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Un treno per Nablus: viaggio verso destinazione ignota
Un treno per Nablus: viaggio verso destinazione ignota
Un treno per Nablus: viaggio verso destinazione ignota
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Un treno per Nablus: viaggio verso destinazione ignota

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About this ebook

La storia siamo noi: le storie non vanno inventate, esistono già, basta vederle e prenderle al volo. Vicende personali diventano storia di un’epoca.
La “grande storia” ci passa talvolta accanto, sconvolgente nella sua drammaticità o nei suoi paradossi, e sembra attraversarci come se fosse altro da noi. Non è così: tu puoi scordarti della storia, ma la storia non si scorda di te.
Dal crollo dell’impero sovietico alla guerra del Vietnam, dall’armistizio dell’otto settembre alla frana del fascismo, dal Cile di Pinochet alla strage di Piazza Fontana, dalla cacciata degli Italiani dall’Istria all’invasione turca di Cipro, dal conflitto arabo-israeliano ai moti studenteschi del '68, gli aspetti drammatici della storia si mescolano alle vicende di ciascuno di noi.
Cosicché basta farli emergere dallo sfondo dove li avevamo dimenticati e vedremo che, per miseri o piccoli che siamo, la storia siamo noi.
Non c’è alcun treno che porti a Nablus.
LanguageItaliano
PublisherPOLARIS
Release dateNov 18, 2016
ISBN9788860591913
Un treno per Nablus: viaggio verso destinazione ignota

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    Book preview

    Un treno per Nablus - Oscar Santilli Marcheggiani

    UN TRENO PER NABLUS

    Viaggio verso destinazione ignota

    Di

    Oscar Santilli Marcheggiani

    Foto di copertina

    Il treno Damasco-Medina fermo alla stazione di Ma’an, in prossimità di Petra, attorno al 1915 (Fonte: Library of Congress)

    Prima edizione ebook: 2016

    Copyright ©2016 Polaris

    ISBN 9788860591913

    Casa Editrice Polaris

    www.polariseditore.it

    Tutti i diritti sono riservati. Nessuna parte dell’opera può essere riprodotta, distribuita o trasmessa in alcuna forma o con alcun mezzo, o registrata in database, senza il permesso scritto dell’editore.

    Benché sia stata prestata la massima attenzione nella raccolta delle informazioni contenute nella guida, nessuna responsabilità per eventuali danni o inconvenienti occorsi a cagione del suo utilizzo potrà essere imputata all’autore, all’editore o a chi, sotto qualsiasi forma, la distribuisce.

    Sommario

    Nota dell’autore

    Prefazione

    Quell’estate del ‘98 ovvero com’è che non divenni un uomo d’affari russo

    L’ospite invisibile

    Ritorno a Smoky Mountains

    40 anni dallo sbarco sulla Luna

    Lucy’s baby

    Grossi guai a Costantinopoli

    Colui che mantenne il bene

    Nichilismo tra Apollo e Dioniso, la salvezza è nella sensibilità

    Il cacciatore

    L’importanza della lingua

    Udo il grande

    Oltre le cataratte del Nilo

    La beffa che salvò mio padre dalla Russia

    L’incredibile storia di John DeLorean

    Pinochet: Pol Pot o Cincinnato?

    Mexican Hat

    Sivota Bay

    Mani di fata

    1944: ritorno a casa

    La Cina e il pensiero forte

    T-62 dall’URSS con amore

    Lotteria a San Pietro in Vincoli

    Ivo Jima mon amour

    Il popolo, le donne, la democrazia e altre mistificazioni

    Natura morta

    Post prandium aut stabis aut lento pede deambulabis

    La donna che visse tre volte

    Metti una sera a cena

    Istria 65 anni dopo

    Tressette col morto a Varosha

    Kibbutz Baram

    Un giorno a Nablus

    Appendice: Bentornati in Palestina!

