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L'Altare dell'Abisso
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L'Altare dell'Abisso

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About this ebook

Bevagna, nella tranquillità apparente della piana umbra, dove il Lago Aiso si incastona tra i campi, la vita di Fedro Soli, un trentenne di Parma, proprio non va: il lavoro, l'aspirazione, i litigi con la moglie Amalia e la paternità non voluta. Ma nulla è come crede.

In pochi giorni Fedro passerà attraverso una scomparsa, un omicidio, antichi tomi di alchimia, personaggi coloriti e una mescolanza di religioni fino ad affrontare l’Ordine degli Adepti e il suo scopo finale. Invischiato, senza poter scegliere, in forze oniriche ed ermetiche, nella potenza dell’amore e del fascino esotico. Ma disperazione infonderà coraggio e istintività provocandolo affinché concluda il percorso di metamorfosi e abbia la sua personale, al contempo dolorosa, rivelazione.

Anche per il lettore dell’Altare dell’Abisso nulla sarà come sembra, sballottato tra bugie e verità, colpi di scena e ribaltamenti, finta stasi e strappi improvvisi, archeologia indigena e futuro universale. Il mix deflagrante che rende questo mystery thriller un romanzo d’assaporare fino all’ultima sillaba.

“Mutamento, fuoco che non brucia né distrugge, putrefarà, corromperà, genererà e perfezionerà. Nero tramuterà in bianco prima, in giallo poi e partorirà rosso. Fuoco umido di quattro colori, le fiamme che compiranno l’Opera.”
LanguageItaliano
Release dateDec 1, 2016
ISBN9788822872913
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    L'Altare dell'Abisso - Patrich Antegiovanni

    http://write.streetlib.com

    Copyright

    Copyright © 2016 Patrich Antegiovanni

    pat.antegiovanni@gmail.com

    https://www.facebook.com/PatrichAntegiovanniAutore

    Questo romanzo è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi e avvenimenti sono il prodotto dell’immaginazione e quando reali sono stati liberamente rielaborati e romanzati. Ogni riferimento a fatti e persone viventi o scomparse è del tutto casuale.

    Tutti i diritti di quest’opera sono di esclusiva proprietà dell’Autore. Nessuna parte del volume può essere riprodotta o trasmessa in alcuna forma o con alcun mezzo senza autorizzazione.

    A Elena

    il mio qui e il mio ora

    Il Libro

        Bevagna, nella tranquillità apparente della piana umbra, dove il Lago Aiso si incastona tra i campi, la vita di Fedro Soli, un trentenne di Parma, proprio non va: il lavoro, l'aspirazione, i litigi con la moglie Amalia e la paternità non voluta. Ma nulla è come crede.

    In pochi giorni Fedro passerà attraverso una scomparsa, un omicidio, antichi tomi di alchimia, personaggi coloriti e mescolanza di religioni fino ad affrontare l’Ordine degli Adepti e il suo scopo finale. Invischiato, senza poter scegliere, in forze oniriche ed ermetiche, nella potenza dell’amore e del fascino esotico. Ma disperazione infonderà coraggio e istintività provocandolo affinché concluda il percorso di metamorfosi e abbia la sua personale, al contempo dolorosa, rivelazione.

    Anche per il lettore dell’Altare dell’Abisso nulla sarà come sembra, sballottato tra bugie e verità, colpi di scena e ribaltamenti, finta stasi e strappi improvvisi, archeologia indigena e futuro universale. Il mix deflagrante che rende questo mystery thriller un romanzo d’assaporare fino all’ultima sillaba.

    Mutamento, fuoco che non brucia né distrugge, putrefarà, corromperà, genererà e perfezionerà. Nero tramuterà in bianco prima, in giallo poi e partorirà rosso. Fuoco umido di quattro colori, le fiamme che compiranno l’Opera.

    L’Autore

         Patrich Antegiovanni, naturalista, consulente ambientale, ricercatore in ambito scientifico per privati ed enti pubblici, inoltre collabora nella gestione di uno studio bibliografico.

    Nato a Rho, Milano, dopo aver vissuto in varie zone dell’Umbria da qualche anno risiede nella campagna di Foligno.

    Capitolo I

    Un incontro fastidioso

    Il vento placò la sua corsa e il sole scaldava a fatica. Nel camino sibilavano due ciocchi, uno di quercia e l’altro di pesco tagliato l’anno prima. Il tempo trascorreva lento, così almeno sembrava a Fedro Soli. Sguardo smarrito oltre la finestra dove pioppi neri strozzati dall’edera si impuntavano immobili, aggrappati a una terra fertile e al contempo grezza.

