Maschere
By Ida Conte
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Maschere - Ida Conte
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Telefonate inaspettate
«Amore, ascolta, la settimana prossima si sposa mia cugina Daiana, hai presente quella bella ragazza un po’ claudicante?»
«Chi? La settimana prossima! Non potevi dirmelo prima?»
Mentre lui continuava a parlare del matrimonio, del suo lavoro, di cause civili pendenti ormai finite nelle stanterie più polverose, neanche più lo ascoltavo, ma pensavo solo: Oddio, cosa potrò mai indossare a questo matrimonio, visto che l’ultimo al quale ho partecipato risale almeno a dieci anni fa?
Le nostre telefonate erano sempre brevi e ripetitive, per cui dopo un paio di minuti, attaccammo e io mi diressi immediatamente in cucina da mia madre, la quale era intenta a spalmarsi un quantitativo enorme di marmellata all’albicocca sulle fette biscottate.
«Mamma, è successa una cosa assurda!»
«Che c’è? Ti sei fatta male?»
«No, molto peggio! Tra una settimana dovrei andare al matrimonio di una cugina di Ettore, una certa Delia, o forse Daiana.»
«E quindi?»
«Eh... non ho nulla da indossare!»
Occhi verdi che alla luce non hanno nulla da invidiare a due splendidi smeraldi luccicanti, un po’ in sovrappeso, qualche rughetta pronta a ricordare il tempo passato e l’espressione sempre un po’ imbronciata o forse un sorriso offeso così tante volte dall’ex marito, che poi era chiaramente mio padre, dal figlio, che se non ci fosse il legame di sangue davvero farei fatica a riconoscerlo come tale, che neanche in quei piccoli e rari istanti di gioia, sapeva esprimersi nella sua totale pienezza. E poi, a casa indossava sempre abiti scadenti e dozzinali (anche se poi quando usciva era di una bellezza da restare attoniti) che le aggiungevano, soprattutto ai miei occhi, una mortificazione ancora più tagliente.
«Cecì, perché non vai da Grazia? Sai quanti vestiti avrà! E poi avete la stessa taglia... mi ricordo che anni fa, lei e la madre, spesero circa dieci milioni delle vecchie lire, in abiti griffati, dai tessuti particolarmente pregiati.»
«Ma va! Abbiamo avuto quello screzio tanti anni fa, come faccio a presentarmi a casa loro?»
«Semplice! Spalle dritte e viso che più bronzeo non si può!»
La casa di Grazia era una sorta di zoo senza gabbie e soprattutto senza alcuna regola di coabitazione civile tra uomini e animali. Lì nel salone, tutto arredato in stile country, adagiato su di un trespolo, vi era uno splendido esemplare di ara amazzone... bastava distogliere un attimo lo sguardo dal pappagallo, che Totò e Peppino (due dolcissimi e festanti Yorkshire) saltellavano a destra e a manca, emanando un odore nauseabondo. E poi gatti... quanti gatti! Splendidi persiani con pedigrees, screziati di ogni colore.
«E questa chi è?» esclamai.
«Ah sì, questa è una new entry, si chiama Ulisse ed è una bellissima papera all’incirca di un anno.»
Mamma aveva perfettamente ragione, l’armadio era strapieno di abiti, alcuni anni ’80, altri improponibili anche per una serata di cabaret, altri davvero elegantissimi.
«Quello nero è carino, anzi è davvero bello e poi ha quella rosa sul lato che lo rende in un attimo sofisticato e intrigante» dissi con voce persuasiva.
Grazia e la mamma acconsentirono a quelle mie parole, accennando un sorriso.
«Va bene, ho deciso, prendo il nero!»
In un attimo la mente si era come appagata... improvvisamente, era come se quel trambusto provocato dalla telefonata di Ettore, per magia, si fosse trasformato in quiete. Ma ecco all’orizzonte il rimbalzare di un altro problema: le scarpe.
L’indomani decisi di andare a Napoli centro per acquistarle. Era la fine di agosto e molti negozi propinavano vestiti di svariati colori, ultima merce, che non solo infastidivano lo sguardo, ma che rendevano la città ancora più caotica, o forse il tutto era solo il risultato della confusione imperante nella mia testa.
Nel 2010 avevo pochissimi soldi in tasca, mio padre ci dava il mantenimento, essendo i miei separati (una cifra piuttosto esigua), senza mai darmi un centesimo extra e io a volte non potevo permettermi neppure l’acquisto di una bottiglina d’acqua. Erano questi i momenti durante i quali imponevo al mio corpo di resistere alla sete, di far finta di aver bevuto che tanto poi, una volta a casa, il tutto sarebbe stato soddisfatto con un freschissimo sorso.
Il budget era davvero miserrimo, così decisi di vendere la fedina del mio ex, un certo Luca. Lui è sicuramente l’uomo che ho amato di più... avevo una passione smisurata nei suoi confronti, un’alchimia infinita di passione, amore, lacrime, gioie che hanno generato dentro di me, adesso che siamo lontani, un vuoto devastante incolmabile.
Ancora ripenso ai suoi occhi, un colore che, nonostante riveda sempre le sue foto, non riesco mai a ricordare pienamente. Una profondità senza fine, una dolcezza che mi dava fremiti e tremori. Ah amore mio, cosa darei per abbracciarti ancora una volta e viver poi di quell’attimo chissà per quanto tempo ancora. Perché questo eri tu... un attimo infinito d’amore.
Quella fedina doveva essere venduta e mi bastò fermarmi dal primo Compro oro, di cui la città pullula, per racimolare ben quaranta euro.
Al trillo improvviso del mio cellulare esclamai: «Oddio, squilla il telefono... sarà sempre il solito Ettore, che con la sua gelosia, riesce pian piano a consumare la bellezza di ricevere telefonate inaspettate e non come le sue, che sono già decise a tavolino con gli stessi impeccabili orari ogni giorno, dimenticandosi così della bellezza dell’imprevisto.» Ma stavolta, ahimè, non era lui.
«Pronto!»
«Sì, pronto, parlo con la Professoressa Dibase?»
«Sì, sono io, mi dica.»
«È il CSA di Novara, la chiamo per sapere la sua disponibilità per una supplenza fino al trenta di giugno.»
«Fino al trenta di giugno?»
Non ero mai riuscita ad avere un incarico statale. Subito dopo l’abilitazione per l’insegnamento della lingua inglese, avevo mandato almeno una trentina di curricula alle scuole paritarie di Napoli e provincia e solo una scuola di Arco di Somma mi diede un appuntamento.
Ricordo che quella mattina mi svegliai di buon’ora, piena di entusiasmo derivante proprio dal fatto di essere riuscita a strappare almeno un appuntamento. Avevo dentro di me un’energia che si palesava attraverso il mio sguardo nonché quel rossore sulle gote, che da sempre mi contraddistingue. In effetti, mi basta davvero poco per diventare rossa in volto e poi più mi rendo conto che sto arrossendo e più il mio volto si colorisce... insomma è davvero un meccanismo incontrollabile e ingestibile.
La scuola era molto lontana da casa mia e per raggiungerla dovevo prendere ben tre mezzi pubblici, più un po’ di strada a piedi. Totale del percorso? Oltre due ore, salvo imprevisti.
Arrivai a destinazione tutta concitata, ma soddisfatta di aver compiuto quell’impresa epica. Dopo aver firmato il contratto, il preside mi diede appuntamento per il primo giorno di scuola. Mi liquidò con poche parole dette anche in forma dialettale, ma io, con tutta franchezza, non ci feci più di