    BIBLIOGRAFIA

    Nota dell’autore

    Mi sono spesso chiesto perché io abbia intitolato questo libro Un treno per Nablus. Effettivamente Nablus, che ho visitata alcuni anni fa e da cui ho preso spunto per uno dei racconti, ha un ruolo importante nel libro. Poiché la tesi è che le storie più sono vere più sono assurde, ebbene Nablus rappresenta – almeno nel mio limitato universo – una sorta di epicentro delle assurdità umane. Ma perché Un treno per Nablus?. Una risposta possibile è: chi si sognerebbe mai di andare in treno a Nablus? O forse l’ispirazione del titolo mi è venuta dal mitico film western Quel treno per Yuma che vidi da ragazzo e mi rimase per sempre impresso nella memoria. Chi lo sa. Naturalmente era indispensabile che nessun treno effettivamente andasse in quella città della Palestina, parendomi per qualche ragione che poterci andare in treno banalizzasse il mio titolo. Ho rovistato a lungo sul web su questo argomento e il risultato è stato che no, assolutamente nessuna linea ferroviaria esiste per Nablus e ciò mi ha molto rassicurato.

    Senonché lo scorso gennaio mi trovavo a Gerusalemme e una sera, dopo aver cenato in un ristorantino mica male con i miei amici Davide e Cecilia, tornando a piedi verso il mio albergo siamo passati davanti alla vecchia stazione ferroviaria costruita dagli Ottomani nel 1892 per collegare Gerusalemme a Jaffa. Naturalmente è stata dismessa, e oggi è un tripudio di bar e ristoranti assai frequentati. Orbene dovete sapere che il mio amico Davide è un pozzo di scienza, ma non un pozzo di scienza qualunque. Non c’è argomento di storia che lui non abbia approfondito al livello di poterci scrivere ad occhi chiusi un trattato. Il fatto è che lui ama studiare più di qualsiasi altra cosa, e continuerebbe anche di notte se potesse evitare di dormire. L’ho nominato mio maestro, e non vorrei che lui abbia accettato solo per magnanimità o condiscendenza considerandomi un allievo con una certa refrattarietà ad approfondire sul serio le cose. Io ci provo, ma stargli dietro è veramente difficile. Insomma, per farla breve, passando davanti alla stazione ferroviaria di Gerusalemme mi venne in mente di sciogliere finalmente il mio dubbio. È dunque mai esistito, chiesi al mio maestro, un treno che portasse a Nablus? Quando Davide si sente rivolgere una domanda del genere, anzi qualsiasi domanda, la sua risposta non può essere troppo diretta né tantomeno superficiale. Ci volle quindi un’adeguata premessa per inquadrare il periodo storico attorno al 1900 in cui l’Impero Ottomano, malato d’Europa e signore del medio oriente, intraprese la costruzione di una linea ferroviaria a scartamento ridotto che andasse da Damasco alla Mecca. Ebbene gli Ottomani, da tutti tacciati di essere corrotti e inefficienti, furono capaci di costruire e far funzionare la bellezza di oltre 1.300 km di ferrovia su un difficile tracciato in soli 7 anni, infrastrutture comprese. È vero che furono finanziati dagli alleati tedeschi che misero l’Ing. Messmer, mago delle ferrovie, a dirigere i lavori. Siccome i soldi a un certo punto finirono, la ferrovia venne accorciata di 400 km e arrivò a Medina anziché alla Mecca, tuttavia fu una notevole impresa. Ma la ferrovia passava da Nablus? chiesi io. Nossignori, rispose Davide, la linea ferroviaria tirava diritto verso sud passando da Amman, ma la Palestina venne collegata con una diramazione che partiva dalla città di Der’a in Siria e si sdoppiava in due ulteriori rami all'altezza della città di Afula, nell’attuale distretto nord di Israele. Un ramo portava a San Giovanni d’Acri passando da Haifa, l’altro a Nablus. Il progetto prevedeva che da Nablus la ferrovia proseguisse verso sud, passando per Beersheba e puntando sul canale di Suez attraverso il Sinai. Fu lo stesso Ing. Messmer a studiare il tracciato e a iniziare i lavori nel 1914. Con lo scoppio della guerra la ferrovia aveva assunto un chiaro scopo strategico: portare l’esercito turco in Egitto e scacciarne gli Inglesi. Ma gli Inglesi finalmente si svegliarono nel 1917, cosa di cui Lawrence d’Arabia si attribuì un merito non suo, passarono al contrattacco e i lavori vennero sospesi. E che fine ha fatto la ferrovia di Nablus? incalzai. Ci furono molti danni durante la prima guerra mondiale. Le potenze subentranti nel primo dopoguerra, Francia in Siria e Libano, Inghilterra nei restanti territori, non avevano interesse a rimettere in sesto i collegamenti che continuarono a funzionare solo su alcune tratte. Il colpo di grazia lo diede la guerra del 1948. Da allora Nablus non ha più alcun collegamento ferroviario.