    Doveva lavorare, ma la testa svolacchiava su ricordi lontani, sugli avvenimenti di una vita, sulle scelte che l’avevano reso un trentenne annoiato di buoni propositi e tenui speranze scampate alla giovinezza quando avrebbe azzannato le stelle per un ideale.

    Perso nel torrente dei pensieri sentì gli aghi conficcarsi nella coscia. Colombo, il gatto di casa, lo trascinava alla realtà, a ciò che ora era e non a ciò che sarebbe potuto essere. Il passato scaturiva da un concatenarsi di episodi allora presenti e che non sarebbero più tornati, poteva averne di nuovi se avesse voluto lottare e vivere l’oggi.

    Ciondolò fino al pacchetto di sigarette e ne accese una. Scese le scale in legno di castagno, dei fiori con petali turchese in vetro di murano brillavano incastonati nella ringhiera e si incupì. Sentiva che l’esistenza era stata avara con lui e perché non cambiarla? Un nuovo lavoro, una vita diversa rispetto a quella imposta dalla moglie, un altro genere di resurrezione. Nell’istante in cui si delineavano i contorni l’idea scomparve subito.

    Fedro sapeva di mancare in istinto, disperazione e coraggio. Flettere, anche di un minimo, il percorso dell’esistenza richiedeva un atto di forza, e solo scegliere cosa indossare la mattina richiedeva per l’appunto una scelta.

    Poggiato sulla soglia si impaludava nei vicoli ciechi della mente, la sigaretta bruciava da sola. Il serpentello fumoso saliva alla finestra, come se esso stesso desiderasse la libertà, il bisogno di fuggire nella pianura che si spalancava davanti, la laetis Mevania pratis cantata da Silio Italico.

    «Non riesco.» Disse tra sé e sé aspirando una boccata di fumo: «Non è il giorno adatto e non consegnerò i testi in tempo.» E pensò ad Amalia al piano di sopra.

    I capelli rosso aranciati cadevano ordinati sulle spalle ed esalavano un odore di mango che lo richiamava come un magnete. Raccolta davanti al computer, rigida e a petto in fuori, la immaginava sfogliare riviste di arredamento e ruotare il rendering di una cucina per una cliente di Montefalco.

    Beata.

    Avevano appena discusso, Fedro prese il giubbotto e uscì a passeggiare verso il paesello senza dire niente alla moglie. In preda alla creatività risultava invisibile ai suoi occhi.

    Lungo la strada i campi addormentati si ricaricavano dei nutrienti persi l’anno precedente, i semi quiescenti attendevano la primavera e il contadino che riprendesse l’opera. Il lavoro della terra scandiva il ritmo delle stagioni. La piana s’incuneava a sud-ovest tra blande colline pezzate di Moraiolo, Leccino e Sagrantino e a nord-est tra smussate montagne spolverate di neve. Assisi e Spello, come sentinelle adagiate sul Monte Subasio, ne sorvegliavano da secoli i mutamenti, così come Montefalco e Trevi dal lato opposto. Contrasto e armonia di monti, colli e pianura restituivano tridimensionalità allo sguardo, ma non nel suo, imprigionato tra i pensieri.

    Due cornacchie appollaiate tra le fronde di un ciliegio, curiose, seguivano l’uomo che camminava sull’asfalto bagnato, i vivaci occhi fissavano lo stesso colore in quelli profondi e annacquati di Fedro. Era alto un metro e ottanta, gran parte rubato dalle gambe da trampoliere, aveva corti capelli nero fumo testardi da ordinare. Sul lato destro del collo traspariva una voglia a forma di goccia, visibile come la filigrana nella carta.

    Il Fosso Rio gonfiato dalle piogge ne accompagnava il passeggio con un moto ammaliatore. L’acqua dominava il paesaggio; sgorgava ovunque in rigagnoli, torrenti, fiumi e pozze, come il Lago Aiso, una profonda risorgiva artesiana che lo intimidiva ogni volta che si trovava nelle vicinanze. I locali, come per esorcizzarne il timore, lo chiamavano come in antichità: Abisso.

    Qua e là ciuffi di pioppo antico, nero, bianco e tremulo drizzavano le chiome spoglie, bordura residua di strade e campi, testimoni ed equilibristi. Erano sopravvissuti alla forza di gravità in giornate assolate o plumbee, calme o ventose, calde o fredde, secche o soprattutto umide.

