sbeffeggiato davanti ai suoi amici.

    Il giovane si gonfiava di boria con facilità e, dopo il fallito tentativo di conquistare Lucia, quei due lo avevano deriso anche più del solito. Al buio, tutto gli sembrava insopportabile e ingigantiva l’accaduto: doveva trovare un modo per fargliela pagare.

    Alle quattro del mattino, si era alzato dal letto e, con un covo di serpenti in testa, era andato in cucina, prestando molta attenzione a non fare rumore; non voleva certo svegliare gli zii e la cuginetta che dormiva con loro. Sentiva russare lo zio ed era sceso per le scale a piedi nudi, quasi senza respirare. Arrivato di sotto, aveva chiuso la porta dietro di sé per non svelare la sua presenza. Gli sembrava che le assi di legno del pavimento avessero scricchiolato come un albero che cade; tutto nella testa di Rodolfo si amplificava, anche il battito del cuore.

    Aveva rovistato nel cassetto del tavolo, alla ricerca di una candela e dei fiammiferi. Mentre la accendeva aveva inspirato avido l’odore di zolfo, dilatando le narici; poi aveva fatto colare della cera nel piattino sul tavolo per spiaccicarci sopra la candela. Non ricordava dove la zia tenesse le cose per scrivere, ma gli sembrava che fossero in una vecchia scatola di legno sopra la credenza. L’aveva presa, la teneva in mano come fosse la cosa più preziosa del mondo. C’era tutto: carta, pennino e calamaio. Spostando piano la sedia, in silenzio, si era seduto e, a pupille dilatate, aveva iniziato a scrivere.

    Lui, che a scuola aveva dovuto dimostrare di essere il migliore, aveva imparato a scrivere bene, con padronanza. Ed ora, fiero com’era, intingeva il pennino nell’inchiostro facendo attenzione a non immergerlo troppo. Poi, con sicurezza aveva iniziato a scrivere. Il pennino scricchiolava e scricchiolava di nuovo, Rodolfo adorava quell’inconfondibile rumore.

    Inviperito, ripensava a quei due e alle loro risa. Si credevano superiori, in realtà erano due ignoranti, incapaci di leggere e scrivere.

    La fiamma della candela era nei suoi occhi incandescenti. Sembravano fuochi attizzati da un mantice. La rabbia saliva, montava, invadendolo lentamente, fin quasi a fargli schiumare la bocca. L’odio andava a braccetto con il suo dolore, si alimentavano a vicenda. Era ancora giovane per odiare a quel modo, eppure un motivo l’aveva per essere così iracondo. Anzi, di motivi ne aveva più di uno.

    Una notte, una delle solite notti, per evitare le frustate del padre, era scappato di casa, si era rifugiato nel fienile della zia. Quella sera non era riuscito a rimanere, anche se sapeva che non se lo sarebbe più perdonato. Il padre aveva scaricato

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