    Aaahhh! Ce l’ho fatta. Che Un treno per Nablus sia. E Un treno per Nablus fu!

    Milano, ottobre 2016

    Prefazione

    Una curiosa sensazione si è andata consolidando in me da quando ho cominciato a scrivere, a mano a mano che i racconti prendevano forma. Ho la sensazione, anzi la certezza, che lo scrittore non inventi nulla, le storie esistono già, come dimenticate in un misterioso scaffale dove lo scrittore deve andare a cercarle. Ricordate il racconto di Jorge Luis Borges La Biblioteca di Babele? Borges descrive una biblioteca spazialmente infinita composta di sale esagonali, che raccoglie disordinatamente tutti i possibili libri in cui si susseguono sequenze di caratteri senza ordine, in tutte le possibili combinazioni. Poiché i caratteri possono, per casualità, comporre frasi di senso compiuto, nella biblioteca esistono tutti i possibili libri, la storia minuziosa dell'avvenire, le autobiografie degli arcangeli, il catalogo fedele della Biblioteca, migliaia e migliaia di cataloghi falsi, la dimostrazione della falsità di questi cataloghi, la dimostrazione della falsità del catalogo autentico, la traduzione di ogni libro in tutte le lingue, le interpolazioni di ogni libro in tutti i libri. Lo scrittore che traversasse in una direzione qualsiasi la labirintica Biblioteca di Babele alla ricerca di una storia che dia corpo ai vaghi fantasmi che si agitano in lui, constaterebbe alla fine dei secoli non solo che la storia esiste, ma che di quella storia è presente anche ogni possibile variante. Poiché l’ordine con cui le diverse varianti si presentano è casuale, tra le migliaia di versioni possibili quella che l’autore arraffa non sarà quasi mai la versione ultima e perfetta, ne esisterà sempre una migliore in qualche altro scaffale. Avete presente Manzoni alle prese con i Promessi Sposi? Lui si incaponì, non smise mai di cercare nella Biblioteca. Naturalmente le leggi probabilistiche fanno sì che le storie che si trovano d’acchito nella Biblioteca di Babele non siano proprio le migliori, il che spiega la qualità di molte di quelle che vediamo pubblicate in giro. D’altra parte, come vi spieghereste mai che un illustre sconosciuto possa tirare fuori all’improvviso un romanzo bellissimo, un grande capolavoro? Nell’infinita biblioteca, puoi anche avere un gran colpo di... come lo chiamereste voi? La prova diretta e indiretta di ciò è che, per quanto questi fortunati si arrabattino, le opere successive non saranno mai al livello della prima. Io ho cercato un bel po’, tant’è che ho cominciato a scrivere dopo i sessanta. Alla fine, dopo avere tanto cercato, mi sono messo ad arraffare come capitava, chissà se sono stato bravo, se ho avuto fortuna. In questo libro le storie sono presentate nello stesso ordine in cui io le ho trovate, l’ultima si svolge a Nablus, e così l’ho chiamato Un treno per Nablus. Nella realtà non c’è nessun treno che porti a Nablus. Che significhi qualcosa? Invece la Biblioteca di Babele esiste eccome.

