Una madre di carta
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Una madre di carta - Giuliana Moro
Una madre di carta
di Giuliana Moro
Panda Edizioni
ISBN 9788893780032
© 2016 Panda Edizioni
www.pandaedizioni.it
info@pandaedizioni.it
Proprietà riservata. Nessuna parte del presente libro può essere riprodotta, memorizzata, fotocopiata o riprodotta altrimenti senza il consenso scritto dell'editore.
I fatti e i personaggi rappresentati nella seguente opera, nonché i nomi e i dialoghi ivi contenuti, sono unicamente frutto dell'immaginazione e della libera espressione artistica dell'Autore.
Ogni similitudine, riferimento o identificazione con fatti, persone, nomi o luoghi reali è puramente casuale e non intenzionale.
Maria è una trovatella. Era stata abbandonata sui gradini della chiesa, davanti alla porta secondaria, da dove entrano i fedeli per la Messa vespertina.
Era una sera d’una domenica dell’inverno del 1930.
La nebbia era densa come lo sono certe nebbie di febbraio che, se non c’è luce elettrica a illuminare le strade, sembrano ancora più fitte e scure, e pare che esse stesse si facciano ombra.
Poche persone, avvolte nei cappotti e nelle mantelle, s’affrettavano al richiamo dell’ultimo rintocco della campana. Fedeli che non avevano partecipato alla funzione della mattina, per stare a casa ad accudire un vecchio, o un bambino malato o troppo piccolo da lasciare solo. Avevano aspettato che qualche altro membro della famiglia se ne potesse prendere cura per poter santificare la festa.
Si sentiva il rumore dei passi svelti sull’acciottolato del sagrato, avvolto nella grande caligine umida, di cui non potevi vedere l’ampiezza.
Si poteva immaginare quel sagrato come un grande spazio contornato da alti, vecchi palazzi, con piccole terrazze dove mettere in bella mostra le tovaglie ricamate dei corredi delle spose, nelle celebrazioni in onore della Madonna nel mese di Maggio. Così grande da raccogliere tutti i fedeli che avevano partecipavano alla processione del Corpus Domini che si dipanava, dalle sei di mattina, in un percorso ad anello lungo le alte mura del convento con le bambine che avevano appena ricevuto la prima comunione, vestite di bianco con la coroncina di roselline fra i capelli, e nelle mani il cestino vuoto dei fiori che avevano sparso con misura, perché dovevano durare per tutto il tempo del percorso.
Ma il sagrato poteva essere anche angusto da far fatica a contenere i fedeli e le statue caricate a spalla dagli uomini più robusti del paese che, fissate sulle carrette, oscillavano a tratti, mentre quattro cappati portavano il baldacchino sotto al quale il prete salmodiava preghiere in latino. La gente rispondeva addomesticando le parole e togliendo le desinenze. Le donne allungavano le vocali dell’Ave Maria così da formare un suono acuto che si sentiva in lontananza e si riaccendeva a intermittenze lunghe, a seconda di come curvava la strada o spirava il vento.
Al vespro di quella domenica, le sagome dei fedeli dai contorni indistinti si palesavano improvvisamente, ampie e tozze dentro lo scuro della sera e, ancorché silenziose e assorte, se ne aveva comunque la percezione, perché l’aria immobile aveva un movimento brusco, come di una porta che si apre e fa entrare una folata di vento freddo proveniente da fuori, se così si può dire visto che si era all’esterno. Si avvertivano quando erano vicine e se ne aveva quasi un sussulto perché tutte le ombre scure hanno un che di sinistro e di sospetto. Ma questa era tutta gente che andava in chiesa, quindi nessun timore poteva incutere, anche se qualcuno aveva commesso peccati tali da turbare il proprio o l’altrui sonno e per cui si aspettava il castigo divino che sarebbe di sicuro arrivato; l’unica cosa incerta era in quale forma e in quale modo Dio avrebbe potuto chiedere il conto.
Solo un attimo e poi le sagome scomparivano di nuovo nella bruma. Sembrava quasi che non fossero mai passate di là. Ombre furtive e senza volto. L’aria tornava di nuovo immobile e spessa. Le ombre raggiungevano velocemente la porta della chiesa che le inghiottiva; l’uscio restava aperto solo a metà, giusto il tempo del passaggio svelto, così che entrasse meno il freddo.
Il destino aveva voluto che un’anima buona e distratta inciampasse su quel fagotto che non dava alcun lamento. Non lo si poteva vedere senza guardare attentamente verso il basso, che poi sarebbe stata una stranezza farlo, visto che non distinguendo cosa alcuna non c’era motivo di avere un tale atteggiamento.
Forse la bambina era stata abbandonata da poco sul granito gelido, o era più verosimile che fosse stata messa là da tempo, tanto prima che i fedeli arrivassero per la Messa, per essere sicuri di non essere visti o poter comunque confondersi nella nebbia, lontano da occhi indiscreti, fidando anche nella distrazione di quelli di Dio. Forse la neonata aveva già consumato tutto il pianto e non avrebbe resistito ancora per tanto tempo.
C’era stato un po’ di trambusto tra i fedeli che, dopo la curiosità per l’evento e un breve crocchio attorno alla piccola, si era risolto in qualche commento su chi avesse potuto compiere questo deprecabile gesto e sulla seccatura di un prolungamento del tempo necessario per la funzione.
Il gelo aveva ghiacciato la nebbia che penetrava dentro i vestiti e arrivava fin sotto la pelle e dentro ai panni color rosa pallido che avvolgevano la trovatella.
Alla chiesa era annesso il convento delle Suore di Santa Maria Addolorata dove la bambina era stata subito portata. La superiora aveva fatto chiamare il prete e ordinato di preparare quanto occorreva per battezzarla. Ma era già tutto pronto. Come non fosse un fatto così imprevisto l’abbandono e l’accoglienza di un neonato. Sembrava quasi che le sorelle fossero in attesa di quell’evento per rompere lo scandire regolare