    La strada gli scivolava tra i piedi e sussultò per un movimento alla sinistra, le narici del nasetto schiacciato si dilatarono e del pallore comparve nell’incarnato color ambra del volto. Il timore virò subito in allegria quando capì cosa avesse diradato le nubi nella sua testa. Una coppia di aironi cinerini aveva spiccato il volo spaventata dai passi e disturbata nel setacciare le sponde a caccia di cibo per i pulcini appena nati. Ne seguì la fuga prima in cielo e poi tra gli alberi fino a un canneto oltre l’argine rialzato del Fiume Topino, così la maestà del territorio chiese conto al piccolo uomo che lo attraversava.

    Amalia e Fedro si erano trasferiti a Bevagna da poco più di un anno, erano in fuga da Parma e da Perugia, luoghi sempre più caotici e logoranti dove ogni essere umano era un isolotto in mezzo al mare della comune indifferenza. Arrivarono per caso. Amalia scoprì il posto dopo un sopralluogo in un casale di un eccentrico broker olandese e si innamorò a prima vista della piccola pianura padana, come adoravano chiamarla, del vivere sano e della originalità del borgo, all’apparenza semplice e genuino. Fedro apprezzò da subito i pregi della campagna: comprare o barattare uova, carne e verdure dagli sparuti vicini, raccogliere i propri frutti e nutrirsi delle erbe spontanee che crescevano in giardino o lungo i greppi; gesti sostenibili in un mondo insostenibile. Riuscì ad apprezzare anche la relatività del tempo, il suo scorrere a tratti piacevolmente lento. Arrivò a credere che oltre alla costruzione della famiglia ne avrebbe giovato anche il lavoro e più di tutto la reale passione: scrivere storie senza tempo.

    Tuttavia in ogni paesino che si rispetti le novità risvegliano la diffidenza, Fedro e Amalia vennero sottoposti alle prove del campanilismo; passarono dalla fase dello studio a quella delle domande e del ficcanasare, fino ad arrivare al pettegolezzo, entrando così a pieno diritto nella vita di un piccolo borgo umbro. Accettarono di buon grado le pressioni della gente, i pregi superavano di gran lunga i difetti e lo sostenevano anche le altre persone giunte da luoghi ben più lontani, calamitati in quella realtà medievale di poco più di cinquemila anime, attratti dal mangiar bene e da una vita a misura d’individuo.

    «Ragazzo!»

    Fedro alzò la testa e cercando di capire da dove arrivasse la voce si avvicinò al bordo della strada.

    «Ehi dico a te. Sono qua, dietro…» Un tonfo sordo echeggiò in mezzo alle parole e dell’acqua schizzò sui jeans blu navy. Fedro si sporse sul rivolo Forma dell’Abisso, vide un uomo seduto nel letto che rideva come un pazzo, la pancia era talmente grande rispetto alla testa da sembrare un naso con le gambette.

    «Ti ho spaventato? Cercavo della legna secca per il fuoco e ho visto quel ramo di salice. Mi sono attaccato con tutto il peso, ma sono ruzzolato come una pera cotta.» Disse lo sconosciuto sganasciandosi dalle risate e indicando un albero sopra di lui: «Brrr che fredda quest’acqua.» Aggiunse.

    Fedro non riuscì subito a cogliere le parole, aveva ancora difficoltà con il dialetto locale.

    Che diavolo ha da ridere, pensò, è zuppo in Febbraio, se non esce si ammala e lui è contento.

    Il vento tornò a sferzare portando con sé l’odore del fango e increspò l’acqua intorno all’uomo.

    «Prenda la mano che l’aiuto a salire.» Disse tirando su la manica del logoro giubbotto di pelle nera e allungando un braccio.

    «Non ci penso proprio. Ho solo sessant’anni e ce la posso fare da solo.» Rispose stizzito con il sorriso in bocca.

    Fa pure il prezioso. Avevo un’idea per il nuovo romanzo e l’imbecille me l’ha fatta scappare, e si allontanò dall’argine mentre l’uomo risaliva in modo goffo accompagnato dal ciaf ciaf dell’acqua sputata a ogni passo dalle scarpe in eco-pelle color cioccolata.