    * * * * *

    Perché racconti, chiederete. In fondo tra tutte le storie di questa raccolta c’è un unico filo rosso che le collega, c’era materiale per un libro. Ma non sarebbe stata la stessa cosa. Scrivere un racconto è come correre i 100 metri: tutto si risolve in dieci secondi. Un libro è una maratona, tutta un’altra storia. Avete presente Linus? Lui dipingeva i suoi quadri in aria perché – spiegava – così aveva infinite possibilità espressive, non c’erano vincoli alla creatività. Per me il racconto è come un quadro di Linus, ti dà gradi di libertà che un libro non ti consentirebbe mai. Scatto, rincorsa e finale condensati in uno spazio brevissimo permettono un’efficacia espressiva impossibile nel romanzo. Se volete vederla in un altro modo, è la differenza tra l’azione di un commando di paracadutisti e lo sbarco in Normandia. Questo è il racconto. Almeno, così la penso io. Al lettore l’ardua sentenza.

    Quell’estate del ‘98 ovvero com’è che non divenni un uomo d’affari russo

    A Bonassola, oltre la Madonnina della Punta, passata l’altissima scogliera del Salto della Lepre, si apre un’ampia baia costellata di caverne e precipizi chiamata le Rocce Rosse, dove l’acqua al riparo dalle mareggiate si fa particolarmente trasparente. In questa baia, arroccata su uno sperone roccioso a strapiombo sul mare, sorge una villa solitaria. Ci si può arrivare dal paese solo via mare oppure percorrendo un tunnel abbandonato della vecchia ferrovia. Ha la forma di un ottagono con grandi finestre su tutti i lati. Sia per il colore che si confonde con le rocce circostanti, che per la vegetazione spontanea che la circonda, non è facile da vedere, ma di lassù dev’esserci uno spettacolo fantastico. L’amico Gianni Ardoino mi racconta che la sua costruzione, nei primissimi anni ’60, fu un’avventura e costò un pozzo di quattrini per la difficile posizione e per l’eccezionale qualità dei materiali impiegati. In una notte buia e tempestosa, mentre rientrava in casa, il vecchio proprietario Italo Fasce scivolò sulla scalinata scavata nella roccia e perì tragicamente precipitando in mare. Dopo un po’ la villa fu venduta ad un misterioso uomo d’affari russo con avvenente compagna. Costoro, piuttosto giovani, conducono una vita estremamente appartata, non danno confidenza a nessuno. Ecco, dedico a loro questa storia perché spero - nell’improbabile ipotesi che la leggano - che accettino di farsi conoscere. Chi compra una casa del genere non può essere uno qualunque, e non parlo dei soldi. Magari li inviterò a cena da noi alla Caminà. Il mio idraulico (di cui non svelerò a nessun costo il nome) d’estate pesca tutti i giorni tra Deiva e Bonassola e mi vende pesce freschissimo: branzini, orate, gallinelle, mormore, occhiate, saraghi. Prometto ai russi un cappon magro con i fiocchi. Parola.

    * * * * *

    Guarda qua, mi fece Itzhak spiegando sulla scrivania un foglio. Era venuto a trovarmi in ufficio a Genova dopo avermi chiamato al mattino. Con Itzhak era sempre così, non si faceva sentire per mesi, talvolta anche più di un anno, era irraggiungibile su cellulare - chissà dove diavolo era, sapevo che bazzicava spesso dalle parti di Vladivostok - e poi ricompariva all’improvviso.