    Riuscì con difficoltà ad arrivare all’asfalto e si mise a strizzare il velluto verde oliva dei pantaloni stropicciati e intrisi. Con lo stesso sorriso stampigliato nel folto barbone sale e pepe disse: «Oh, quando cammini non vedi proprio un fico secco. Fa male pensare troppo, ti fumerà il cervello. Ho chiamato almeno tre volte e niente, se ti fossi mosso prima non sarei finito a scacciare le ranocchie… Va bene lo stesso, mi chiamo Vareno Cecagallina, abito in quel casolare giallo laggiù.» E indicò un caseggiato intonacato di fresco a non più di seicento metri di distanza.

    Fedro strabuzzò gli occhi e lo sguardo cadde sulla ciambella grigio nera aperta sulla fronte che il tizio aveva al posto dei capelli, la chierica fumava per la differenza di temperatura tra l’acqua e la pelle e gli sfuggì un sorriso.

    Mi sa che il cervello fuma a te e non a me rimbecillito, ma che diritto hai di giudicarmi. Chi ti ha mai visto prima. Come ti chiami? Vareno.

    Si ricordò essere il nome del mitologico fondatore di Mevania oggi Bevagna e che non era nemmeno uno dei più strani. Aveva saputo fin dal suo arrivo che il paese era conosciuto in tutta l’Umbria per la fantasia degli abitanti nel nominare i propri figli.

    «Piacere mio, sono Fedro Soli, il nuovo vicino e vivo laggiù.» Rispose stringendogli prima la mano e poi con un passettino indietro indicando un casale in pietra calcarea a poco più di un chilometro di distanza.

    «Lo so, lo so.» Disse l’uomo sistemando dei fondi di bottiglia sul naso irrorato da capillari rotti che scendevano sulle guance fino alla barba come se avesse una gorgonia rossa appiccicata alla faccia. Vareno si scrollava l’acqua e nel contempo indietreggiava sulla sponda, la scarpa destra a contatto con l’erba umida scivolò. La caviglia cedette e si aggrappò con tutti i suoi cento chili a Fedro che con un colpo di frusta riuscì a tenere entrambi in piedi.

    «Porco cane, oggi sono proprio una ricotta. Sarai tu che mi confondi.» Disse ridendo e Fedro gli lesse in faccia la sofferenza appena provò a muovere un piede.

    «Si appoggi a me, con calma la porterò a casa, così si toglie quei vestiti bagnati e mette del ghiaccio sulla caviglia.» Disse sorreggendolo con difficoltà.

    «Guarda i giri che fai per abbracciarmi. Frena le voglie che ci siamo appena conosciuti. Io sono all’antica… va bene, per questa volta te lo lascio fare.» Gli occhi calarono su un braccio del ragazzo e dopo qualche secondo di studio ripartì strombazzando: «Caspita, hai fregato il brillocco a tua moglie prima di uscire. L’orologio non si usa più vedo, come si dice… è demodé, giusto?» E delle gazze ladre gracchiarono su un palo della luce spaventate dal frastuono.

    Fissava il bracciale che Fedro aveva al polso sinistro, cesellato in argento largo tre centimetri con un grande rubino taglio goccia incastonato al centro e uno spazio vuoto identico nel lato opposto. La gemma era di un rosso vivo, la varietà più ricercata, sangue di piccione e pulsava come un cuore.

    «Scusi. Ho capito poco di ciò che ha detto, ma il bracciale è il regalo di una persona importante.» Rispose sorridendo a denti stretti e con lo sguardo offeso.

    Tra lo schiamazzo e il gergo aveva afferrato il concetto, ma preferì lasciare correre e del rosa tornò a comparire nella barbetta di due giorni.

    «Niente» rispose Vareno, «solo le scemenze di un ragazzetto un po’ troppo cresciuto. Comunque bello il bracciale, sembra importante. Aiutami per favore così arrivo in azienda, ci parli tu con Saverio e gli dici pure quello che è successo che a me non crede.»

    Come bradipi claudicanti si incamminarono verso il grande cancello in ferro battuto della cantina Mevania di cui Vareno e Saverio, suo figlio, erano proprietari, così almeno era riuscito a capire tra la smitragliata di domande che subì durante il breve tragitto. Vareno chiese di tutto e Fedro tentò di dribblare alla bene e meglio rispondendo in modo vago e con lo sguardo basso.

    «Da qualche anno sono diventato web content editor.» Disse spossato dall’ennesima richiesta.

    Vareno rimase per poco in silenzio e poi tornò all’attacco con più vigore.

    «Boh. Proprio non capisco in pratica che roba sia. Si tratta di una cosa legale? Non è che dovrò venire a portarti una bottiglia di vino in gattabuia per le feste? Non ti piacciono i lavori normali come zappare la terra o l’idraulico, ma anche l’avvocato o il dottore e altre robe del genere?»

    Una curva, complice anche venticinque metri di roverella, nascose la cancellata alla vista e quando riapparve Fedro si arrestò. Vareno seguendo il flusso dei pensieri non si accorse e stava per inciampare. Tra il fogliame di un gruppo di allori piantati oltre la recinzione spuntavano delle chiappe femminili costrette in jeans turchese che scendevano a sigaretta fino a degli stivaletti bassi lucidi color liquirizia con un tacchettino che a distanza era quasi impercettibile. Il fare dei glutei era sospetto, così come quello del resto del corpo visibile, ma ad allarmare Fedro fu il luccichio di una lama racchiusa tra le dita e pensò a una rapina in corso. Tirò Vareno contro la quercia ed estrasse il cellulare dalla tasca del giubbotto per chiamare i carabinieri. Dopo aver composto il primo uno del 112 udì un risolino, alzò la testa e seguì lo sguardo di Vareno dritto sulle chiappe.

    «Sei proprio di città» disse l’uomo, «subito a pensare a una cosaccia. È solo quella pazza di Ada, la mia ex nuora. Vedi come cerca di crearsi un trespolo per spiare, ne ho già distrutto uno dall’altro lato. Saverio l’ha cacciata pochi mesi fa, ma lei non l’ha ancora capito.»

    Fedro ripose il telefono, il rubino scintillò colpito da un flebile raggio di luce e riprese a camminare sorreggendo Vareno.

    Portalo a casa, vattene subito che la pazzia è galoppante. Mancava la stolker, ora il quadro è completo… però… mi stuzzica la storia che potrebbe venir fuori con personaggi così: uno spaccato di melanconica vita locale con una punta di humour. Certo che se lo sviluppassi… Non arrivo al taccuino con questo orso addosso.

    «Ancora qua?» Urlò Vareno: «Vuoi capire o no che te ne devi andare. Lascialo perdere a Saverio. Ci metto le vipere tra quei rami così la prendi una svegliata, mi sono stufato di buttarti giù le tane.» E aggiunse rivolto a Fedro: «Purtroppo ancora non sta con nessuna.»

    Un sibilo fischiò nell’aria seguito da un rumore sordo come di un sasso su un pezzo di legno e il resto della donna uscì dalla siepe urlando e grattandosi il sedere con i capelli arruffati color paglia pieni di foglie. Ada scappò verso un campo gridando: «Saverio ti amo, mi merito questo e altro, amore mio.»

    Un ragazzone sbucò dalle canne palustri alla sinistra di Fedro, per una manciata di centimetri non arrivava ai due metri, spalle taurine, cosce da rana e pancia prominente. Con una mano reggeva la carabina ad aria compressa e con l’altra si lisciava i sottili baffi neri ben curati che si adagiavano su una bocca larga. Le labbra sparivano nel sorriso lasciando il posto a una dentatura candida e regolare come una fila di auto posteggiate in linea in un parcheggio di Zurigo.

    Tra gli incisivi tracimò un mugugno di rincorsa, come se stesse scaldando i polmoni prima di partire e a motore pronto riuscì a ficcare tra le risate in un italiano pulito, ma cantilenato: «Visto! Ada si allena a correre i cento metri con l’aiuto del mio amico.» Accarezzò la canna della carabina: «Deve riuscire a seminare i pallini prima che la prendano. Come ballavano quelle tettone, quasi scappavano per conto loro. Babbo, hai raccattato per strada il nuovo vicino. Mannaggia a li pescetti era meglio la moglie però, passa tutte le mattine correndo. Lo so, era troppo veloce per te.» Allungò una manona e disse: «Sono Saverio Cecagallina e grazie per avermi riportato il vecchio rintronato.»

    Il figlio è peggio del padre, ma è un marchio di famiglia far star male la gente. Amalia non la deve nemmeno guardare, pensasse a quella poveraccia, gli ha sparato alle spalle e se l’avesse presa in un occhio avrei dovuto pure chiamare un’ambulanza. E pensare che volevo solo camminare fino al paese.