    Itzhak è un ebreo georgiano cresciuto a Baku, sul Mar Caspio, figlio di un mercante di diamanti che se la passava benissimo sotto il regime sovietico. Purtroppo le cose cambiarono con la caduta del comunismo, la mafia azera era meno accomodante (il regime si accontentava di una tangente, la mafia voleva tutto) ed un brutto giorno il papà di Itzhak fu trovato accoltellato nella sua villa affacciata sul mare. Una brutta storia. Tutta la famiglia aveva lasciato precipitosamente Baku, qualcuno si trasferì a Mosca, qualcun altro a Londra e Francoforte. Itzhak tenne la casa a Mosca ma elesse dimora anche a Londra e in Brianza. Sì, perché non l’ho ancora detto, Itzhak era stato sposato con un’italiana da cui si era presto separato ma che gli aveva lasciato una perfetta padronanza della lingua.

    Il passato di Itzhak era avvolto nel mistero. Nel tempo passato insieme, un pezzettino per volta qualcosa era emerso, e questo qualcosa non mi spingeva a fare troppe domande. Itzhak si era laureato a Mosca in lingue centro-asiatiche, quindi il turco e le sue varianti ancestrali che si parlano negli immensi territori tra il Caspio e la Cina che una volta si chiamavano Turkestan (attuali repubbliche di Azerbaijan, Turkmenistan, Uzbekistan, Tajikistan, Kyrgyzstan, Kazakstan). Ma la sua vera specialità era il farsi, ovvero la lingua persiana. Itzhak mi raccontava di essere stato l’interprete ufficiale dello Scià di Persia in tutti gli incontri con esponenti sovietici. Parlava così bene il farsi che una volta Reza Pahlavi gli chiese dove avesse imparato il russo. Anche dopo che aveva smesso da un pezzo di fare l’interprete, continuava ad andare a Teheran a sciacquare i panni in Arno, diceva proprio così. Si trovava a Teheran durante la rivoluzione komeinista, poi a Kabul durante l’invasione sovietica. Nella vita di Itzhak c’erano un sacco di coincidenze. Poi un giorno qualcuno del KGB scoprì che un suo zio era emigrato illegalmente in Inghilterra, cosa che lui si era ben guardato dal segnalare alla ditta. Gli fecero regalo della vita ma lo invitarono a sparire. Dove sparire e allo stesso tempo lavare i panni sporchi perché tornassero immacolati? Itzhak si seppellì all’Università per Stranieri Lumumba di Mosca ad insegnare Etica Marxista agli studenti africani. Per tre anni non uscì dal campus, non c’era mica tanto da fidarsi della ditta. Arrivò Gorbachev, qualcosa cominciò a cambiare. Poi un bel giorno il professore universitario di cui Itzhak era stato pupillo, Leonid Ivanovic Abalkin, divenne direttore dell'Istituto di Economia dell'Accademia Russa delle Scienze. Itzhak chiese ed ottenne udienza. Abalkin ascoltò Itzhak e lo sdoganò in quattro e quattr’otto. Era tornato un uomo libero! Libero almeno per quanto si poteva esserlo in Unione Sovietica.

    Altri anni passarono, nel ’91 l’immenso impero si sgretolò, e fu proprio quell’estate che incontrai Itzhak per la prima volta. Ero con mia moglie Carla in vacanza negli Stati Uniti e, trovandomi a Washington, pensai di far visita a John, l’ex console USA di Genova che aveva abitato per anni nell’appartamento sottostante il mio, e sua moglie Dorothy, anche lei addetta al consolato. A casa dei nostri amici trovammo un ospite un po’ scuro di carnagione, di aspetto mediorientale, molto elegante e fluente in Italiano. Itzhak, appunto, il quale era già da alcuni anni visiting professor alla Georgetown University di Washington, e non perdeva occasione di andare a trovare l’amico John. Appresi che Itzhak doveva tenere un ciclo di lezioni di geopolitica sull’Asia Centrale. Il nodo inestricabile di tutta l’area era la domanda Il Mar Caspio è un mare o un lago?. In funzione della risposta, cambiava in modo sostanziale la proprietà dei pozzi petroliferi tra le repubbliche che si affacciavano su quel mare, questione che sarebbe divenuta esplosiva di lì a poco. Capii che la risposta era estremamente complicata e comunque non riuscii a sapere come la pensasse Itzhak, cosa che si sarebbe poi ripetuta regolarmente su molti altri argomenti. Itzhak mi ricordava un po’ Rainer Hertel, un anziano professore di gravitropismo dell’Università di Friburgo, nostro vicino di casa a Bonassola, che aveva l’unica figlia residente nell’isola di Samoa. Il gravitropismo, ci spiegò Rainer, è la scienza che studia perché le piante crescono dal terreno andando tendenzialmente diritte verso l’alto. Sembra una questione banale, ma non lo è. Sono stati sviluppati modelli matematici molto complessi di simulazione della biologia molecolare delle piante. Qual è dunque la risposta, chiesi a Rainer. E lui, non si sa, ci stiamo ancora lavorando. Tornando a bomba, dopo l’incontro a Washington prendemmo a frequentare in Italia Itzhak, con cui facemmo amicizia. Un bel giorno lui mi confidò che John e sua moglie erano entrambi alti funzionari della CIA. Spie, insomma.

    Questo in realtà non mi aveva stupito più che tanto. John era viceconsole a Genova quando io avevo dovuto lasciare il gruppo Zegna qualche anno prima per insanabili contrasti con la proprietà. Insomma, mi avevano silurato. Dovendomi cercare qualcosa da fare, avevo sentito qualcuno dei vecchi amici, particolarmente tra i vecchi colleghi ex-McKinsey. Uno di costoro, Gianco, aveva un paio di richieste che non aveva tempo di seguire personalmente. La prima, che non c’entra con questo racconto, però merita di essere ricordata, era il progetto Sol Levante. Questo Sol Levante col Giappone non aveva nulla a che fare. Si trattava dello studio di fattibilità commerciale, tecnico ed economico dell’invenzione di un famoso chirurgo cardio-vascolare brianzolo. Costui aveva progettato un dispositivo, una valvola in grado di dirottare il sangue di non ricordo più quale arteria nel pene maschile, generando fantastiche e durature erezioni. La valvola poteva essere azionata dall’utente mediante un comando sottocutaneo sistemato in un fianco, in posizione tale da non poter entrare in funzione in modo indesiderato o in occasioni poco appropriate. Era ovviamente previsto un comando, altrettanto discreto, per restaurare la situazione iniziale. Grazie alla presentazione di Gianco, potei mettermi in contatto con il chirurgo, ma costui mi disse che la sperimentazione era in alto mare, e che lo studio di fattibilità era prematuro. In effetti, ed è un vero peccato perché il Viagra apparve solo una dozzina d’anni dopo, di Sol Levante non si è più sentito parlare.

    Veniamo quindi al secondo progetto che Gianco mi propose, maggiormente pertinente con questa storia. Due fratelli torinesi, scienziati a tempo perso più che industriali, eredi di un’enorme fortuna famigliare che gli consentiva di impegnarsi in ricerche tecnologiche assai complesse, avevano inventato un sistema elettrolitico per l’estrazione del titanio. Di che diamine si tratta? Il titanio è un metallo con doti straordinarie: non conduce calore nè elettricità, a toccarlo pare un pezzo di legno, pesa metà dell’acciaio, resiste ad altissime temperature senza perdere le sue caratteristiche, niente lo corrode, nulla gli aderisce, è perfettamente anti-allergico. Di titanio in natura ce n’è moltissimo, ma purtroppo è molto costoso da estrarre. Questo è il motivo per cui, pur essendo adatto a molti usi, è rimasto confinato prevalentemente ad applicazioni militari. Aerei ipersonici tipo MIG-25 e SR-71, sottomarini nucleari, corazzature per aerei da combattimento ed altro ancora, per intenderci. Orbene i fratelli torinesi avevano brevettato un sistema di estrazione elettrolitica del metallo in bagno di sali fusi che ne garantiva un’altissima purezza non raggiungibile con i metodi tradizionali, per di più (così dicevano) a costi competitivi. Diversamente da Sol Levante questo secondo progetto portò ad un incarico di consulenza che riguardava le applicazioni civili del metallo. Delle applicazioni militari i due fratelli si occupavano direttamente. E indovinate a chi avevano venduto il brevetto? Ai russi. Quando di questa cosa accennai casualmente a John mentre eravamo insieme con le mogli a farci una pizza, lui fece un salto sulla sedia e mi mise sotto torchio per saperne di più. Per giustificare le sue domande mi disse di essere responsabile per il controllo sul trasferimento di tecnologie sensibili a paesi non alleati. Insomma, mi aveva già confessato lui di essere una spia. Io non so come vadano queste faccende della CIA, certo tutta questa segretezza è una favola, o almeno c’è grande fiducia nel prossimo.