    Fedro osservò meglio Saverio e non riuscì a trattenere un risolino. Il viso era tondo e bonario, sembrava il gambo di un porcino; il cappello consisteva di spaghi neri a caschetto, più simili a quelli di un frate francescano che ai capelli di Paul McCartney nel suo periodo migliore; il volto era butterato, eredità dell’acne giovanile; gli occhietti erano azzurri e un po’ a mandorla, ingranditi da occhiali da vista a goccia con montatura sottile; il collo era quasi inesistente e quel poco era coperto dalla base bulbosa del fungo, un papillon verde acceso con pallini rosa confetto che si abbinava al maglione di lana del padre.

    «Piacere mio, sono Fedro Soli, ma tanto lo sai già, se posso darti del tu. Dovremmo avere quasi la stessa età e mi conoscete tutti in paese anche se io non conosco nessuno.»

    «Devi darmi del tu, ho solo trentasei anni e come vedi non li dimostro. Perché hai fatto il bagno al babbo e lo stai abbracciando? Te lo vuoi portare a casa fresco e pulito come un bambinetto. Ci sto, però lo scambio solo con la rossa.» Sghignazzò dopo aver preso fiato.

    Fedro si liberò dell’abbraccio di Vareno, sistemò invano i capelli esplosi nei quattro punti cardinali e scendendo passò le dita tra la barba incolta e sulla voglia del collo.

    «Tuo padre è caduto nel canale, poi è scivolato e si è storto una caviglia. L’ho solo aiutato a tornare a casa, ora lo lascio alle tue cure, è stato un piacere conoscervi, a presto.»

    «E no» lo bloccò Vareno, «voglio ringraziarti per la gentilezza, questa sera vieni da noi a cena con tua moglie e che non senta un no uscire dalla bocca.»

    Nella mente di Fedro passò un no, un assolutamente no e un che sono scemo a cenare con questi. Il pensiero però morì in gola prima di venire alla luce. Di sicuro il vino sarebbe stato ottimo, a giudicare dai versi degli animali che arrivavano molto oltre la cancellata anche il cibo sarebbe stato degno, Amalia borbottava sempre che con i vicini avevano solo contatti commerciali e non si erano ancora integrati, ma soprattutto l’eccentricità dei personaggi stuzzicava l’artista e rispose con l’acquolina in bocca per il libro che avrebbe potuto prendere vita da loro.

    «Allora sì.»

    Capitolo II

    Aqua Pramzan

    «Suonano, muoviti vedi chi è. Ma guarda se ti sembra l’ora di lavorare, tutto il pomeriggio a fare un cazzo e ora che dobbiamo uscire ti metti a scrivere i testi per quel sito di allevamento di struzzi.»

    «Arrivo arrivo, sto scrivendo altro. Butto giù le idee per il mio nuovo libro, devo ricordare ogni sfumatura di quello che è successo oggi. Vedrai Saverio e Vareno quanto sono pittoreschi e inopportuni.»

    Un auto si era fermata al cancello, Fedro aprì la finestra e riconobbe il caschetto biondo e il seno prosperoso, ora immobile, che trasbordava dal piumino avana sbottonato a metà.

    «Buonasera.»

    «Salve, scusi il disturbo, sono Ada Pompili la moglie di Saverio posso parlarle? Non le farò perdere tempo.»

    «Arrivo.»

    Chiuse la finestra, si poggiò al corrimano della scala e grattando la testa chiamò Amalia che era in bagno a prepararsi.

    «Quando hai finito scendi e prendi la macchina e cerca di muoverti, non lasciarmi troppo tempo solo con quella.»

    «Va bene. Chi è? La tizia che mi dicevi prima? Se vuoi le parlo io e vedi come si squaglia da qua davanti in un attimo.»

    Fedro a malapena udì la risposta, era già caduto nel suo mondo, pensava a come comportarsi e a cosa avrebbe detto, la prima idea che gli balzò in testa fu quella di cacciarla senza permetterle di parlare, ma sarebbe stato maleducato, lui non poteva comportarsi così con una donna alle porte di casa propria e inoltre poteva essergli utile.

    Aprì e la trovò sul vialetto assemblato con scarti di marmista che Amalia aveva recuperato nei suoi giri, le pietre erano state piazzate a terra in un mosaico di colori. Gli occhi ocra di Ada erano squarci larghi in un volto tondo e lo inchiodarono subito all’uscio. Erano a caccia, studiavano l’approccio in cerca di un punto debole, il lato giusto per ghermire la preda.