    Ma torniamo dunque a quel giorno del 1998 e al foglio di carta che Itzhak mi aveva messo davanti. Era in cirillico, con un’intestazione molto vistosa del tipo aquila imperiale, svolazzo finale e timbri di ogni forma. Cosa c’è scritto? Guarda qui, Oscar, c’è la firma del Governatore della Regione di Penza. Penza, dov’é la Regione di Penza? È una piccola regione a metà strada tra Mosca e il Caspio, disse Itzhak. La capitale, Penza, ha 500.000 abitanti. La maggior parte lavorava nell’industria degli armamenti, ti puoi immaginare che disastro (il crollo dell’Unione Sovietica nel 1991 portò al dirottamento di una parte sostanziale delle spese militari al soddisfacimento di bisogni primari della popolazione russa). Tutti a spasso. Il Governatore mi ha chiamato e mi ha nominato Responsabile per la Promozione degli Investimenti Stranieri nella Regione. È questo che c’è scritto in questo foglio. Ma tu lo sai, Oscar, io ho una formazione piuttosto umanistica, di faccende economiche ed industriali ne mastico poco. Qui ci vuole un ingegnere economista. Tu! Un momento, frena, io cosa c’entro? Senti, non mi avevi detto qualche tempo fa che non sei mai stato in Russia e che volevi andarci? Beh, questa è l’occasione buona. Andiamo io, tu e Carla a Mosca per un long week end, vi faccio conoscere quella città meravigliosa, poi mettiamo Carla su un aereo per Genova e noi ce ne andiamo qualche giorno a Penza. La cosa cominciava a piacermi. C’è qualcuno che paga le spese di viaggio? Itzhak alzò gli occhi al cielo. È ancora troppo presto, Oscar, dobbiamo fargli prima vedere che siamo gli interlocutori giusti. Poi problemi di soldi non ce ne saranno. Comunque abbiamo vitto e alloggio nel palazzo del Governo. Immaginai saloni sontuosi, caviale e vodka offerti dal governo di Penza. OK, si può fare. Avrei avuto un mucchio di domande su tutta la faccenda, ma con Itzhak mi ero ormai abituato a non farne, tanto lui non rispondeva.

    I vantaggi del biglietto aereo Genova-Mosca e ritorno pagato con le Mille Miglia evaporarono immediatamente allorché ci sistemammo all’Hotel Metropole, a pochi passi dalla Piazza Rossa da un lato, e dal Teatro Bolshoi dall’altro. Itzhak ci aveva prenotato una suite. Lui aveva uno sconto speciale, ma costava pur sempre una cifra da capogiro. Ci fece trovare nella suite una bottiglia di champagne, un mazzo di rose rosse e due biglietti per il balletto al Bolshoi della sera dopo, con poltrone nelle prime file. Ma non voglio dilungarmi sui quattro splendidi giorni trascorsi a Mosca. Era giugno, il tempo mite, le giornate lunghissime. Per la maggior parte del tempo Itzhak ci fece da guida, una guida particolarmente colta ed esperta di luoghi noti e meno noti, e di fantastici ristorantini caucasici. L’era sovietica non era più neppure un lontano ricordo. Era come se non fosse mai esistita. C’erano in giro un numero impressionante di Mercedes nere nella versione S500. A bordo burini poco rassicuranti, spesso accompagnati da giovani donne di stupefacente bellezza ed eleganza. Itzhak ci portava invece in giro su una vecchia Lada grigia un po’ scalcagnata. Puoi avere una macchina bella solo se puoi permetterti la scorta, ci disse.