    «Non voglio disturbarla. Ho sentito Saverio e mi ha detto che sarete suoi ospiti a cena nella grande casa.» E studiò la reazione prima di proseguire: «Voglio parlarle con il cuore in mano anche se non la conosco. Io lo amo e lui ama ancora me ne sono convinta. Deve badare al padre e alla nonna e solo per questo abbiamo problemi. La famiglia di origine non dovrebbe mai mettersi in mezzo, ma lo costringono a tenermi lontana. Due anime gemelle non possono essere separate a lungo. Mi vuole punire e ha ragione, fa bene, ciò che è successo oggi è giusto, quando si sarà sfogato tornerà e io sarò lì ad aspettarlo. Lo bloccano… sono sicura che gli stanno cercando un’altra donna, ma lui rimarrà fedele.»

    Liberatene, sento puzza di trappola, dove vuole arrivare. Amalia muoviti, forza.

    «Perché mi dice questo? Sarà così, ma ne deve parlare con lui e non con me. Io l’ho conosciuto solo oggi.»

    «Ho capito dal telefono che ha fatto una buona impressione su di lui e ha l’approvazione del padre. In paese conosce tutti, ma è una persona sola, fatica e bada a quegli ingrati. Firmino, il suo vero amico, l’ha abbandonato per lavoro ed è rimasto con Bacco, un cane infimo e cattivo. Presto potrebbe avere un ascendente su di lui e farlo ragionare.» La voce tremò e ammiccando aggiunse: «Se mi aiutasse, le sarei infinitamente grata. Ho un ristorante stellato a Perugia e, se posso darti del tu, sarai un gradito ospite ogni volta che vorrai, vale anche per Amalia, si chiama così giusto? Ho letto bene sul citofono? Non devi fare altro che passarmi informazioni, essere i miei occhi nella casa e al resto ci penserò io.»

    Ada allungò il bigliettino da visita di Le Petite Rose con scritto a penna il suo numero di cellulare. Fedro conosceva il locale e tornarono alla memoria le sere in cui rientrava nella casa di Porta Sole quando era all’università insieme all’amico d’infanzia Gianluca Ferrari. Passavano sempre davanti al ristorante vicino l’ingresso del Pozzo Etrusco e fantasticavano di abbuffate tra i signorotti di Perugia.

    Non si trattenne e le rise in faccia. La distonia tra il locale, Ada, i glutei, la rosa dei pallini, la corsa forsennata e il papillon di Saverio soggiogò i freni inibitori.

    La donna strinse i pugni, il vapore acqueo uscì dalle narici in tensione e come una bottiglietta a pressione saltò il tappo, si diresse di corsa alla Lancia Ypsilon Elefantino bicolore nuova e se ne andò senza salutare.

    La Mini Cooper rosso fuoco con bande bianche sul cofano anteriore e sul tettuccio giunse dal parcheggio del casale, Fedro aveva lo sguardo rivolto al cancello pedonale rimasto aperto. Rinvenne al sentire il motore MINI TwinPower Turbo a tre cilindri domato da Amalia. Lei adorava i capelli rossi e negli anni aveva provato diverse tonalità, secondo lui la sfumatura aranciato che aveva in quel periodo si abbinava alle lentiggini che sostenevano le iridi colore di giada. Le sopracciglia castano chiaro, appena abbozzate, puntavano al cielo e la bocca era quella di una bambola di porcellana con labbra carnose e denti fini, al centro del volto aveva un nasino alla francese così delicato che Fedro temeva di rompere ogni volta che la baciava.

    Quella donna non se lo meritava, poteva almeno lasciarmi spiegare. Se perdessi Amalia riuscirei a essere così determinato? Mi umilierei a tal punto? È la mia locomotiva e io il suo carbone, siamo come lo yin e lo yang, ci colmeremmo se non fosse per gli attriti…

    «Sei rimasto scioccato. Ti muovi o vado a prendere un panino e ce lo mangiamo qua, anzi lo mangi da solo e io vado a cena dai tuoi nuovi amichetti.» Disse sporgendosi dal finestrino.

    Fedro salì e con la punta dell’occhio osservò la moglie per tutto il tragitto mentre raccontava l’accaduto, era folgorato, come se la vedesse per la prima volta.