    La sera prima che Carla ripartisse per Genova, a Mosca ci fu un uragano. Comodamente sistemati nella sala da pranzo del Metropole, tra colonnati di marmo, argenterie e tendaggi pesanti, non ci accorgemmo di nulla. Quando accompagnammo Itzhak all’uscita dell’hotel, capimmo che fuori c’era stato il finimondo. C’era una fila di grandi alberi sradicati lungo tutta la strada che costeggiava le mura del Cremlino. C’erano stati morti e feriti, ne parlarono anche i telegiornali in Italia tanto che la mamma di Carla ci telefonò. Il problema lo ebbe Carla il giorno dopo. L’accompagnammo all’aeroporto Sheremetyevo, la scaricammo al terminal Alitalia, arrivederci e via. La poverina si trovò nel caos totale, in aeroporto non funzionava nulla, tutti i computer erano spenti, ci fu un ritardo di 12 ore sul suo volo e poiché tutti gli annunci erano in russo a momenti perse l’aereo.

    Ignari di tutto ciò (per fortuna all’epoca Carla non aveva cellulare), io ed Itzhak ce ne andammo a pranzo nella solita deliziosa trattoria caucasica, in attesa di tornare a Sheremetyevo a prendere Russell. Questa era una novità che Itzhak mi aveva comunicato solo al nostro arrivo a Mosca. La spedizione a Penza si era arricchita di un nuovo componente, Russell, vecchio amico americano di Itzhak, come me ex consulente McKinsey. Così, mi spiegò Itzhak, avremmo costituito una vera e propria delegazione di investitori internazionali, io come rappresentante per l’Europa, Russell per gli Stati Uniti d’America.

    In barba al caos di arrivi e partenze, di cui continuavamo ad essere ignari, il volo TWA da Boston di Russell arrivò puntualissimo verso le 17. L’americano era un tipo tarchiato della mia età, con una barbetta grigia e occhiali tondi da professore universitario, abbigliamento piuttosto stazzonato, una sacca da barca in spalla. La partenza per Penza era programmata per la stessa sera verso le 21 dalla stazione Kazanskaja. Avevamo tempo per quattro chiacchiere e per uno spuntino prima della partenza. Appresi così che Russell aveva lasciato McKinsey da parecchi anni, e faceva come me il consulente freelance, oltre che il docente in un piccolo college. Diversamente da me, aveva lasciato la città e si era ritirato sui monti del Massachusetts dove viveva in una casa in mezzo ai boschi, almeno per il tempo concesso dalle continue trasferte da un capo all’altro degli Stati Uniti.

    Arrivammo alla stazione Kazanskaja che il sole era ancora alto. Il treno partiva alle nove, così avevamo un po’ di tempo per bighellonare in giro. Ad un certo punto comparve sulla piattaforma del nostro binario una giovane coppia. Lei attrasse il nostro sguardo. Portava un abito a rete a maglie molto larghe su un corpo statuario. Hai presente la Sharapova. Aguzzando lo sguardo contro luce, pareva di scorgere un’ombra scura proprio all’altezza del pube, e delicate roselline sui seni, sicché sotto l’abito a rete a maglie molto larghe sembrava nuda!

    Impossibile. Aspettammo che la coppia ci oltrepassasse, portandosi in piena luce. Il sole disvelò ogni dettaglio di due splendidi glutei spudoratamente privi di ogni traccia di biancheria intima. Eravamo tutti e tre, il russo, l’americano e l’italiano, come ipnotizzati, estasiati da quello spettacolo, leggermente piegati in avanti, le teste girate e allineate, gli occhi calamitati.

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