    I cardini cigolarono quando il cancello a due battenti li lasciò entrare, le ante in ferro battuto zincato istoriate con motivi floreali avevano incastonate le lettere M di Mevania decorate con riccioli d’oro alla base delle stanghette smussate. Oltre la recinzione in muretto e ferro battuto inglobata da spogli rami di biancospino, una serie di lanterne agganciate a delle barre curve, come una famiglia di lucciole, circondava i quattro settori del giardino all’italiana che accoglieva i clienti. Viuzze di ghiaia in scaglia rosa del Monte Subasio dividevano le parti del parco della cantina vinicola, il crocicchio al centro era uno spiazzo circolare attorniato da panchine in legno di castagno. I quattro rettangoli avevano uno spigolo rubato dalla piazzetta e ognuno era delimitato da un parallelepipedo di bosso i cui rami scendevano a terra e coprivano i tronchi. Le siepi proteggevano la gramigna interna dal freddo e al centro di ogni settore si ergeva una statua di Dioniso in pose diverse. Era come se la divinità testasse la sete di chi attraversava il giardino.

    La macchina percorreva il viale e a Fedro sembrava di essere nel Parco Ducale o nella zona centrale dell’Orto Botanico di Parma, notava la compiutezza del luogo, ogni filo d’erba era alto come il vicino, ogni ramo non si spingeva più in là del bordo e ogni foglia secca era stata proscritta. Parcheggiarono nel piazzale al di là del giardino, alla sinistra di una botte ovale in rovere di slavonia da venticinque ettolitri, di fronte a un portone chiuso in legno di frassino marrone scuro con sopra l’insegna della Cantina Mevania nello stesso stile delle M del cancello rubato a un manoscritto del Settecento e la citazione: Il calor del sole che si fa vino.

    Il vento vibrava tra i rami e aveva scacciato le nubi, il disco lunare galleggiava nel cielo terso protetto dalle stelle che come cavalieri difendevano la corona e rischiaravano l’intero giardino. Vareno zoppicando si avvicinò allo sportello di Amalia e lo aprì. Una decolleté con tacco a campana rosso lampone poggiò sulla ghiaia e con uno slancio vennero fuori le gambe serrate nei pantaloni di lana cotta della stessa tonalità di rosso, le ginocchia quasi si toccavano e Amalia uscì nel suo metro e settanta di forme morbide. Il maglione verde menta sporgeva dal cappotto nero aperto e lasciava intravedere due pungiglioni. Fedro indossava gli abiti del pomeriggio, aveva cambiato solo la maglia nera in pile con una in lana dello stesso colore.

    «Salve, sono Amalia Senatori, la moglie dell’infermiere, come ho saputo.» Si presentò allungando la mano.

    «Piacere mio, sono Vareno Cecagallina e aveva ragione mio figlio sarebbe stato meglio cadere tra le sue braccia.» Rispose con un occhiolino stringendole la mano.

    «Buonasera, come va la caviglia si è gonfiata?» Si intromise Fedro.

    «Mi fa vedere le stelle, è diventata come una zampogna.» Disse tastando i pantaloni in velluto grigio topo: «Ora, però, almeno sta al caldo e all’asciutto. Saverio ha avuto un contrattempo e ci raggiungerà in casa.»

    Fedro rabbrividiva e si diresse al portone tenendosi le braccia. Vareno esplose in una risata: «Hai mangiato il pollo arrosto? Hai già sete che vai in cantina, Brigitta ha chiuso e se n’è andata a cena. Ubriacone, la casa è di qua.» Disse indicando un cancello laterale dieci metri più in là del portone, nello stesso lato della botte.

    Lo aprirono e percorsero il viottolo, con l’incedere l’ordine tramutava in disordine come percepì nella penombra. A naso avvertì, oltre la rimessa dei mezzi agricoli, prima il pollaio, poi la porcilaia e infine la stalla delle mucche. A passo lento arrivarono davanti a un recinto che a primavera avrebbe ospitato oche, anatre e tacchini, come spiegò Vareno. La stradina di pietrisco calcareo terminava in un’aia lastricata. Un lampione di fianco a un fienile, o, come lo chiamò l’uomo, il magazzino delle schifezze di Saverio, rischiarava la corte aiutato da un secondo faro allo spigolo del caseggiato e da un terzo sopra il portone d’ingresso in alluminio. Tra lo spiazzo e la recinzione in rete plastificata a maglia sciolta c’erano altri cento metri quadrati di terreno all’apparenza a riposo, in una piccola parte erano coltivate delle insalate invernali e del cavolo nero. Dirimpetto al fienile, oltre l’aia, un carport auto in legno sorretto da quattro colonne di mattoncini ospitava per la notte una Fiat Punto grigio metallizzata del duemila, un Piaggio Porter bianco e una Jeep Wrangler giallo senape. Infine un frutteto costeggiava il lato opposto della casa.

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